EPITTETO
Epitteto (50 - 125 circa d.C.) è – insieme con Seneca e con Marco Aurelio – il massimo esponente della cosiddetta "Nuova Stoà", ovvero dell’ultima grande fase che la scuola stoica conobbe dopo la sua fondazione (la "Stoà antica" di Zenone di Cizio e Crisippo di Soli) e dopo la sua fase intermedia (la cosiddetta "media Stoà" di Panezio di Rodi e di Posidonio di Apamea). Epitteto nacque a Ierapoli, in Frigia; dapprima schiavo, gli fu poi concessa dal padrone la libertà e in seguito, espulso da Roma sotto Domiziano, si ritirò a Nicopoli in Egitto, dove aprì una propria scuola filosofica. Tra i frequentatori di essa ci fu Arriano di Nicomedia, che all'inizio del secondo secolo d.C. trascrisse dalla viva voce del maestro le lezioni e le conversazioni in un'opera intitolata Diatribe. Nella composizione di quest'opera, Arriano assunse a modello i Memorabili di
Socrate di Senofonte, nell' intento di presentare Epitteto come un nuovo Socrate. Dalle Diatribe fu poi estratto un insieme di massime, intitolato Manuale (Egceiridion), che godette grande fortuna ed ha avuto come insigne traduttore in italiano Giacomo Leopardi. Le Diatribe riferiscono gli insegnamenti di un ex schiavo, ma non possono essere interpretate come il documento di una diffusione della filosofia tra i ceti popolari: infatti, l'accesso alle scuole filosofiche era molto più agevole per schiavi di famiglie ricche, come era stato il caso di Epitteto stesso, che per cittadini poveri costretti a lavorare per sopravvivere. In realtà, le Diatribe sono soprattutto lo specchio di ciò che lo stoicismo poteva offrire ai bisogni e alle aspettative dei ricchi e nobili frequentatori della scuola di Epitteto: questo era fondamentalmente il suo pubblico. A differenza di Seneca, Epitteto é un filosofo di scuola e, quindi, riconosce l'importanza dell'addestramento dialettico e della conoscenza delle teorie logiche costruite dagli stoici antichi. Ma la scuola filosofica é soprattutto una casa di cura, dove occorre anche sapere come e dove applicare i farmaci predisposti dalla dialettica. Anche Epitteto - come Seneca - parte dalla dicotomia tra ciò che dipende da noi (ta ef’hmin) e ciò che non dipende da noi (ta ouk ef’hmin). La prima sfera, la sfera della libertà, é identificata con l'uso corretto non delle cose, che di per sè non dipendono da noi e non sono beni, quanto dalle rappresentazioni delle cose: soltanto in questo uso si trova la matrice del bene e del male. Tutti gli uomini hanno la nozione che il bene é utile e deve essere cercato, e l'errore può nascere quando si tratta di decidere se una determinata cosa é bene. Riprendendo un termine aristotelico, Epitteto denomina "scelta preliminare" (proairhsiV) questo principio fondamentale di scelta, che é stato donato agli uomini dalla divinità. Esso consente di valutare correttamente le cose, in primo luogo di determinare se dipendono o no da noi e di agire conseguentemente: in questa zona franca il mondo esterno non può avere influenza. L' operazione é rassicurante, perchè individua un territorio di cui si può essere integralmente padroni in qualsiasi circostanza. In questa prospettiva, la stessa distinzione giuridica tra libero e schiavo tende a diventare irrilevante anche nel pensiero dell' ex schiavo Epitteto, come già in Seneca: all’uomo in quanto uomo è dato agire bene, a prescindere dalla sua condizione sociale e dalla sua provenienza, poiché la patria di ciascuno, in realtà, è il mondo intero (in ciò consiste il cosmopolitismo di Epitteto, anche in questo fedele alla linea stoica). Dunque, si tratta di recitare bene la parte assegnata a ciascuno dalla divinità: "non devi adoperarti perché gli avvenimenti seguano il tuo desiderio, ma desiderarli così come avvengono, e la tua vita scorrerà serena" (Manuale, 8). Il modello indicato dal dio agli uomini per Epitteto é Diogene di Sinope, il vero cinico, libero di fronte al tiranno, ma che non ha nulla in comune con i nuovi cinici, che percorrevano le città dell'impero costruendo la loro identità soltanto con atteggiamenti esteriori (la barba, la bisaccia e il bastone). Una summa della filosofia di Epitteto é ravvisabile in quanto egli dice nel Manuale: "non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti. Per esempio, la morte non è nulla di terribile (perché altrimenti sarebbe sembrata tale anche a Socrate): ma il giudizio che la vuole terribile, ecco, questo è terribile. Di conseguenza, quando subiamo un impedimento, siamo turbati o afflitti, non dobbiamo mai accusare nessun altro tranne noi stessi, ossia i nostri giudizi. Incolpare gli altri dei propri mali è tipico di chi non ha educazione filosofica; chi l'ha intrapresa incolpa sé stesso; chi l'ha completata non incolpa né gli altri né se stesso"; é evidente la matrice stoica, il prendere la vita per quella che é , senza lamentarsi, ma cercando di vivere nel migliore dei modi possibili, proprio perchè il nostro é il migliore dei mondi possibili. Epitteto rimane nell’ambito della concezione immanentistica tipica della Stoà, ma la sua visione della divinità risulta di fatto assai spiritualizzata, ed egli arriva ad affermare – con linguaggio quasi cristiano – che "veniamo tutti da Dio" e che "Dio è padre degli uomini e degli dei" (Diatribe, II, 8, II).