A cura di Claudia Bianco
Nicolas Boileau (1636-1711) nella
Prefazione alla sua traduzione del trattato longiniano e nelle Réflexions
critiques sur quelques passages du rhéteur Longin (pubblicate postume nel
1713), aveva distinto tra stile sublime ed effetto sublime:
mentre il primo non è altro che uno dei generi dell’oratoria individuati dalla
retorica antica, uno stile magniloquente e appropriato ad argomenti eroici, il
secondo consiste nello “straordinario” e nel “meraviglioso” che ci colpiscono
nel discorso.
Riprendendo e ponendosi in
continuità con la riflessione longiniana, Boileau ne ripropone il dualismo e
l’ambivalenza; il sublime si presentava come un fatto al tempo stesso stilistico-psicologico,
ossia come una precisa strategia retorica mirante alla produzione di un effetto
di ammirazione, sorpresa e rapimento nel lettore o nell’ascoltatore.
L’intento di Boileau che risultò
poi invano, consisteva nel ricondurre il sublime all’interno di una poetica
classicistica, attraverso un elogio della semplicità e della mitezza; invano
poiché, a causa del suo continuo insistere sulla tematica degli effetti del
sublime, finì per spingere il dibattito settecentesco in una direzione
nettamente anticlassicistica, portando alla luce una concezione della poesia
intesa come esaltazione, rapimento, pathòs. Oltretutto, siamo qui immersi in un
clima culturale attraversato dall’ammirazione per poeti come Pindaro e Dante,
Shakespeare e Milton, i cui scritti costituiscono il contesto a cui si
riferisce l’Inchiesta sul Bello e il Sublime ( A Philosophical Enquiry into
the Origin of Our Ideas of the Sublime and the Beautiful, 1756) di Edmund
Burke .
Anche solo osservando il titolo
del trattato di Burke si comprende quali siano le linee guida del suo approccio
al tema del sublime: quella che egli propone non è infatti un’analisi stilistica,
poetica e retorica dei luoghi del sublime nella letteratura, bensì una
ricerca filosofica sull’idea del sublime, condotta a partire da
una psicologia empirica delle passioni e da una teoria empirica della
conoscenza di stampo lockiano, secondo cui le idee e i sentimenti traggono
origine dalle sensazioni. Il sublime, per Burke, è perciò un’idea che
deve essere nettamente distinta dall’idea del bello e di cui da un lato bisogna
cercare l’origine in determinate qualità sensibili o dinamiche esperenziali,
e dall’altro scovarne gli effetti in determinate passioni e determinati
sentimenti provati dal soggetto. Il trattato si apre con un’introduzione
intitolata Sul gusto nella quale Burke, - intervenendo su un tema assai
dibattuto nell’estetica di lingua inglese del Settecento, per esempio in La
regola del gusto di Hume – si pronuncia a favore dell’esistenza di una regolarità
e di una uniformità del giudizio di gusto in virtù del suo radicamento
empirico-fisiologico, che è necessariamente intersoggettivo in quanto relativo
alla natura umana in generale. Del gusto – ossia del giudizio relativo alle
“opere dell’immaginazione e delle belle arti” - , così come della facoltà
razionale di giudicare del vero e del falso, deve esistere una certa
regolarità, altrimenti verrebbe minata la stessa natura sociale della
vita umana. Secondo Burke, infatti è probabile che la regola sia della ragione
sia del gusto abbia in tutte le creature umane le stesse caratteristiche;
poiché, se non vi fossero principi del giudizio, così come di sentimento,
comuni a tutti gli uomini, non si potrebbe fare nessun affidamento sulla loro
ragione o sulle loro passioni, tale da permettere l’ordinario rapporto di
vista. L’analisi delle idee del bello e del sublime condotta da Burke deve
dunque partire da un attento esame delle passioni umane, della loro origine e
delle loro trasformazioni all’interno della dinamica conoscitiva della mente,
in cui operano facoltà come l’ingegno (wit) e il giudizio (judgement)che,
rispettivamente, colgono somiglianze e dissomiglianze tra i contenuti sensibili
derivanti dalla sensazione.
Per arrivare a definire lo
statuto dell’idea del sublime Burke comincia affermando che esistono due specie
di piaceri e di dolori:in primo luogo, piaceri e dolori di una natura positiva
e indipendente; in secondo luogo quelli che nascono dalla cessazione della
sensazione a loro opposta. In particolare, oltre al piacere positivo (pleasure),
esiste un piacere negativo detto diletto (delight), che è appunto
negativo o relativo in quanto scaturisce dalla scomparsa di un dolore o di un
pericolo e consiste in una specie di tranquillità oscurata dall’orrore e ad una
specie di passione mista di terrore e stupore. Il tema del terrore, quale
componente ineliminabile del piacere prodotto dall’idea del sublime, assente
dal trattato dello Pseudo-Longino e dagli scritti di Boileau, diventa un
elemento centrale nella concezione burkiana del sublime, secondo la quale tutto
ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in
certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo
analogo al terrore, è una fonte del sublime, il quale produce la più
forte emozione che l’animo sia capace di sentire. Ma quindi cos’è il sublime?
Per Burke è un’idea capace di provocare una sensazione di diletto e sentimenti
come lo stupore, l’ammirazione, la riverenza e il rispetto ed il presupposto
perché si possa parlare di sublime è la distanza interocorrente tra il soggetto
che prova tali sentimenti ed il pericolo, distanza che deve perciò essere tale
da non mettere a repentaglio la sua incolumità. Perché possa essere considerato
tale, il sublime deve quindi essere contemplato come uno spettacolo da
un soggetto posto a una certa distanza ma capace di lasciarsi coinvolgere empaticamente
nello spettacolo osservato: come osserva Burke, noi proviamo un certo diletto,
e non piccolo, nelle reali disgrazie e nei dolori degli altri.
In opposizione e in antitesi con
il sublime è l’idea del “bello”, che secondo Burke non può essere
definito, classicamente, come proporzione e armonia: l’ordine e la convenienza
tra le parti sono infatti qualità colte dall’intelletto, là dove l’effetto
della bellezza è molto più immediato e sensibile. La contemplazione di una
proporzionalità armonica e funzionale suscita un’approvazione ben diversa dal
piacere positivo provocato dalla visione della bellezza, la quale ha dunque
un’origine sensibile; se le passioni suscitate dal sublime erano il
terrore, lo stupore e il rispetto- passioni relative alla tendenza di ogni
individuo alla propria autopreservazione, quella suscitata dalla bellezza è
invece l’amore, una passione eminentemente sociale, intersoggettiva che nelle sue
forme più intense diventa lussuria e ha per fine la procreazione, ma che può
anche essere rivolta alla bellezza in generale.
La scelta di un approccio
empiristico allo studio delle idee del bello e del sublime conduce Burke, da un
lato, a tentare di individuare con precisione tutte le qualità sensibili capaci
di determinarle, e dall’altro a descrivere le modificazioni fisiologiche e
fisionomiche che esse determinano nel soggetto che le esperisce. All’origine
dell’idea del sublime ci sarebbero quindi la contemplazione di spazi di ampie
dimensioni (montagne, distese oceaniche, vaste pianure) e di una potenza tale
da far perdere la nostra immaginazione, il sentimento dell’infinito, la
privazione nelle sue diverse forme (il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il
silenzio), il grandioso e l’eccessivo, così come determinati colori, sapori e
suoni; la concezione burkiana del sublime non è infatti caratterizzata da un
primato della visione, bensì, al contrario, nasce dalla visione di cose piccole
e delicate, e dal contatto con tutto ciò che è liscio, levigato, sinuoso. Nel
delineare i tratti fisionomici che si accompagnano alle idee del bello e del
sublime, infine, Burke si riferisce a tutta una tradizione che alla riflessione
psicologica sull’origine e sulla natura delle passioni, aveva accostato
osservazioni di carattere fisiologico e fisionomico; l’esempio più noto è il
trattato di Charles Le Brun (1619-1690), in cui l’autore In questo testo
Le Brun riprendeva la classificazione delle passioni esposta da Cartesio nel
trattato Le passioni dell’anima per dare vita a una vera e propria tassonomia
espressiva delle passioni così come esse si manifestano alterando il volto
umano. Ricollegandosi a questa tradizione, Burke parla a sua volta delle
manifestazioni somatiche che si accompagnano alle esperienze del sublime e del
bello: un uomo che soffre di un violento dolore fisico ha i denti stretti, le
sopracciglia fortemente contratte, la fronte corrugata, gli occhi incavati e
roteanti affannosamente, i capelli irti; la voce è emessa a fatica in brevi
grida e gemiti, tutto l’organismo è scosso. La paura o il terrore, che è
un’apprensione del dolore o della morte, produce esattamente gli stessi
effetti, che per violenza si avvicinano a quelli sopra menzionati, in
proporzione alla vicinanza della causa e alla debolezza del soggetto. Quando
abbiamo dinnanzi oggetti capaci di suscitare amore e diletto, il corpo è
impressionato: il capo si piega un po’ di lato, le palpebre sono più socchiuse
del solito, e gli occhi si muovono languidamente volgendosi all’oggetto; la
bocca è semiaperta e il respiro è lento, inframmezzato di quando in quando da
un profondo sospiro; tutto il corpo è rilassato, e le mani scendono inerti
lungo i fianchi. Il tutto è accompagnato da un intimo senso di intenerimento e
languore.
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