Epicuro, Lettera sulla felicità a Meneceo

di Antonietta Pistone

 

 

La filosofia è ricerca di verità. Ma uno dei compiti fondamentali della  euristica filosofica riguarda l’individuazione di mezzi e strumenti per raggiungere la felicità. La religione, come tecnica di salvezza e di rassicurazione per l’uomo, rappresenta una delle metodiche finalizzate a garantire il benessere dell’animo e la pace interiore. La religione, che non sia però intesa necessariamente come fede nell’esistenza di un solo dio, di un’anima immortale, o di una morale simile a quella della tradizione cattolica. Riconosciuta piuttosto come possibilità di liberazione e di rifugio, come farmaco per la guarigione dei mali dell’anima. «Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità»[1], con queste parole comincia la Lettera sulla felicità che Epicuro scrive a Meneceo, per parlargli della filosofia come quadrifarmaco, contro la paura degli dei e della morte, del dolore e del piacere, che risulta essere il solo fine della ricerca filosofica in grado di assicurare benessere all’uomo. La felicità risulta un compito doveroso per giovani e vecchi, perché non esiste un’età per essere felici, ma anche e soprattutto perché l’aspirazione alla gioia dovrebbe comprendere l’intero segmento esistenziale, accompagnandolo dalla nascita al momento del suo tragico epilogo, con la morte. La letizia, però, non è solo ricerca, ma anche conoscenza delle cose che la rendono possibile ed attuale, e che determinano quel senso di compiutezza, che fa percepire il possesso di ogni bene, oltre il quale tutto è privo di senso e di valore. È poi bene essere appagati perché il ricordo delle gioie passate è sempre capace di riempire il presente che sia meno gaio di quello. Ma anche l’attesa, l’aspettativa della gratificazione, conferiscono uno scopo significativo per la vita dell’uomo che, altrimenti, non avrebbe valori imperituri cui ispirarsi. I giovani che vivono nell’aspettativa della contentezza, si irrobustiscono e fortificano nello spirito, perché conducono un’esistenza di speranza e di fede nel futuro, che li invita a gioire delle esperienze di vita che fanno in tenera età. Gli anziani, invece, possono contare su un cospicuo bagaglio di bei ricordi, che li fa sentire giovani anche quando il tempo della spensieratezza è ormai trascorso. «Considera l’essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata»(pag.7), continua poi Epicuro, a voler significare che non ci può essere felicità che non passi per le questioni concernenti le nozioni di divino e di divinità, e per di più esprimendosi esplicitamente a favore di una concezione innatista di tale ente noumenico. La divinità rappresenta il livello eccelso di beatitudine pensabile. Quando si pensi ad essa, non ci si può discostare dall’immaginarla come dotata di tutte le caratteristiche simili a quelle di qualunque altro essere vivente, solo massimamente amplificate e rese superlative dalla condizione di esultanza e giubilo che le accompagna. Epicuro, pur rifiutando la fede monoteistica in un solo dio, confida nell’esistenza degli dei, «Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha»(pag.7). E ritiene questa loro esistenza evidente a tutti, per il solo fatto che non c’è uomo che non la creda possibile, a partire dalla convinzione innata del divino, profondamente radicata nella coscienza di ciascuno. Essere religiosi, per Epicuro, vuol dire essere profondamente certi della evidenza e della sostanziale profondità dell’idea infusa del divino. Comprendere la naturalità del senso religioso, che è un comune intuire riguardo alla domanda concernente la divinità, ed emergente nella coscienza di ogni uomo. Avere consapevolezza che non ci sia essere umano al mondo che non si ponga, prima o poi, questo sconcertante interrogativo. Al quale si risponde sempre con l’ammissione della certezza istintiva di un senso religioso del divino, prorompente ed inquietante. Al contrario, l’accettazione incondizionata ed indiscussa delle tradizioni popolari non vuol dire affatto essere religiosi. Perciò religioso è colui che riconosce e accetta in sé questo senso della divinità come connaturato. Gli dei non possono nuocere all’uomo, perché vivono negli intermundia, lontani dai problemi della vita terrena, e si gloriano costantemente del loro stato di assoluto e perfetto compiacimento. Perciò, non avendo bisogno di nulla, non hanno necessità di arrecare danno ad alcuno degli umani, completamente indifferenti come sono alle vicende che li vedono coinvolti. E simpatizzano solo con i loro stessi simili, cioè con le altre divinità. E nemmeno la morte, esperienza irreversibile e assai temuta dagli uomini, può far loro alcun male. Godere e soffrire sono disposizioni dell’animo che sente. Mentre la morte si pone come la risolutiva negazione di ogni sentire, perché ne costituisce l’assenza assoluta. La morte, per l’uomo, è nulla. Perché quando lei subentra, l’uomo non è più. «La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più»(pag.9).  L’uomo saggio accetta la morte serenamente, così come ha vissuto. E se la vita non è per lui un male, non sarà un male nemmeno il morire. Piuttosto che scegliere per sé il tempo più lungo, sceglierà quello più dolce. Nella consapevolezza che il bene più grande sia sempre la vita. Il vecchio, perciò, dovrà amarla quanto il giovane, e non desiderare la morte perché ormai sente il suo tempo approssimarsi alla fine. La vita è sempre ricolma di dolcezza, e soprattutto il vivere costituisce un’esperienza unica ed irripetibile. Chi poi non sia affatto soddisfatto della vita, può liberamente scegliere di darsi la morte. Epicuro accetta la possibilità del suicidio, ma solo per colui il quale abbia compreso che non vi è alternativa immaginabile ad un esistere riconosciuto ormai come un non senso, perché non più corrispondente alle personali aspirazioni dell’essere umano. Se, invece, si decide al contrario di vivere, allora  è necessario adoperarsi per la vita sino in fondo. «Ricordiamo poi che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro»(pag.11). Il destino dell’uomo è, in qualche modo segnato, ma ci sono dei margini di libertà, che sono lasciati alla emancipata determinazione della sua scelta. Come il vivere, il vivere bene, o il decidere di farla finita, nella convinzione che la vita non valga la pena di essere vissuta fino in fondo e con coerenza. Così l’uomo può desiderare autonomamente. Ma tra i desideri possibili solo alcuni sono naturali, e corrispondono a quelli necessari, mentre i restanti sono inutili. E senz’altro tra i desideri necessari vi è quello fondamentale alla felicità, al benessere fisico, e alla stessa vita. Vivere pienamente, cioè, è la stessa cosa che stare bene ed essere felici. Una vita che non contempli lo stato di benessere psico-fisico non è una vita probamente spesa. Soprattutto, è giusto che vi sia una buona conoscenza dei desideri, perché ogni scelta operata dall’uomo finisca per armonizzarsi con lo stare bene nel corpo e con la serenità dell’animo. Chi non conosce profondamente il valore dei desideri umani, non è nemmeno capace di assecondarli e di gestirli al meglio. Fine dell’agire è il raggiungimento del piacere, e l’evitamento del male, della sofferenza e dell’ansia. Nella condizione di serenità ogni turbamento interiore cessa di esistere, e lo stato di calma procura beneficio anche al corpo. La sofferenza che si prova è chiara testimonianza dell’assenza di piacere, che muove al bisogno. Quando non si soffre vuol dire che c’è il godimento. «Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore»(pag.13). Piacere e dolore sono i due estremi entro i quali si estrinseca e determina l’esistenza umana. Al fine di evitare il dolore ogni uomo agirà per procurarsi il piacere, il cui primo livello è determinato dall’abbandono della condizione di sofferenza precedentemente provata. Ogni piacere è un bene in sé, in quanto allontana dal dolore, ma non per questo ogni piacere è da ritenersi, in ogni caso, preferibile. Va operata la distinzione tra piaceri necessari e piaceri inutili, che sono da ritenersi superflui al raggiungimento dello stato di benessere e di felicità. Allo stesso modo ogni dolore è un male, ma non per questo ogni dolore è, necessariamente, da fuggire. Spesso ciò che, apparentemente, sembra essere un bene, si rivela poi un male. E viceversa, ciò che appare un male, dimostra successivamente di essere un bene. Una delle condizioni che contribuiscono al raggiungimento della felicità è l’affrancamento dai bisogni, sia per imparare ad accontentarsi di poco, sia per apprezzare e godere di quello che si ha. «I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, l’acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca. Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi d’apprensione verso i bisogni della vita ma anche, quando ad intervalli ci capita di menare un’esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e ci rende indifferenti verso gli scherzi della sorte»(pag.16 e seg.). Pare qui di intuire lo spirito precursore della semplicità francescana del vivere. Basta poco per essere felici, perché le cose davvero indispensabili sono facilmente reperibili, al contrario di quelle superflue. L’importante è imparare a godere di quei valori semplici, primitivi, ma immortali, che rendono l’uomo avvezzo al minimo, e grande estimatore del molto. Perché chi non sia abituato ad uno stile spartano di vita, non si forgia nella durezza, ed è anche incapace di apprezzare gli agi delle comodità, quando questi a lui si presentassero. Il piacere di cui parla Epicuro non è quello dei goderecci. La prima forma di piacere è l’allontanamento del dolore causato dalle paure più diffuse dell’uomo, come quella degli dei e della morte. Secondariamente il piacere consiste  in ciò che aiuta il corpo a vivere meglio, assicurandosi quella condizione di benessere psico-fisico, indispensabile ad un sereno svolgersi dell’esistenza umana senza traumi e lacerazioni interiori. Quindi, tutto «quanto aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno»(pag.17). E a discernere rettamente le cause della scelta e del rifiuto, attraverso l’intelligenza delle cose, che si apprende, e che è arte superiore anche alla stessa filosofia. Difatti essa è madre di tutte le virtù, e realizza che non si dà vita felice che non sia anche intelligente, bella, giusta, virtuosa. Perché è felice l’uomo giusto e virtuoso. Riemerge, in questo tratto della lettera di Epicuro, l’intellettualismo socratico che ha caratterizzato di sé tutta la filosofia antica. Il pensiero cristiano segna poi la svolta definitiva, attraverso l’affermazione della scelta morale libera, e nient’affatto condizionata dal sapere e dalla conoscenza umana del bene. «Chi suscita più ammirazione di colui che ha un’opinione corretta e reverente riguardo agli dei, nessun timore della morte, chiara coscienza del senso della natura, che tutti i beni che realmente servono sono facilmente procacciabili, che i mali se affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti se lo fanno a lungo vuol dire che si possono sopportare?»(pag.19). L’uomo saggio è colui che accetta il senso del divino che è innato in ognuno. È colui che sa che proprio questo vuol dire essere profondamente religiosi. Ed è perciò, colui il quale è consapevole che la religiosità sia patrimonio naturale universale ed irrinunciabile per gli uomini di tutti i tempi storici e di tutte le latitudini geografiche. Ma proprio perché saggio, è anche colui che riconosce il mancato fondamento della paura degli dei, che vivono lontani dall’uomo e indifferenti alla sua sorte. E nega ad un tempo il timore della morte, che subentra alla vita, nel momento in cui questa cessa di essere, annullando anche ogni dolore esistenziale. Il saggio è il filosofo che riconosce come prioritaria la ricerca del piacere, intesa come superamento delle umane paure, poi come evitamento del dolore, che non è nulla, in quanto se dura molto è sopportabile, se dura poco ed è intenso conduce alla morte, che è assenza di ogni forma di sentire. «Questo genere d’uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi il biasimo e la lode»(pag.19). Epicuro crede al destino fino ad un certo punto; ma gli preferisce senz’altro il volere degli dei e la libertà dell’uomo. E fa capire che l’agire morale può incidere sull’andamento degli eventi in modo significativo. Ed è perciò utile che l’uomo saggio sia consapevole di questa possibilità che ha di modificare la sua propria vita, compiendo scelte morali lungimiranti e virtuose, che lo allontanino dallo spettro del dolore, inteso qui come necessaria conseguenza del male morale. Leibniz nella Teodicea riprenderà esattamente questa distinzione tra male metafisico, che è connaturato al limite insito nell’esistenza umana finita; male fisico, che è originato dal dolore e dalla malattia; male morale, che deriva direttamente dalle cattive scelte operate dall’uomo, e che a sua volta può determinare conseguenze rilevanti nel riprodurre se stesso anche sul piano del male fisico. «Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell’atroce, inflessibile necessità»(pag. 19 e seg.), continua Epicuro. E invita l’uomo a conseguire l’arte della saggezza, meditandola come esposta sin qui, per vivere come un immortale tra i mortali, come un dio, perché «non sembra più nemmeno mortale l’uomo che vive fra beni immortali»(pag.21). È ovvio che i beni immortali di cui si parla sono i frutti dello spirito e della saggezza, che si tramutano in virtù imperiture, le sole capaci di sollevare l’uomo al di sopra delle passioni terrene, e di renderlo simile ad un dio, senza paure, libero, capace di gioire e di godere dei beni della vita, felice, in una parola. Una felicità impossibile da conseguire, per Epicuro, senza il ricorso alla religione. Che risponde, ad un tempo, al bisogno di infondere all’uomo certezze, e alla necessità di procurare un appagamento stabile, inteso nella forma di un piacere duraturo. Simile senso del divino si ritroverà poi in Feuerbach, nei suoi studi sulla essenza del cristianesimo e della religione naturale.



[1] Epicuro, Lettera sulla felicità a Meneceo, Millelire Stampa Alternativa Marcello Baraghini, Roma 1992, pag. 5




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