INTRODUZIONE ALL'ERMENEUTICA
Tra opera d’arte ed ermeneutica intercorre un rapporto forte, e lo si può già presagire dal fatto che l’ermeneutica si costituisca come posizione filosofica che intende sottrarsi alla determinazione scientifica: e in effetti, soprattutto negli ultimi anni e in Italia, più che disciplina a sé stante è stata concepita come corrente filosofica (un po’ come era accaduto per la semiologia negli anni ’70 del Novecento). L’ermeneutica così come la concepiamo oggi nasce a partire da una svolta avvenuta negli anni ’30 del Novecento come conseguenza dell’esistenzialismo tipico di quegli anni; per dare una definizione generale, potremmo dire che essa è la "scienza" che si occupa dell’interpretazione: prima della svolta poc’anzi menzionata, l’ermeneutica era una disciplina importantissima in ambito giuridico (per l’interpretazione della legge), teologico (per l’interpretazione dei testi sacri) e filologico. Si tratta dunque di una disciplina ausiliaria utilissima per interpretare i testi e per integrare quelli corrotti. Ma l’ermeneutica non si limita ad interpretare i testi, bensì fissa essa stessa le regole di interpretazione: la parola deriva dal greco
ermhneia e gli antichi greci se ne servivano in modo piuttosto differente e oscillante rispetto a noi. Per esempio, Aristotele nella sezione dell’Organon intitolata Peri ermhneiaV (in latino "De interpretatione") parla della struttura della lingua, dei segni fonetici, cosicchè l’ermeneutica rientra, nella prospettiva aristotelica, a pieno titolo nella logica. L’uso che del termine fa Platone è meno preciso rispetto a quello aristotelico: il filosofo delle idee impiega la parola "ermeneutica" per designare la "traduzione", in riferimento non solamente alla trasposizione in un’altra lingua rispetto alla nostra, ma, paradossalmente, riferendosi alla traduzione nell’ambito della nostra stessa lingua: è infatti evidente che tutti, chi più e chi meno, abbiamo la tendenza a riportare i termini che sentiamo ad un linguaggio che ci è proprio. Secondo la prospettiva di Franco Bianco ("Introduzione all’ermeneutica"), è nell’Ottocento che si riscontra la prima grande trasformazione del significato dell’ermeneutica: essa viene impiegata per interpretare i testi e si sgancia definitivamente dalla scienza; ma oltre che interpretare i testi, essa li spiega anche. Il positivismo sviluppatosi in quegli anni, tende a leggere la realtà come susseguirsi di fatti (cosicchè, per addurre un esempio, la malattia deriva dai batteri). Però esistono anche altre scienze oltre a quelle della natura (tra le quali rientra appunto il positivismo): esistono cioè anche le scienze dello spirito, che non hanno la pretesa di "spiegare" (il tedesco usa il verbo "Erklaren"), come invece avviene per quelle della natura, ma si propongono invece di comprendere lo spirito attraverso l’interpretazione. Nei paragrafi 31-34 di "Essere e Tempo", Heidegger legge l’interpretazione come determinazione ontologica, cosicchè l’uomo stesso è comprensione, il suo essere è definito dal comprendere. Ancor prima di Heidegger, il teologo Schleiermacher ha redatto una "Ermeneutica generale", prospettando l’idea innovativa che l’ermeneutica, in fin dei conti, non sia legata ad una disciplina particolare e che quindi essa sia autonoma; naturalmente, pur essendo di fondamentale rilievo le novità introdotte da Schleiermacher, la grande svolta dell’ermeneutica avverrà nel Novecento grazie a Heidegger e a Gadamer. Abbiamo accennato alla distinzione tra il comprendere e l’interpretare: in realtà gli antichi greci non facevano alcuna distinzione tra i due termini; è invece in Tommaso che troviamo una netta separazione tra i due aspetti: il latino, del resto, presenta il termine "comprehendo", che letteralmente significa "prendere insieme" ed è sinonimo di "intelligere". Tommaso, tuttavia, usa in due diverse sfumature questi due verbi: a suo avviso, posso "comprehendere" le cose riguardanti la fede (ad esempio Dio), ovvero quelle cose che non si identificano mai con un oggetto esterno. Dio infatti non lo posso "vedere", ma, ciononostante, lo posso trovare nel testo della Scrittura: se non parlo di Dio non posso capirlo (basta anche un colloquio intimo con se stessi). Invece, le cose esterne (gli alberi, gli animali, ecc) che non sono espresse linguisticamente possono essere spiegate: non più "comprehendo", ma "intelligo". Queste problematiche, del resto, erano già in qualche misura sentite da Platone: la seconda parte del "Fedro" è dedicata al rapporto tra retorica e dialettica, dove quest’ultima è intesa come dimensione che c’è nella misura in cui riconosco l’esistenza di strutture del pensiero: come dire che si tratta di cose che ci sono perché le penso (Dio, la giustizia, la bellezza o, per toccare la tematica portante nel Fedro, l’amore). Aristotele, dal canto suo, riserva la dialettica esclusivamente alle cose etiche, come se per lui le cose potessero sempre e comunque essere mostrate in senso concreto. Più vicino, sotto questo profilo, alla posizione platonica è il pensiero di Gadamer: la terza parte di "Verità e metodo" è infatti un’ontologia del linguaggio, tesi esprimibile secondo la formula "ci sono cose che sono perché sono nel linguaggio": in altri termini, secondo Gadamer, l’essere che può essere compreso è nel linguaggio. Questa posizione che tende ad accentuare il comprendere si contrappone nettamente agli atteggiamenti metodici: il titolo dell’opera gadameriana, "Verità e metodo", allude proprio a questo: per accedere alla verità devo rinunciare al metodo, sicchè il titolo dell’opera di Gadamer può in realtà essere letto come "Verità o metodo": se scelgo la verità rinuncio al metodo e viceversa. Il metodo a cui allude Gadamer è soprattutto quello impiegato dagli esponenti del neokantismo, ultimo bagliore dell’idealismo. Come è noto, era stato in buona parte l’esistenzialismo (Kierkegaard soprattutto, ma perfino Schelling, quando parlava di "fondamento") ad opporsi aspramente all’idealismo, contrapponendo allo Spirito e alla sua astrattezza l’esistenza concreta: ora, il pensiero ermeneutico si contrappone al metodo kantiano ed idealistico e dunque trova nell’esistenzialismo un suo naturale alleato. Nel 1927 compare "Essere e Tempo", nel quale viene ribadita l’esistenza contro l’Idea: e, con l’emergere dell’esistenza, affiora anche l’importanza del comprendere, poiché la mia singola esistenza posso solo comprenderla (non "intelligere") dall’interno, è un qualcosa che sono senza ragioni. E l’esistenziale è sempre opposto al metodico, dato che implica l’essere sempre situato emotivamente, al di là di ogni rigido metodo: ad esempio, una cosa mi piace o non mi piace. La posizione esistenziale, dunque, è per molti versi "realista", dove per "realista" dobbiamo intendere quell’attenzione per la realtà a cui ci hanno invitati Aristotele e Tommaso: devo prestare attenzione alla realtà, alle cose che mi circondano, e non al mio procedere mentale, ovvero al metodo, come invece volevano i Neokantiani. E non è un caso che il neokantismo tenda a respingere Aristotele: si può a tal proposito ricordare il titolo di un'opera di un celebre neokantiano, Natorp (Gadamer si è laureato con lui), comparsa nel 1903 e intitolata "La dottrina platonica delle idee"; in quest’opera, l’autore si schiera al fianco di Platone e sostiene che le idee sono le leggi di natura. Viene così espunto il tratto esistenziale: che i corpi cadano o che il sole sorga ogni mattina è vero anche senza che io soggetto esistente lo constati. In definitiva, Hegel stesso aveva una concezione simile: ma contro di lui e in opposizione al suo Sistema, Kierkegaard portava il singolo uomo esistente e sosteneva che Hegel aveva capito tutto fuorchè se stesso. E tuttavia la riproposizione della tematica esistenziale contro il metodo è parsa piuttosto pericolosa sia ad Heidegger sia a Jaspers: proprio quest’ultimo scrive, nel 1935, un’opera dal significativo titolo "Esistenza e ragione"; in essa egli sostiene che l’esistenza ha il diritto di portare avanti le sue ragioni, ma esse non devono andare contro la ragione. Era infatti chiaro a Jaspers che le posizioni irrazionalistiche fiorite in quegli anni non promettevano nulla di buono e il nazismo, in effetti, ne fu la conferma. Similmente, Heidegger, quando nel 1923 tiene il corso sull’"Ermeneutica dell’effettività", dice che per parlare dell’esistenza non è affatto necessario respingere Aristotele (l’errore imperdonabile del neokantismo viene appunto scorto nell’adesione alle tesi kantiane e nel rifiuto pressochè totale di quelle aristoteliche). La filosofia dell’esistenza, dopo la parentesi kierkegaardiana nell’Ottocento, rinasce dopo la tragica esperienza della prima guerra mondiale, sull’onda del fallimento dell’ "idealismo" che l’aveva alimentata (le guerre, a partire dal primo conflitto mondiale, sono diventate "guerre di materiali", ha asserito Jünger): prevale la tendenza ad andare verso il concreto o, come si propone la fenomenologia di Husserl, "alle cose stesse", non al metodo o all’idea. E le cose in questione non sono solamente quelle materiali che ci circondano, ma pure quelle di cui parliamo: in una prospettiva di questo tipo, l’a-priori kantiano non può apparire a Husserl altro che mitologico, poiché è ineccepibile ammettere che la logica preceda il mondo; viceversa, la logica è una cosa come le altre, né più né meno. Ed è per molti versi questo richiamo fenomenologico alla concretezza ad aprire la strada all’esistenzialismo, che a sua volta segnerà una svolta per l’ermeneutica. Perché l’ermeneutica si occupa del rapporto con l’arte? Nel saggio "Sull’origine dell’opera d’arte", Heidegger dice espressamente che si tratta di pensare la cosa stessa, l’elemento "cosale". Per capire meglio questa prospettiva, prendiamo come esempio la musica e la pittura: la musica non intende dirmi cose che potrebbe dirmi anche la filosofia; al contrario, è arte perché mi dà il suono in quanto tale, così come la pittura è arte perché mi dà il colore in quanto tale. A tal proposito, Heidegger conduce una lunga e attenta analisi del quadro di Van Gogh in cui sono raffigurate due scarpe: oltre al fatto che sono tutte e due sinistre, si può notare come esse nel quadro non camminino, ma viceversa vengano colte come oggetti, non nel loro funzionamento. Sia Heidegger sia Gadamer polemizzano fortemente contro l’estetica di marca kantiana, che si propone di tradurre l’arte in termini concettuali (Van Gogh nel suo quadro voleva dire…): soprattutto Gadamer (se Heidegger non parla quasi mai della bellezza, Gadamer invece scrive un saggio "Sul bello", in cui ne parla ma non come dimensione estetica), si schiera apertamente contro la teoria del genio, contro la concezione kantiana, contro l’idealismo, contro l’illuminismo. Egli mira a far notare come esistano diritti dell’arte e come invece l’illuminismo (e con esso Kant) l’abbiano relegata ad un ambito particolare, con la conseguenza che essa è semplicemente una questione di gusto, viene privata del valore conoscitivo riconosciutole invece da pensatori come Tommaso. Per ritornare al rapporto esistenzialismo/fenomenologia, si può notare come il paragrafo 7 dell’introduzione di "Essere e Tempo" sia dedicato alla chiarificazione del termine "fenomenologia": il problema in questione è quello del fenomeno; il pensiero stesso è, se letto in trasparenza, fenomeno, ovvero da descriversi. Se per Kant sono dotato del pensiero e grazie ad esso interpreto il mondo, viceversa per la fenomenologia parto da zero. L’ermeneutica non nega che ci siano fatti: nel paragrafo 1 della "Critica della ragion pura", Kant distingue la forma dal contenuto; a tutto questo, invece, deve sostituirsi il fenomeno. La fenomenologia, del resto, poggia sul presupposto che il fenomeno non appare: Heidegger stesso definisce la fenomenologia come "metodo", in modo beffardo nei riguardi del neokantismo; e poi aggiunge che il fenomeno è ciò che si mostra da sé, sia come cosa sensibile, sia come cosa pensata, respingendo in questo modo la distinzione operata da Kant tra intuizione e pensiero. Si tratta, dunque, di descrivere la datità originaria, togliendo il nascondimento, concetto presente in Heidegger (la nozione di alhqeia ). Contro questo atteggiamento si è schierato apertamente Emilio Betti, il quale, attento conoscitore della filosofia del diritto, ha scritto un’ermeneutica in cui difende l’ideale di un’oggettività, come se ci fosse una dimensione del pensiero in cui le cose hanno una loro validità. Heidegger tenta di sostituire l’ Io penso kantiano col tempo (e in ciò Gadamer lo segue): tutte le mie rappresentazioni devono essere accompagnate non tanto dall’Io penso quanto dal tempo; Heidegger cerca dunque di stabilire una connessione tra Io penso e tempo, cosa che può sembrare, in una prima analisi, piuttosto bizzarra, poiché tutti noi siamo portati a pensare che l’Io penso sia una categoria posta al di fuori del tempo: al contrario Heidegger vuole precipitarlo nel tempo, descrivendo l’esistenza nella sua "cosalità". La parola "ermeneutica" deriva dal greco e furono proprio i Greci a dare il via alla storia di questa disciplina: infatti, troviamo il verbo ermhneuw ("parlare", "interpretare") già in Platone e in Aristotele, seppure con significati diversi tra loro. Per Platone si tratta, in definitiva, di una mantica, ovvero della comprensione di qualcosa che non compare immediatamente ma che, per essere compreso, richiede sforzo; in un passo del "Teeteto", Platone collega l’ ermhneuein con il logoV : Socrate, infatti, dice che se si vuole capire Teeteto bisogna " ermhneuein " ("comprendere", "interpretare") ciò che è effettivamente suo, cioè come lui usa il linguaggio. Anche in un’altra opera, le "Leggi", ricompare il verbo ermhneuein , in riferimento all’interpretazione delle leggi che regolano la città giusta e viene messo l’accento sul fatto che capire non è una disposizione puramente meccanica. Aristotele, dal canto suo, impiega tale verbo in riferimento al collegamento dei suoni delle parole con i significati. La storia dell’ermeneutica trova poi una tappa fondamentale in età ellenistica, quando le due scuole di Alessandria e di Pergamo assurgono a vere e proprie capitali della cultura dopo la caduta di Alessandro Magno: esse segnano, tra l'altro, la nascita della cultura così come la intendiamo noi oggi; è infatti in quest’epoca che si sviluppano i musei e le biblioteche, luoghi di tesaurizzazione del sapere. Di per sé, già l’affermarsi del museo e della biblioteca sembrano favorire lo sviluppo della disciplina ermeneutica, poiché segnalano, in modo netto, la distanza temporale, mettendo in risalto che il tempo passa. Si tratta di un’idea pressochè sconosciuta ad Aristotele, Platone e ai loro contemporanei, che vivevano in un clima culturale in cui il libro non aveva il significato che noi oggi gli attribuiamo. Oltre al raccoglimento dei libri, comincia in età ellenistica, ad Alessandria e a Pergamo, a svilupparsi il lavoro filologico, testimoniato dalla comparsa della prima edizione critica dei testi omerici; nascono anche le grammatiche, sconosciute nel passato; certo, il Cratilo platonico e il Peri ermhneiaV aristotelico avevano qualche parentela con quelle che oggi definiamo grammatiche, ma restavano ancora troppo legati al passato. In questa nuova era culturale ci si comincia inoltre a convincere, sulla scia degli insegnamenti stoici, che il linguaggio sia una struttura convenzionale, con la conseguenza che tutto ciò che è oscuro (ad esempio nella poesia) può e deve essere espulso. Come si ricorderà, nel Cratilo Platone ci metteva di fronte ad una duplice possibile interpretazione del linguaggio: da un lato Ermogene sosteneva che esso avesse un’origine assolutamente convenzionale, dall’altro Cratilo propendeva per la tesi secondo la quale, al contrario, il linguaggio ha un’origine naturale; ora, in età ellenistica, prevale nettamente la tesi avanzata da Ermogene, con la conseguenza inevitabile che l’attenzione si sofferma sempre più sul significato letterale del testo, perché esso è l’unico significato possibile (la filologia nasce anche su queste basi); questa tendenza ad interpretare letteralmente i testi prevale soprattutto ad Alessandria; a Pergamo, invece, fiorisce una scuola dagli esiti diversi: anch’essa nata dalla dissoluzione dell’impero di Alessandro Magno, trova il suo grande teorico in Cratete di Mallo, che propone, in antitesi con le usanze invalse ad Alessandria, una lettura allegorica del testo. Quest’interpretazione si differenzia da quella "grammaticale", secondo cui il testo lo si capisce solo attraverso la lingua (senza servirsi di elementi storici e caratteriali), perché propone una lettura aperta ai significati mitici, storici e, in definitiva, a qualsiasi elemento utile alla lettura stessa. Questa diatriba tra scuola di Alessandria e scuola di Pergamo tende a riprodursi continuamente: in epoca cristiana, ad esempio, si ripropone, sebbene coi ruoli invertiti, dal momento che ad Alessandria vige la tendenza allegorica e ad Antiochia (che ha, per così dire, preso il posto di Pergamo) quella letterale. La storia dell’ermeneutica passa anche per Roma: qui, come è risaputo, prevale l’interesse giuridico e, dunque, l’ermeneutica viene impiegata soprattutto per interpretare la legge, poiché quest’ultima non è mai totalmente oggettiva e priva di problemi. Ci può infatti essere un’interpretazione che si basa soprattutto sul testo scritto o, al contrario, una che fa riferimento specialmente a come la legge è stata applicata. Nell’interpretazione giuridica, tuttavia, vale la stessa mentalità valente per la letteratura: centrale è, a tal proposito, la nozione di "applicatio" (che sarà nodale in Gadamer), poichè il discorso giuridico tende ad essere sostituito dall’impianto dogmatico. Con l’ epoca cristiana, invece, si passa dalla problematica dell’interpretazione dei testi giuridici si passa a quella dell’interpretazione dei Testi Sacri: la domanda centrale in questa nuova età è come si debbano leggere il Nuovo e l’Antico Testamento; i due principali pensatori di questa nuova stagione dell’ermeneutica sono Filone di Alessandria, coetaneo di Gesù vissuto tra il 30 a.C. e il 40 d.C., e Origene. Filone non aderisce alla religione cristiana ma a quella ebraica e applica i metodi filologici della scuola di Alessandria per interpretare la Scrittura, leggendo i Testi Sacri con un’incredibile precisione filologica; in sintonia con la nuova linea interpretativa invalsa ad Alessandria, egli privilegia di gran lunga la lettura spirituale, lussurreggiante di allegorie, e sarà seguito in questa modalità interpretativa da Origene. La letteratura spirituale, in età cristiana, tende a sostituire quella spirituale: in verità, già nei testi dell’antica scuola di Pergamo aleggiava l’idea che certi passi possano essere letti solamente in modo spirituale, anche se con ciò non si voleva dire che il testo non dovesse essere appurato nella sua concreta costituzione. Origene, ad esempio, è precisissimo sul piano filologico, ma è convinto che il vero significato della Scrittura sia quello nascosto e desume da San Paolo tale concezione: lo spirito è la dimensione della perfezione, il momento più lontano dalla corporeità del Testo; sono invece i neofiti a fermarsi al corpo del testo, cioè alla lettera; un ulteriore passo è dato dall’anima, ed è costituito dal momento etico in cui si impara come comportarsi. Il mondo viene così platonicamente inteso in senso dualistico: tanto più capiamo la Scrittura quanto più ci allontaniamo dalla lettera e tanto più siamo veri cristiani quanto più ci distanziamo dal corpo. La scuola di Antiochia, tuttavia, sviluppatasi tra il III e il IV secolo d.C., si orienta in senso decisamente diverso, ma non per questo propone una lettura esclusivamente letterale: piuttosto, suggerisce di evitare un’eccessiva allegoria, giacchè si corre il rischio, altrimenti, di moltiplicare all’infinito i significati insiti nel testo; se, infatti, dico che il vero significato non è quello letterale, ma va ricercato al di là, allora ognuno può trovare nel testo un significato diverso da quello trovato dagli altri. I principali esponenti della scuola di Antiochia, Teodoro e Diodoro, propongono quindi di affiancare all’allegoria la "teoria", poiché riconoscendo valore illimitato e indipendente all’allegoria si finisce per sganciarsi totalmente dalla lettera; ecco perché occorre, a loro avviso, una teoria, un’ossatura teorica che deve essere trovata nella Scrittura e alla quale non si possa sfuggire. Spetta a Gerolamo il merito di aver tradotto i Testi Sacri in latino dall’ebraico, già tradotti in greco dai "Settanta": l’atteggiamento di Gerolamo è piuttosto oscillante tra allegoria e scrittura, e lui stesso dice di voler seguire il verso e non parola per parola (e Lutero lo condannerà aspramente per questo). Anche Agostino ha dato notevoli contributi all’ermeneutica: l’apice è costituito da uno dei suoi ultimi scritti, intitolato "Sulla dottrina cristiana", e articolato in quattro libri; di essi, i primi tre trattano del problema della ricerca e il quarto ed ultimo costituisce, in un certo senso, il punto d’arrivo dell’itinerario conoscitivo: affiora il problema dei due tipi di lettura, spirituale e letterale, e di quale debba essere privilegiato. In questo suo scritto, Agostino riprende le riflessioni elaborate da Ticonio e da Origene; in particolare, da Ticonio ripesca le "regole" e, in tale prospettiva, il rapporto tra Cristo e il suo corpo viene letto come rapporto tra Cristo e la Chiesa. Ma non solo: viene dato anche spazio al rapporto tra res e signa , cioè tra cose indicate e parole che le indicano. Anche in virtù di queste riflessioni di grande importanza ermeneutica, Agostino sarà di grande rilievo nella riflessione di Heidegger: non a caso, uno dei suoi primi corsi universitari verterà su "Agostino e il neoplatonismo" e la nozione di "cura", nodale nel pensiero heideggeriano, è di ascendenza agostiniana, come pure lo scavo nell’essere . Ciononostante, Heidegger considerava in modo negativo Agostino, perché in lui vedeva la deformazione greca del cristianesimo: Agostino è, agli occhi di Heidegger, il pensiero greco (che però parla in latino, visto che Agostino aveva scarsa confidenza con la lingua greca) che filtra nel mondo latino e, con esso, nel cristianesimo. In età medioevale, è di fondamentale importanza, per la storia dell’ermeneutica, quella che è passata alla storia con il nome di teoria dei "quattro significati della Scrittura": sebbene tale teoria sia presente nel pensiero di Dante, di Bonaventura e di Tommaso, non si sa di preciso a chi debba essere fatta risalire, ma ciò non diminuisce la sua importanza, poiché in essa è racchiuso tutto ciò che il mondo antico ha detto sulla Scrittura. Secondo questa teoria, la Scrittura può essere letta secondo quattro significati: la prima possibile lettura è quella secondo il significato letterale; la lettura di tipo spirituale, invece, è distinta in tre momenti distinti: allegorico, morale, anagogico. E questi tre momenti altro non sono se non le tre virtù teologali: alla lettura allegorica corrisponde la virtù teologale della fede (ciò in cui si crede: non ci si deve fermare alla lettera, ma bisogna scavare più in profondità con un atto di fede); a quella morale (ciò che si deve fare) corrisponde invece la virtù teologale della carità; e, infine, a quella anagogico corrisponde la speranza. Ciò non toglie però che la lettera non va tolta, come osserva Tommaso: l’importante è non fermarsi ad essa. Dal canto suo, Bonaventura si domanda perché il significato profondo non sia dato nella lettera e perché non basti il libro della natura ma ci voglia un libro apposito. La risposta da lui data è, in sostanza, che tutto si spiega se teniamo conto della malvagità del genere umano, malvagità in virtù della quale non riesce a vedere il messaggio divino nella natura e nemmeno nel testo della Scrittura, ma deve scavare a fondo. In quest’ottica, l’ermeneutica viene a coincidere con la spiritualità stessa del cristianesimo. La successiva tappa nell’ambito della storia dell’ermeneutica è costituita dall’età umanistica: fondamentali sono le figure di Petrarca, di Leonardo Bruni e di Lorenzo Valla. Leonardo Bruni, grande studioso di etica (tradusse in latino l’ "Etica Nicomachea" di Asristotele) critica aspramente le traduzioni scolastiche perché mediate dall’arabo e propone, pertanto, di ritornare ad una traduzione diretta dal greco. Egli compone un opuscolo dal titolo "De recta interpretatione", dove discute di alcuni significativi dubbi che gli sono sorti mentre traduceva. Lorenzo Valla, invece, riesce abilmente a dimostrare, su basi filologiche, che il testo della donazione di Costantino è un falso clamoroso scritto da un monaco pressochè ignorante; con ciò viene quindi messa in luce la falsità del potere temporale della Chiesa. In quegli anni anche Cusano giungeva filologicamente alle stesse conclusioni: non è un caso che siamo ormai alle porte della Riforma. Il secolo XVI e il secolo XVII costituiscono per molti versi una preparazione alla grande svolta ermeneutica operata da Schleiermacher nell’Ottocento; nel XVI secolo ha luogo quella riforma protestante che, secondo il parere di Dilthey, costituisce il passo fondamentale per l’ermeneutica moderna: l’ermeneutica così come oggi noi la concepiamo, infatti, nasce propriamente solo con la riforma protestante e non è un caso che Schleiermacher fosse un pastore protestante e che spesso sia stato insignito del titolo di "secondo Lutero". Proprio Lutero diceva che la Scrittura dovesse essere letta a partire da se stessa ("la Sacra Scrittura è interprete di se stessa"), con la conseguenza che la tradizione apostolica, su cui poggiava la Chiesa romana, non ha alcun potere, non può intervenire nella lettura dei Testi Sacri: questi ultimi, dunque, hanno secondo Lutero una loro autonomia da cui non si può prescindere. I passi oscuri della Scrittura vanno affrontati, né più né meno, come quelli di ogni altra opera, ovvero con l’ausilio dei soli mezzi filologici. Ci si deve quindi basare sulla sola scrittura, come recita il celebre motto luterano "sola scriptura". Il testo della Bibbia, nella prospettiva luterana, è un testo come tutti gli altri, Dio non soccorre il lettore con una particolare ispirazione, viceversa è il lettore che, leggendo il testo, trova l’ispirazione divina. Se la Chiesa romana si sente autorizzata a diffondere il Testo con una lettura ispirata dallo Spirito Santo, al contrario nel protestantesimo tutti sono autorizzati a leggere il Testo Sacro e a trovare in esso la fede: infatti, secondo Lutero, non si legge il Testo perché si ha la fede, ma, viceversa, si ha la fede perché si legge il Testo. Ed è in questa prospettiva che Lutero traduce in lingua tedesca l’Antico Testamento: la Chiesa romana, invece, lo mantiene in una lingua radicalmente diversa da quella parlata dal popolo, quasi come se avesse una sua lingua. Secondo Lutero, però, non ci dev’essere alcuna mediazione da parte della Chiesa, poiché è l’insieme stesso dei fedeli a costituire la Chiesa attraverso al Testo. Viene dunque dato grande peso all’interpretazione, anche se, ad onor del vero, Lutero dà maggior importanza alla lettera che non all’allegoria. Molto rilevante, nell’ambito della riforma proptestante e della sua influenza sull’ermeneutica, è la figura di Melantone, grande erudito conoscitore di lingue antiche, il quale dà molto peso a quella retorica che, soprattutto nel Novecento, sarà centrale nella riflessione ermeneutica (Gadamer, Parelman): la retorica vuole semplicemente indicare quale è lo stato d’animo dell’autore nel momento in cui ha scritto il testo, il quale ha, nella prospettiva luterana, una sua dimensione affettiva che deve essere colta nella lettura: ne consegue che cogliere le parole non basta, bisogna anche cogliere la dimensione retorica. Questa teoria degli "affetti" si è sviluppata soprattutto nel XVII secolo presso i pietisti, soprattutto Francke (1663-1727): egli ha l’idea di una "patologia sacra"; a suo avviso, dal Testo si deve capire l’amore e il fatto di accedere ad un significato mistico della Scrittura rappresentato dalla figura stessa del Cristo. Il pietismo, del resto, si presenta come reazione alla piega dogmatica assunta dal protestantesimo così come è esposto nella "Clavis aurea" di Mattia Flacio Illirico (1520-1575): dopo la condanna del protestantesimo avvenuta al Concilio di trento, Illirico dà una sistemazione teorica al protestantesimo. Se Melantone individuava il senso della retorica, Illirico, dal canto suo, introduce il tema del "circolo" ermeneutico, secondo il quale non posso leggere i singoli libri della Scrittura se non a partire dall’insieme della Scrittura e viceversa: c’è una continua mediazione, quasi una dialettica, tra il tutto e le parti; il fatto stesso che ancor prima di leggere un libro si guardi l’indice per avere un’idea generale che illumini la lettura delle singole parti è, sotto questo profilo, significativo. Nel secolo successivo a quello del Concilio di Trento, Rambach proclamerà possibile la "analoghia fidei", secondo la quale ogni libro che compone la Scrittura deve essere letto per conto proprio, però in qualche modo il fatto che l’insieme di questi scritti contiene la Rivelazione suggerisce che vadano presi nella loro unità complessiva. Rambach cercava di conciliare il pietismo di Francke con gli insegnamenti di Lutero e introduce il concetto di "applicatio": egli infatti divide l’ermeneutica in "investigatio" (ricerca del senso), "explicatio" (trasmissione del senso agli altri) e "applicatio", ovvero uso che faccio del senso trovato. Sul versante della Controriforma meritano di essere ricordati Roberto Bellarmino e Richard Simon: quest’ultimo, grande esegeta del Testo biblico, fu autore di "Storia critica del Vecchio Testamento" e "Storia critica del Nuovo Testamento"; sia lui sia Bellarmino cercano di dimostrare che il Testo, di per sé, non è sufficiente e richiede una mediazione; in particolare, Simon tiene in considerazione alcune riflessioni di Flacio Illarico, ma gli rimprovera di voler, da un lato, leggere il Testo così com’esso si presenta ma, dall’altro lato, di far riferimento costante all’autorità di Lutero (come se Flacio avesse sostituito l’autorità della Chiesa con quella di Lutero). Il secolo XVII è il secolo del razionalismo imperante: e in ambito ermeneutico Spinoza scrive, nel 1670, il celebre "Trattato teologico-politico", in cui prospetta un modo di leggere la Scrittura a partire dal "lumen naturale" (ossia la ragione): secondo la prospettiva del pensatore olandese, non è necessario affiancare al "lumen naturale" un "lumen" soprannaturale; viceversa, il Testo Sacro va letto secondo gli stessi princìpi che impieghiamo per capire la natura: la ragione è l’unico mezzo per leggere il testo. La ragione, oltre a spiegare le leggi di natura, è in grado di comprendere la fede e gli altri ambiti (perfino i miracoli). Spinoza ci chiede di entrare nella lingua in cui il Testo è stato scritto e di creare una specie di elenco in cui mettere insieme tutti i passi che parlano di cose simili, cercando di ricostruire ciò che è andato perduto o è incomprensibile. Ed è in quest’ottica che Spinoza chiedeva la libertà nell’interpretazione dei Testi e nella fede religiosa. Il terzo punto su cui egli si concentra è la storia: si deve, a suo avviso, ricondurre, quanto più è possibile, l’opera al momento storico in cui è stata scritta . L’atteggiamento di fondo del "Trattato teologico-politico" è che non si deve cercare tanto ciò che è specifico (i primi due libri dell’opera sono dedicati ai profeti e alla profezia) nei profeti, quanto piuttosto, se si vuole comprendere l’insieme delle Scritture, ciò che è comune a tutti i profeti; proprio come in fisica per definire la natura in modo generale si può dire "quiete e movimento", similmente devo agire per quel che riguarda la Scrittura, cercando di attenermi il più possibile all’universale. L’atteggiamento spinoziano, fortemente razionalistico, segna profondamente la cultura dell’epoca e anche quella successiva: ancora Kant, un secolo dopo, quando scrive "La religione entro i limiti della sola ragione", si muove in parte sotto gli influssi spinoziani; egli definisce, in quest’opera, il cristianesimo come una volgarizzazione della religione morale e dichiara Gesù Cristo come il santo etico. Sempre nell’età dell’Illuminismo, Ernesti, autore della "Institutio interpretationis Novi Testamenti" e molto citato da Schleiermacher, propone, in sintonia con il clima illuminista, una lettura dei Testi in chiave grammaticale e storica: il linguaggio è, a suo avviso, una mera convenzione e, pertanto, una lettura logica dei testi va assolutamente respinta; razionale è soltanto la lettura storica (così come ancor oggi accade), senza tuttavia fermarsi alla lettera, perché, secondo le parole di Agostino, "la lettera uccide". Negli anni ‘60-70 del Novecento, Perelman e lo strutturalismo propongono l’autonomia del testo e della sua letteralità; anche il decostruzionismo di Derrida, del resto, nasce da presupposti analoghi, anche se, in realtà, è bene ricordarlo, Platone nel Fedro aveva asserito che la scrittura ammazza l’autore. Queste posizioni novecentesche trovano, in parte, una prima formulazione, seppur in parte diversa, in Ernesti e in Rambach, i quali tentano una teoria dei segni, una semiotica. Già Platone sembrava aprire spiragli in direzione del "circolo" ermeneutico quando, nel Fedro, diceva che posso leggere i testi solo facendo costante riferimento alla verità. Quando leggo un libro, quindi, devo (e di fatto lo faccio) partire da un pregiudizio, come ha acutamente sottolineato Gadamer, sostenitore di un’ermeneutica fortemente anti-illuministica. Ancora nel XVII secolo, Dannhauer inaugura un’ermeneutica generale, anticipando di due secoli Schliermacher: il suo intento è di fornire uno schema dell’interpretazione che valga per tutte le discipline, poiché, se tutto è oggetto di scienza (come si crede nel Seicento), allora anche l’interpretazione delle scienze (cioè l’ermeneutica) deve diventare una scienza. Dal canto suo Keil, seguace di Leibniz, pone il problema da un originale punto di vista: l’interpretazione, a suo avviso, parte sempre dal punto di vista, da quella che Leibniz definiva "monade"; essa contiene in se stessa tutte le rappresentazioni, ma "non ha finestre", ovvero non comunica con l’esterno. Anche quando Schleiermacher pone l’accento sulla "congenialità" tra il lettore e il libro sembra muoversi, in parte, in una prospettiva di matrice leibniziana. L’Ottocento è particolarmente importante, dal punto di vista ermeneutico, soprattutto per due nomi: quello di Schleiermacher e quello di Dilthey, vissuti uno all’inizio e l’altro alla fine del secolo. Il movimento inaugurato da Heidegger e da Gadamer interrompe, in qualche modo, la storia dell’ermeneutica, quasi come se arrivata a Dilthey subisse un’interferenza (cioè la determinazione ontologica) per poi tentare di riprendere il suo corso. Certo, anche con Heidegger e Gadamer è rimasto centrale il tema del comprendere, ma se per Schleiermacher e Dilthey l’ermeneutica è, kantianamente, una facoltà umana, per Heidegger e Gadamer, invece, è una determinazione ontologica, cosicchè essa viene interrotta perché fatta coincidere con l’ontologia, proprio in quel particolare momento storico in cui l’ontologia tendeva a scomparire. Si tratta ora di capire in che cosa consista il movimento che avviene con Schleiermacher e con Dilthey nell’ambito della dialettica. In realtà, ancor prima di questi due pensatori, un ruolo decisivo era stato giocato da Ast (1778-1841) e da Wolf (1759-1824), entrambi citati da Schleiermacher stesso nella sua "Memoria" del 1829, testo che riassume le sue posizioni filosofiche. Viene talvolta citato anche Ernesti, il teologo settecentesco, insieme ad un altro teologo, Morus. In particolare, il tentativo di Wolf è di rivolgersi all’antichità come ad una totalità da cui trarre modelli per il presente, il che è significativo perché all’epoca (siamo sul finire del Settecento) si assiste ad un ritorno generale ai Greci, tant’è che si è parlato di greco-mania (pensiamo a filosofi come Schiller o i fratelli Schlegel). Il mondo classico per tutti questi pensatori è un modello che deve produrre qualcosa per il mondo moderno: in questa accurata attenzione per il passato greco, Wolf, padre della cosiddetta "questione omerica" (e autore di un’opera intitolata "Scienza dell’antichità"), arriva a sostenere che Omero non sia un solo autore, ma una serie di autori. Cogliere il mondo classico nella sua unitaria interezza è il compito del filosofo classico, armato della lingua, della grammatica, del movimento storico e filosofico (del resto l’ermeneutica del Settecento era totalmente volta alla storia). L’attenzione al movimento storico costituisce a fine Settecento un modo per penetrare nel mondo antico, alla ricerca di una esemplarità, quasi come se il mondo classico potesse dare ancora qualcosa: Hölderlin definisce l’uomo moderno come un essere costituito da parti non ugualmente sviluppate in contrapposizione all’uomo classico, dotato di parti ugualmente sviluppate. Ast, invece, fu allievo di Schelling a Jena e, in virtù di ciò, introdusse nella filologia molte istanze schellinghiane; egli propone il circolo ermeneutico: a suo avviso, la lingua è una totalità, ma viene usata in modo individuale da ognuno. La cosa più rilevante dell’ atteggiamento di Ast è il rapporto con la comprensione: essa altro non è se non il risalire al momento della creazione, si deve cioè compiere uno slancio creativo uguale a chi ha creato l’opera. L’ermeneutica ci soccorre quando dobbiamo capire ciò che ci sfugge, tanto nello scritto quanto nel parlato: essa interviene risalendo all’interpretazione, al come e al quando quel qualcosa che dobbiamo interpretare è stato scritto o detto. Avremo pertanto un’interpretazione grammaticale (basata sulle parole), una storica (basata sul contesto storico), e una filosofica; le prime due riguardano la forma del pensiero, la terza il contenuto. In questa prospettiva, l’antichità è una totalità e ogni cosa va capita facendo costante riferimento ad essa. Schleiermacher propriamente non ha scritto un’ermeneutica: sotto il suo nome circola un’ "Ermeneutica", ma è una raccolta di frammenti non destinati alla pubblicazione. L’unico suo testo relativamente completo sono le due conferenze tenute nel 1829. La divisione centrale che egli opera è tra interpretazione grammaticale e interpretazione psicologica: si tratta, come in Ast, di separare ciò che è prodotto attraverso la lingua da ciò che invece è prodotto dall’autore stesso; siamo dunque di fronte ad un’ermeneutica dell’individualità: l’oggetto da comprendere, infatti, è l’individualità. Di fronte a un testo devo capire l’individualità cui esso appartiene e lo devo fare o servendomi della lingua (interpretazione grammaticale) o del pensiero e, in generale, dello stile (interpretazione psicologica, che presuppone la totalità dei pensieri dell’autore). Schleiermacher parla spesso di "decisione germinale", con l’idea che ogni testo nasca da una decisione dell’autore di scriverlo affinchè io capisca e, per capire, devo capire la sua persona, capendo anche se magari lui vuole ingannarmi . Lo scopo, in generale, è cogliere le determinazioni tra un individuo e l’altro, e non a caso Dilthey parlerà di "psicologia descrittiva". Schleiermacher, dal canto suo, parla invece di "congenialità tra il lettore e il testo", con l’idea che il tratto comune tra i due sia la lingua, anche se ciascuno la usa in modo diverso. Mi atteggio di fronte alla lingua come se fosse una totalità e poi procedo parola per parola: in ciò risiede il circolo ermeneutico. E in quest’ottica significatio e sensus sono due cose diverse (come già aveva detto Wolf, e come diranno più avanti Frege e Wittgenstein): il significato di "capra" è, ad esempio, l’avere la barba, mentre il senso è l’essere immersa nelle pagine, nell’opera dell’autore, nell’epoca storica, cosicchè esso è la vita della parola. Non mi è possibile partire dalle singole parole, ma sempre dalla totalità: capisco i singoli discorsi e le singole proposizioni perché capisco il tutto ma, al contempo, capisco il tutto perché capisco le singole proposizioni; le lingue sono dunque mondi in cui bisogna imparare a muoversi. Fortissimo è il rapporto che lega il pensiero di Schleiermacher a quello di Fichte, il cui sforzo stava nel dedurre il mondo a partire dall’Io, anche nel senso della produzione. Questo per l’ermeneutica è importante perché la mette in una particolare condizione: se tutto è determinazione dell’Io, allora viene messa tra parentesi la prospettiva meccanica del Settecento, secondo cui le parole erano mere convenzioni. Anzi, per tale via, l’ermeneutica diventa necessaria proprio perché non sussiste una meccanica dello spirito e, non a caso, Schleiermacher ripete spesso che l’ermeneutica è una "dottrina dell’arte" e, in quanto tale, sfugge ai dettami della meccanica. L'ermeneutica grammaticale (cui Schleiermacher riserva di gran lunga maggior spazio, anche se è di pari peso rispetto a quella psicologica: infatti, devono portare entrambe alla stesse cose, ma per vie diverse) si articola in due canoni: 1) per comprendere un testo, devo mettermi dal punto di vista del lettore originario, anche se questo è difficilissimo a farsi, poiché il tempo passa: il primo canone è come se ci chiedesse di superare la distanza temporale che ci separa da quando è stato scritto il testo, per poterlo leggere così come il lettore "originario" (come quel lettore cioè che lo leggeva all’epoca); la pretesa è quindi quella di capire l’autore meglio di quanto l’autore abbia capito se stesso. Tutto ciò è l’esatto contrario dell’ermeneutica gadameriana: per Gadamer non si deve superare la distanza temporale, ma, al contrario, leggere il testo con tutto il tempo che ci separa dall’arte e perciò non lo si può leggere come lo leggeva il lettore originario. Di sfuggita, si può notare come l’ermeneutica, in generale, si distingua dalla critica: quest’ultima è integrazione del testo, l’ermeneutica è anche quello, ma, in più, è un’arte, divisa in momento divinatorio (abbinato da Schleiermacher al femminile) e momento comparativo (abbinato al maschile); col primo momento porto le cose in una specie di vuoto per poi illuminarle; col secondo, invece, metto a confronto le situazioni note con quelle ignote. Non è un caso che tutti gli ermeneutici si siano, in qualche misura, interessati a Platone: Ast è autore di un "Lexicon Platonicum", Schleiermacher ha tradotto l’intero corpus dei dialoghi, in modo ermeneutico: si possono capire Platone e i suoi dialoghi solo se li si riconduce ad un’unità e si può capre tale unità solo se si capiscono i singoli dialoghi. Dietro all’interpretazione linguistica c’è l’interpretazione della lingua, dietro a quella psicologica c’è l’interpretazione della persona: e l’interpretazione riesce quando non ci sono dissidi tra le due cose, ossia quando la persona mi è interamente data nella lingua. Il grande principio di Dilthey è "individuum est ineffabile", con il quale egli sottolinea come non si possa mai capire l’individuo fino in fondo. Dilthey resta scosso dalle "Ricerche logiche" di Husserl, che lo inducono a trasformare la sua posizione, spostando l’attenzione dall’individuo all’espressione: cogliere la vita dentro di sé e coglierla con i mezzi della vita stessa. Ogni pagina scritta mi rimanda a chi l’ha scritta: questo a Dilthey è poi sembrato un po’ riduttivo. Già Droysen aveva messo in luce la differenza tra comprendere e spiegare e l’aveva fatto per conferire specificità alle scienze dello spirito: anche Dilthey mantiene tale distinzione, ma con seri problemi; distingue tra psicologia descrittiva (che non spiega con il nesso causa/effetto, giacchè esso non può sussistere nella sfera psicologica) e psicologia esplicativa, che è un’illusione. Se il primo canone dell’ermeneutica grammaticale vuole che si debba capire l’autore secondo la lingua del suo pubblico (se ad esempio leggo il Vangelo di Matteo devo capire cosa pensasse e a chi si rivolgesse), il secondo canone dice che nessuna parola è isolata, ma è sempre all’interno di un preciso contesto (la proposizione, l’opera, ecc). Dilthey riprende questa distinzione operata da Schleiermacher (non a caso scrive un’opera intitolata "La vita di Schleiermacher", un lavoro molto approfondito di ricerca storica) e fonda l’ermeneutica sull’individualità: la comprensione è, secondo lui, un’arte che sfugge ad ogni meccanismo rigorosamente determinato e determinabile; scrivere un testo è un’arte, ma interpretarlo è azione altrettanto speciale, poiché è richiesta un’altrettanto marcata genialità, visto che si deve ripetere tutto ciò che è successo nell'’utore (ecco perché Dilthey poteva affermare: "individuum est ineffabile"). L’ermeneutica diltheyana è, come quella di Schleiermacher, un’ermeneutica dell’individualità, che pretende di comprendere l’autore meglio di quanto l’autore avesse compreso se stesso; mentre infatti l’autore è, a tutti gli effetti, se stesso e produce le sue opere per un impulso interno, l’interprete deve costruire artificialmente con arte ciò che l’autore ha fatto senza passare per un percorso costruito. Dunque, per Schleiermacher e per Dilthey si tratta di capire l’autore meglio di quanto egli si fosse capito; per Gadamer, invece, si tratterà di capirlo diversamente. Quella di Dilthey, poi, è un’ermeneutica dell’Erlebnis, del rivivere con paqoV , del sentire le cose così come le ha sentite l’autore stesso. E, a questo punto, si aprono due possibilità: o l’atteggiamento epistemologico (che verrà seguito da Dilthey e da Emilio Betti) o l’atteggiamento ontologico (che sarà seguito da Heidegger e da Gadamer); quest’ultimo atteggiamento consiste nel non voler conoscere l’intimità dell’autore in questione, ma voler comprendere l’evento stesso dell’essere: l’essere di ciò che è nel testo è ciò che si deve comprendere, e il comprendere è l’essere (comprendere dunque non l’autore, ma ciò che è nel testo), tenendo conto (a differenza di quanto faceva Schleiermacher) della distanza temporale che ci separa dal testo. Per la storia dell’ermeneutica è importantissimo anche Max Weber, poiché oltre al testo pensa che debba far parte dell’ermeneutica anche l’azione: in una prospettiva piuttosto simile, Ricoeur ha scritto "Dal testo all’azione", in cui coglie il passaggio dall’ermeneutica ottocentesca a quella "moderna" del Novecento nel fatto che quest’ultima si è resa conto (e il lavoro di Weber è centrale in tal senso) che il comprendere non riguarda solo i testi, ma anche le azioni (tant’è che si parla spesso di "significato dell’azione"), cosicchè si può gadamerianamente parlare di universalizzazione dell’ermeneutica. Weber (cui tra l’altro spetta il merito di aver introdotto una spiegazione causale anche nel comprendere) era profondamente insoddisfatto di fronte alla distinzione (di remota ascendenza medioevale) operata nell'Ottocento da Droysen (e ribadita energicamente da Dilthey) tra capire e comprendere: per Dilthey l’ermeneutica è l’ organon delle scienze dello spirito, basato sull’intuizione. Con questa distinzione sullo sfondo, Frege ha scritto un saggio "Senso e denotazione", dove "denotazione" sta per "significato", riprendendo le considerazioni di Wolf sul senso e sul significato. Schmitt propone l’idea che a stabilire le leggi sia chi detiene il potere, sottolineando in tal modo l’arbitrarietà delle leggi stesse (come già notava Hobbes, le leggi sono valide per tutti fuorchè per il sovrano): crolla la fiducia nell’esistenza di una tavola delle leggi immobile e questo è importante per l’ermeneutica perché apporta una variazione al pensiero antico (Antigone, ad esempio, si appellava alle leggi non scritte). Nel capitolo 5 della seconda sezione di "Essere e Tempo", Heidegger confessa di voler proseguire il lavoro avviato da Dilthey, assumendo però un atteggiamento assai lontano: introducendo il senso dell’essere, finisce infatti per introdurre una dimensione diversa dall’estrema libertà dell’individuo; certo Dilthey e Heidegger sono accomunati dalla decisa opposizione alla tradizione illuministica e al suo culto ossessivo della ragione, ma ad Heidegger l’atteggiamento ermeneutico alla Dilthey sembra piuttosto limitativo: nello spirito non ci sono leggi e ciò significa che bisogna procedere in altro modo; lo sforzo di Weber e di Heidegger (anche se Heidegger non cita mai Weber) è di ridare peso a questi ambiti troppo sottovalutati; e perciò Lowith e Marcuse accuseranno il maestro di riportare il pensiero all’antichità, visto che per Heidegger il compito del pensiero è pensare l’essere ma questo è venuto meno nell’età moderna (pensiamo all’accusa di nichilismo che Heidegger muove alla società a lui contemporanea). E’ come se Heidegger, quando parla dell’essere, si riferisse ad una dimensione esclusivamente orale (ed era appunto sull’oralità che Platone aveva puntato nella sua famosa "Lettera VII"): Heidegger non pubblica la sua terza sezione di "Essere e Tempo" (forse l’aveva pubblicata, ma l’ha poi distrutta) e prosegue il lavoro avviato da Dilthey perché, diversamente da Weber, tiene conto dell’ineffabilità dell’individuo (ed è appunto l’unica cosa che mutua da lui) e la trasferisce all’essere (cosa, questa, impensabile per Dilthey, anche se già lui diceva che i grandi sistemi metafisici non hanno ormai più senso). "Verità e metodo" di Gadamer assume un atteggiamento affine a quello heideggeriano, arrivando a sostenere che è nel linguaggio che si coglie l’essere e a diagnosticare l’universalizzazione dell’ermeneutica (nozione sulla quale Habermas aveva i suoi seri dubbi: il sottosviluppo e mille altri fattori testimoniano che l’universalità dell’ermeneutica non esiste).INDIETRO
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