A cura di Claudia Bianco
Pubblicata su Le
Figaro nel 1863 , la raccolta di brevi saggi intitolata Il pittore della
vita moderna (Le peintre de la vie moderne) testimonia dell’intensa
attività di critico e saggista che Charles Baudelaire (1821-1867) affiancò ,
lungo tutto l’arco della sua vita, alla scrittura poetica. Nel 1845, in concomitanza con l’uscita della rivista L’artiste della prima poesia pubblicata
Baudelaire con la sua firma – “A une dame créole”, che poi entrerà a far parte
della celebre raccolta I fiori del male -, esce anche il primo articolo
sui Salons di pittura , in cui si esalta la pittura di Eugène Delacroix
(1798-1863) , definito “il pittore più originale dei tempi antichi e moderni”.
I Salons erano ampie esposizioni d’arte che venivano organizzate ogni
anno sin dal Settecento, inizialmente sotto gli auspici dell’Accademia e poi
sotto il controllo dei professori dell’E’cole des Beaux Arts, che formavano la
giuria delegata a decidere insindacabilmente quali artisti dovessero essere
ammessi e quali no. Il controllo dei Salons da parte dell’ufficialità
accademica fu in seguito contestato con episodi clamorosi da parte dei pittori
rifiutati dalla giuria, come Gustave Courbet (1819-1877) , che nel 1855 creò un
suo padiglione del “realismo”, o il gruppo degli impressionisti, che diedero
vita nel 1863 al Salon des Refusés. Le mostre autonome degli impressionisti
(1874-1886) e la fondazione, da parte di Georges Seurat (1859-1891) e Paul
Signac (1863-1935) , del Salon des Indépendants, misero definitivamente in
crisi la tradizionale istituzione, che perse gradualmente la sua importanza.
Nutrita da un
costante interesse per la letteratura, la musica e la pittura a lui
contemporanee, la produzione critica di Baudelaire comprende non solo gli
articoli relativi ai Salons del 1845, 1846 e 1859 - con cui egli si
inseriva in una tradizione avviata nel Settecento da Diderot – ma anche, tra
gli altri, i saggi su Edgar Allan Poe (1809-1849) , Gustave Flaubert
(1821-1880) , Victor Hugo (1802-1885), Théophile Gautier (1811-1872), Richard
Wagner (1813-1883) e Delacroix. Nei brevi saggi che compongono Il pittore
della vita moderna , l’attenzione si concentra sull’opera del pittore
Costantin Guys (menzionato solo con le iniziali C.G. , per sua stessa volontà),
che si rivela ben presto essere una sorta di alter ego dello stesso
Baudelaire: con il pretesto di commentare l’opera e la personalità di Guys ,
Baudelaire finisce infatti per parlare di sé, esibendo i diversi punti di vista
da cui si esercita il suo sguardo al tempo stesso affascinato e disincantato
sulla modernità. L’io narrante che si rivela nei saggi è un critico che si
presenta di volta in volta come osservatore distaccato, filosofo, moralista
appassionato, dandy, girovago (flàneur). Già in un saggio appartenente alla
raccolta dedicata al Salon del 1846 , intitolato “ A che serve la
critica?”, Baudelaire sosteneva che la vera critica “deve essere parziale,
appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma
tale da aprire il più ampio degli orizzonti”. Ne Il pittore della vita
moderna ritroviamo questo sguardo irriducibilmente soggettivo e parziale, e
attraverso il commento all’opera di C.G. scaturiscono delle réveries morales
aventi per oggetto, di volta in volta, la figura dell’artista, la bellezza,
l’immaginazione, le donne, la moda, alla ricerca continua del significato che
questi temi possono avere nel rivelarci l’essenza della modernità.
Parlando della
figura dell’artista, Baudelaire descrive le diverse prospettive assunte nel suo
ruolo di critico e poeta, capace di esercitare uno sguardo libero e
spregiudicato, contraddittorio e paradossale nei confronti del mondo. L’artista
descritto da Baudelaire è un “uomo del mondo intero, che comprende il mondo e
le ragioni misteriose e legittime di tutte le sue usanze”, un “cittadino
spirituale dell’universo” per il quale la curiosità costituisce “il
punto di partenza del suo genio”. E’ un eterno convalescente , per il
quale “la convalescenza è come un ritorno all’infanzia” e al continuo fascino
della novità che la pervade: “ Il convalescente possiede in sommo grado,
come il fanciullo, la facoltà di interessarsi vivamente alle cose, anche a
quelle in apparenza più banali. Proviamo a risalire, se è possibile, con uno
sforzo retrospettivo della fantasia, verso le nostre impressioni più giovani e
più aurorali, e vedremo allora che esse avevano una singolare affinità con
quelle impressioni, dai colori così vivi, che più tardi abbiamo ricevuto in
seguito a una malattia fisica , purché la malattia abbia lasciato pure e
intatte le nostre facoltà spirituali. Il fanciullo vede tutto in una forma di novità,
è sempre ebbro. Nulla somiglia tanto a quella che chiamo ispirazione, quanto
la gioia con cui il fanciullo assorbe la forma e il colore. Ma io vorrei
andare ancora oltre: dico che l’ispirazione ha un qualche rapporto con la congestione,
e che a ogni pensiero sublime si accompagna una scossa nervosa, più o meno
intensa, che si ripercuote sin nel cervelletto”.
L’artista
descritto da Baudelaire non è però solo convalescente e fanciullo, bensì anche
un dandy , ossia colui che partecipa del mondo conoscendone i più intimi
meccanismi ma al tempo stesso ostentando distacco e superiorità. Come un
“animale depravato” che però ha saputo mantenere “il dono della facoltà di
vedere”, insieme alla “potenza di esprimere”, il dandy vive in una
dimensione di puro dispendio, di completa inutilità , ammirando “la bellezza
eterna e la stupenda armonia della vita nelle capitali”. Il suo sguardo, al
tempo stesso cinico e affascinato, “!gioisce della vita universale”, del
variare delle mode e dell’anonimato di una folla sempre mutevole: “Sposarsi
alla folla è la sua passione e la sua professione. Per il perfetto perdigiorno
(flàneur) , per l’osservatore appassionato, è una gioia senza limiti
prendere dimora nel numero, nell’ondeggiante, nel movimento, nel fuggitivo e
nell’infinito. Essere fuori di casa, e ciò nondimeno sentirsi ovunque nel
proprio domicilio; vedere il mondo, esserne al centro e restagli nascosto (…).
Così l’innamorato della vita universale entra nella folla come in un’immensa
centrale di elettricità. Lo si può magari paragonare a uno specchio immenso
quanto la folla; a un caleidoscopio provvisto di coscienza, che, ad ogni suo
movimento, raffigura la vita molteplice e la grazia mutevole di tutti gli
elementi della vita, E’un io insaziabile del non-io , il quale,
ad ogni istante, lo rende e lo esprime in immagini più vive della vita stessa,
sempre instabile e fuggitiva”. Nella sua continua ricerca di “distinzione” ,
l’atteggiamento del dandy “confina con lo spiritualismo e con lo
stoicismo”; come “un sole al tramonto”, emana un “ultimo bagliore di eroismo
nei tempi della decadenza”.
Descrivendo lo
sguardo del dandy, Baudelaire non fa altro che descrivere la natura del
proprio sguardo critico e poetico nei confronti di una realtà che deve essere
colta in ciò che ha di assolutamente unico e irriducibile, la propria modernità.
Abbiamo già visto che il problema dell’individuazione di ciò che è moderno
, e dunque il tentativo di un’autofondazione da parte della modernità stessa,
si è spesso posto all’interno della riflessione estetica, per esempio negli
scritti di Schlegel, nei quali attraverso l’opposizione tra “antico” e
“moderno” viene in luce la vera natura di ciò che è “romantico” , ossia della
poesia a venire e delle sue radici storiche.
In Baudelaire la
comprensione dell’essenza della modernità non avviene all’interno di una
filosofia della storia segnata dal primato della civiltà e dell’arte antica,
bensì alla luce di uno sguardo che cerca ciò che di eterno e duratura si
nasconde nel presente e nell’effimero: in un celebre passo del saggio
intitolato, per l’appunto, “La modernità” , Baudelaire scrive che “ la modernità
è al transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui
l’altra metà è l’eterno e l’immutabile (…) perché ogni modernità
acquisti il diritto di diventare antichità, occorre che ne sia stata tratta
fuori la bellezza misteriosa che vi immette, inconsapevole, la vita umana”. Il
compito dello sguardo del critico viene quindi a confondersi con quello del
poeta, nel tentativo di “cercare e illustrare la bellezza della modernità”. In
questo modo il presente non acquisisce la consapevolezza di sé opponendosi a
un’epoca ripudiata e oltrepassata, oppure a un passato mitizzato e idealizzato:
l’attualità si costituisce invece come punto di incrocio fra istantaneità ed
eternità, nel momento in cui il transitorio viene fissato poeticamente e trasfigurato
nell’eterno. Di qui la “teoria razionale e storica del bello” che Baudelaire
ci presenta nel saggio “Il bello, la moda e la felicità”: “Il bello è fatto di
un elemento eterno, invariabile, la cui quantità è oltremodo difficile da
determinare, e di un elemento relativo, occasionale, che sarà, se si
preferisce, volta a volta o contemporaneamente, l’epoca, la moda, la morale, la
passione. Senza questo secondo elemento, che è come l’involucro dilettoso,
pruriginoso, stimolante del dolce divino, il primo elemento sarebbe
indigeribile, non degustabile, inadatto e improprio alla natura umana. Sfido
chiunque a scovarmi un esemplare qualsiasi di bellezza dove non siano contenuti
i due elementi”.
Nella costante
ricerca del bello all’interno della dimensione poliedrica e contraddittoria
della vita moderna, lo sguardo del poeta deve orientarsi verso il sublime
e il meraviglioso che si nasconde nella quotidianità : “ La vita
parigina è fertile di soggetti poetici e meravigliosi. Il meraviglioso ci
avvolge e ci bagna come l’atmosfera; ma non lo vediamo”. Fine del poeta e del
critico non deve essere imitare passivamente la realtà, bensì liberare i poteri
dell’immaginazione, facoltà dell’analisi e della sintesi, dell’analogia
e della metafora, del verosimile e del possibile, “concretamente congiunta con
l’infinito”. In questo modo diventa possibile cogliere quelle correspondances
che danno il titolo a uno delle più celebri poesie de I fiori del male “foreste
di simboli dagli occhi familiari” che rivelano come tutto l’universo visibile
non sia altro che “un deposito di immagini e di segni ai quali l’immaginazione
deve attribuire un posto e un valore relativo”.
La tendenza
“realista” e “positivista” presente nell’arte a lui contemporanea, il dominante
gusto per il Vero, sarebbe all’origine secondo Baudelaire del diffuso fascino
per la recente invenzione della fotografia , un fascino costituito dalla
sorpresa di fronte a un’immagine che si presenta come replica esatta e
impassibile del vero. Nel successo della fotografia Baudelaire denuncia una
forma di fanatismo e di attaccamento idolatrino al “vero” naturale dietro cui
si nasconderebbe un “amore dell’osceno” e un irrimediabile “impoverimento del
genio artistico”. La fotografia non deve proporsi come forma artistica
alternativa, se non addirittura “superiore” , alla pittura, bensì come tecnica
finalizzata alla documentazione e alla conservazione. Esaltare i poteri
dell’immaginazione4 significa, secondo Baudelaire, difendere le prerogative
della pittura di fronte alle insidie di un’arte, la fotografia, che
curiosamente sembrerebbe proprio avere a che fare con quella ricerca
dell’immutabile nell’istante in cui risiede l’essenza della bellezza,
In questa
condanna dell’”amore osceno” che si nasconde dietro il successo della
fotografia, la posizione di Baudelaire potrebbe sembrare senza dubbio
contraddittoria, trattandosi di un autore che ha fatto della contraddizione,
della paradossalità , della fusione di alto e basso, sublime e grottesco, il
tratto distintivo della propria poetica. In Baudelaire prosegue infatti quella
deriva anticlassicistica – annunciata dalle riflessioni romantiche sul
“caratteristico” e l’”interessante” e testimoniata dal tentativo delle
estetiche posthegeliane di fare i conti con il tema del brutto, per esempio
nell’Estetica del brutto (1853) di Karl Rosenkranz (1805-1879) – che ha
il suo massimo esponente in Victor Hugo nella sua tematizzazione del grottesco.
Se in Rosenkranz la trattazione del brutto era ancora subordinata al primato
della bellezza e dell’armonia, tanto che il disarmonico e il negativo erano
considerati momenti destinati a essere superati e ricomposti nella potenza
conciliante del bello, in Hugo il brutto e il grottesco si presentano come una
dimensione esuberante e irriducibile: “Il bello non ha che un tipo: il brutto
ne ha mille”. L’arte non si limita più ad accogliere nel proprio ambito la
bellezza, bensì si apre alle innumerevoli forme della sua decadenza e della sua
perversione, rivolgendosi ai nuovi territori della deformazione e dell’informe,
della contraddizione e della disarmonia. Tutto l’accostamento di temi e stili
“sublimi” con improvvise cadute nella depravazione e nel grottesco, in una
tensione polare costantemente irrisolta.
Nei saggi de Il
pittore della vita moderna, la ricerca della dimensione sublime ed eterna
in ciò che è “basso” e ordinario assume però una veste inaspettata, e si
concretizza nella celebre rivalutazione della moda e del trucco.
Riscattata dalla
sua condanna ad opera della morale dominante, che vi vede l’ambigua esaltazione
dell’artificio contro il legittimo primato della naturalità, la moda si
presenta come emblema della modernità proprio in quanto congiunzione
dell’eterno e dell’effimero. Obbedendo al continuo imperativo della novità ,
essa mostra la capacità del presente di assumere valore simbolico, facendosi rappresentazione
e quindi proponendosi come eterno: la donna truccata perde infatti
ogni “piatta” naturalezza e svela il suo volto quasi totemico, per farsi
adorare come un idolo : “ essere terribile e incomunicabile al pari di Dio (
con la sola differenza che l’infinito non si comunica in quanto accecherebbe e
schiaccerebbe il finito, mentre l’essere di cui si parla è forse
incomprensibile solo perché non ha niente da comunicare), (la donna) è
piuttosto una divinità, un astro (…) una luce, uno sguardo, un invito alla
felicità , e talvolta il suono di una parola; ma soprattutto è un’armonia
generale , non solo nel gesto e nel movimento delle membra, ma anche nelle
mussole, nei veli, negli ampi e cangianti nembi di stoffe in cui si avvolge,
che sono come gli attributi e il fondamento della sua divinità”. La moda, in
altre parole, è “uno dei segni della nobiltà primitiva dell’anima umana”, “un
sintomo del gusto dell’ideale”, un modo con cui la donna si eleva a una
dimensione magica e soprannaturale, si pone come idolo e statua di fronte a uno
sguardo adorante: “Il rosso e il nero rappresentano la vita, vita
soprannaturale e smisurata; il bordo nero fa lo sguardo più profondo e
singolare, dono all’occhio un’apparenza più risoluta di finestra aperta
sull’infinito; il rosso che infiamma i pomelli, accresce vieppiù la luminosità
della pupilla e insinua in un bel volto femminile la misteriosa passione della
sacerdotessa”.
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