A cura di Claudia Bianco
Gli undici manoscritti che ci hanno tramandato il trattato intitolato Sul
sublime (Peri hypsous) non forniscono alcuna indicazione sicura
circa l’identità del suo autore, che è stato oggetto, sin dall’inizio dell’Ottocento,
di una complessa disputa filologica rimasta tuttora irrisolta. Sebbene
un’attribuzione certa non sia stata ancora stabilita, tanto che all’autore
anonimo si assegna ormai per comodità il nome di Pseudo-Longino, oggi prevale
l’opinione secondo cui lo scritto dovrebbe essere collocato cronologicamente
nell’età augustea e comunque non oltre la prima metà del I secolo d.C. Sullo
sfondo del trattato si collocano le grandi polemiche che attraversavano la
retorica tardo-ellenistica , come l’opposizione tra gli stili atticista
e asiano, ossia tra uno stile semplice chiaro e ordinato, modellato
sulla prosa attica del IV secolo a.C., e uno irregolare, basato su frasi brevi
e spezzate, ricco di figure retoriche e di ricercati effetti ritmici e
fonetici. La contrapposizione fra atticismo e asianesimo si ripropone,
tra la seconda metà del I secolo a.C e la prima metà del I secolo d.C., nella
polemica tra apollodorei e teodorei, due tendenze che prendevano
il nome dai rispettivi capiscuola: Apollodoro di Pergamo (maestro di Augusto e
sostenitore dell’ideale di un’oratoria scientifica) e Teodoro di Gadara
(maestro di Tiberio che difese l’opposto ideale di un’oratoria poetica). Punti
di riferimento delle due tendenze erano Aristotele e Platone: dal primo discendevano
il razionalismo e la vocazione sistematica degli apollodorei, dal secondo
invece l’irrazionalismo e la libertà espressiva dei teodorei. Oltre a
collocarsi nel quadro delle distinzioni stilistiche allora vigenti, l’autore
del trattato Sul sublime riprende alcune riflessioni stoiche sulla
bellezza, sottolineando, in particolare, l’importanza delle motivazioni morali
ed esistenziali nella genesi della grandezza di un testo letterario.
Lo Pseudo-Longino eredita dalla tradizione retorica il concetto di “sublime”
(hypsos) come categoria esclusivamente formale e indicante uno stile
oratorio elevato e magniloquente. Già da tempo si era consolidata, negli studi
di retorica, la distinzione fra tre stili dell’oratoria, i cosiddetti tria
genera dicendi che Cicerone, riprendendo la terminologia della Retorica
ad Herennium, aveva classificato nell’Orator con i nomi di grave,
medium e tenue. Nello Pseudo-Longino la categoria del sublime, proveniente
dalle riflessioni sullo stile grave, viene reinterpretata e se ne sottolinea
la dimensione non solo stilistica, ma morale: “ il sublime è l’eco di una
grande anima”, e deve essere concepito come segno di un’intensa vita
interiore e di una tensione emotiva che, per essere comprese, richiedono dal
lettore o dall’uditore un atteggiamento ricettivo altrettanto magnanimo e
intenso.
Il sublime, inoltre, non deve essere semplicemente descritto,
bensì riconosciuto e praticato, valorizzando un ingenium innato
che deve essere presente nell’animo dell’oratore e che occorre sviluppare attraverso
un uso consapevole dell’ars retorica. La necessità di una conciliazione
di ars e ingenium, di tecnica oratoria e pathos, è una
delle tesi fortemente sostenute dal trattato, nel quale la concezione platonica
della poesia, fondata sul carattere divino e irrazionale dell’ispirazione (mania),
convive con il rispetto della tradizione e l’emulazione degli antichi, da cui
devono provenire gli strumenti capaci di forgiare l’espressione dei pensieri e
delle emozioni sublimi. Nel trattato lo Pseudo-Longino elenca nell’ottavo
capitolo le cinque fonti del “vero” sublime. Due sono innate (“lo slancio
esuberante dei pensieri” e il “pathos trascinante e ispirato”), mentre
le altre tre devono essere acquisite con la tecnica e consistono:
§
nell’uso sapiente e dissimulato del linguaggio figurato e delle
forme argomentative;
§
nella personalità stilistica che si manifesta in particolare
nella scelta lessicale;
§
e infine nella composizione (synthesis) delle parti del
discorso.
Nel corso del trattato, il sublime si delinea come uno stile oratorio
caratterizzato dall’altezza del discorso e dalla ricerca di effetti di
meraviglia, stupore e sbigottimento capaci di produrre nell’ascoltatore uno
stato di annichilimento e immedesimazione che va ben al di là della semplice
persuasione: “Il sublime non porta gli ascoltatori alla persuasione ma
all’esaltazione”. Con accenti che avranno una grande risonanza
nell’estetica settecentesca, quando si assiste a un’importante ripresa del tema
del sublime, lo Pseudo-Longino esalta la naturale tendenza dell’uomo verso
tutto ciò che è grande e potente: “ la natura non ha giudicato l’uomo una
creatura ignobile e di poco conto, ma, introducendoci nella grande e festosa
adunanza della vita e dell’ordine cosmico affinché, allo spettacolo dei suoi cimenti,
potessimo ambire e competervi, ha subito infuso nelle nostre anime il desiderio
irresistibile di ciò che è sempre grande e che ci sovrasta con la sua
divinità. Perciò agli slanci dell’osservazione e del pensiero umano l’universo
intero è insufficiente, perché anzi la nostra mente spesso eccede i limiti del
creato”. La fortuna delle tesi dello Pseudo-Longino è tutta moderna: né
dall’Antichità classica né dalla tradizione medioevale ci pervengono
riferimenti al trattato. A partire dalla traduzione inglese di John Hall
(1652) e da quella francese di Nicolas Boileau (1674), la fama dello
Pseudo–Longino si diffonde nella cultura dell’Europa moderna, e il concetto di
sublime si impone come tema centrale della riflessione estetologica, superando
l’ordinaria connotazione stilistica e retorica e presentandosi come fulcro di
una riflessione sulla varietà delle forme del bello e del piacere. Se Boileau
vede lo Pseudo-Longino come un paladino dei classici, nel Settecento inglese
l’autore è visto come teorico delle motivazioni irrazionali ed emotive
dell’arte e le sue idee diventano il punto di partenza per una più ampia
riflessione filosofica (Burke e Kant).
PLOTINO
Il
bello intelligibile
Gli scritti di Plotino (205-270 ca.d.C.) furono sistemati in sei gruppi
di nove trattati con il titolo complessivo di Enneadi dall’allievo
Porfirio, autore anche di una Vita di Plotino alla quale dobbiamo tutte
le informazioni in nostro possesso sulla vita del filosofo. All’interno dei 54
trattati componenti le Enneadi si trovano scritti di argomento diverso,
disposti secondo un ordine tematico che non riflette la sequenza cronologica in
cui furono redatti e nei quali compaiono integrazioni e cesure introdotte
probabilmente dallo stesso Porfirio. Due sono i testi espressamente dedicati
alla tematica del bello:
- il trattato Sul
hello ( Peri tou kalou), considerato come uno dei primi scritti su
Plotino;
- e quello
intitolato Sul bello intelligibile , appartenente a una fase
successiva della speculazione plotiniana.
L’innovazione sostanziale della speculazione plotiniana rispetto alla
tradizione filosofica del platonismo, risiede nella concezione di un’unità
suprema e ineffabile, l’Uno, posta alla fonte stessa dell’essere, ma di cui
l’essere non può essere predicato. L’Uno può infatti essere menzionato solo in
termini negativi: al di sopra dell’essere e della conoscenza, esso è infinito,
illimitato, informe ( in quanto al di là di ogni forma e figura),
assolutamente trascendente rispetto a ogni molteplicità e misura. Nello
sviluppare la propria concezione dell’Uno, Plotino riprende sia l’ipotesi di
un’unità del tutto separata rispetto al molteplice, avanzata da Platone nel Parmenide,
che la concezione dell’idea del Bene come fonte trascendente della realtà e
dell’intelligibilità delle idee, esposta nella Repubblica. In questi
secondo dialogo, inaugurando una metafisica della luce poi ampiamente ripresa
da Plotino, Platone sosteneva che l’idea del Bene è per gli oggetti della
conoscenza (le idee) e per il conoscere stesso ciò che il sole è per gli
oggetti visibili e per la vista: così come il sole produce i colori che noi
vediamo e fornisce nello stesso tempo all’occhio la facoltà di vedere (l’occhio
è infatti a sua volta fonte di luce), alla stessa maniera il Bene dà agli
oggetti della conoscenza dialettica il loro essere (ousia) e li rende
conoscibili pur distanziandosi da essi. Infatti, come il sole non è né i colori
che vediamo né l’occhio che li vede, così il Bene è qualcosa di ancora più alto
dell’essere delle idee: la sua “irresistibile bellezza” si colloca al di là
dell’essere stesso, “dall’altra parte dell’essere” (epekeina tes ousias).
Riprendendo questi temi platonici, Plotino concepisce l’Uno come identico
al Bene e come infinita fonte di luce che si irradia sulla realtà che da esso
procede per emanazione. Esso è al tempo stesso al di là dell’essere e
“sorgente dell’essere”, e in quanto tale fonte inesauribile di vita, potenza
attiva che trabocca spontaneamente al di fuori di sé dando luogo alla
processione gerarchica discendente degli esseri. La generazione della realtà da
parte dell’Uno è descritta da Plotino come un processo di sovrabbondanza e
donazione che dà luogo progressivamente all’Intelligenza, alle idee in
cui essa si articola – modelli intelligibili e archetipi eterni della realtà
sensibile – e infine all’anima, che come “Anima del mondo” pervade il cosmo ed
esplica la propria attività demiurgica dando vita alla materia e imprimendovi
le forme intelligibili. All’estremo opposto dell’Uno-Bene, all’altro capo
della gerarchia ontologica emanativa, si colloca la materia (hyle), concepita
come negatività pura, “privazione”, massa informe, ossia ciò che rimane del
reale una volta sottratta da esso ogni forma. Trascinato verso il basso dalle
passioni corporee e verso l’alto da un’anima che tende a ricongiungersi alla
dimensione intelligibile e immateriale da cui proviene, l’uomo deve fuggire il
male insito nella corporeità e nel sensibile e cercare di favorire il ritorno
dell’anima verso il bene e la luce.
Compito della filosofia è quindi di condurre l’uomo a rientrare nella
propria interiorità, purificarsi e ascendere gradualmente verso l’intelligibile
in modo da avvicinarsi progressivamente a quella forma suprema di conoscenza
che è l’estasi, “uscita da sé, pensiero al di là del pensiero,
caratterizzato da un’unione assoluta con il proprio oggetto e da un assoluto
appagamento.
A partire da questo complesso quadro
ontologico, la speculazione plotiniana sulla bellezza e sull’arte assume
un’irriducibile valenza etica e metafisica. Nel trattato Sul bello
Plotino comincia con il rifiutare la tradizionale concezione della bellezza
come armonia e proporzione, sostenendo che questa sembra riferirsi
esclusivamente a oggetti composti in cui possa esservi simmetria tra le parti:
al contrario, la bellezza risiede innanzitutto negli oggetti e nelle qualità
semplici, in quanto ogni allontanamento dall’unità verso la molteplicità
equivale a una perdita di perfezione. Causa della bellezza è l’imprimersi di
una forma nella materia, che fa sì che questa partecipi dell’intelligibilità
dell’idea e sia pervasa da una luce spirituale e soprasensibile. In questo
primo trattato Plotino riprende poi il tema della funzione anagogica della
bellezza esposto da Platone nel Simposio e nel Fedro, dove il
progressivo ritorno dell’anima verso la sfera delle idee avveniva tramite la
contemplazione e l’amore rivolto a forme di bellezza via via più spirituali e
immateriali. Al culmine del celebre discorso di Diotima nel Simposio di
Platone si situa infatti la contemplazione di un “bello in sé”, “divino e
uniforme”, rispetto al quale ogni altra forma di bellezza non è che un mero
riflesso. Anche nel trattato Sul Bello di Plotino (Enneadi, I,6)
la visione della bellezza sensibile è un momento fondamentale del cammino di
ascesi e purificazione che deve ricondurla all’Uno: «L’anima purificata
diventa dunque una forma, una ragione, si fa tutta incorporea, intellettuale ed
appartiene interamente al divino, ov’è la fonte della bellezza e donde ci
vengono tutte le cose dello steso genere (…) il bene e la bellezza dell’anima
consistono nel rassomigliare a dio, poiché da lui derivano il bello e la natura
essenziale degli esseri. (…) ». Compito dell’anima è perciò quello di
distogliere gradualmente la propria visione da quei corpi che non sono altro
che “immagini e tracce e ombre” della vera fonte della bellezza, e, rientrando
in sé, risalire verso quell’Uno concepito come coincidente con il Bene e
circondato da ogni parte dal Bello, un «Bello che dispensa la bellezza a
tutte le cose e la dà rimanendo in sé senza ricevere nulla in sé».
Nel successivo trattato Sul bello intelligibile (Enneadi V,8)
troviamo un’importante riformulazione della posizione platonica riguardo al
tema della mimesis. Nella Repubblica Platone non aveva condannato
in blocco l’arte mimetica (mimetike techne) , ma solo quella che si
esplica come imitazione del sensibile e non del modello intelligibile, l’idea.
Riprendendo una tesi già sostenuta da Cicerone nell’Orator e gravida di
conseguenze per il futuro della riflessione sullo statuto dell’arte, Plotino
sostiene che l’attività artistica si sviluppa a partire da un’idea presente
nella mente dell’artefice, il quale è capace di imprimerne la forma nella
materia.
In questo modo l’artista non è più concepito come vano imitatore
dell’ingannevole mondo delle apparenze sensibili, né come rigidamente
subordinato alla contemplazione di un’essenza metafisica e sovraindividuale,
bensì come colui che reca nel suo spirito un’dea di bellezza ed è in grado di
trasferirla nella materia, partecipando così nella stessa attività di
imitazione demiurgica che pervade l’intera natura: una tesi, quella di Plotino,
destinata ad aprire la strada verso una radicale rivalutazione dello statuto
dell’artista e delle arti mimetiche che sarà sviluppata nelle poetiche del
neoplatonismo rinascimentale.
LEONARDO da VINCI
Arte e
interpretazione della natura
Gli scritti di
teoria dell’arte di Leonardo da Vinci (1452-1519) – note, aforismi,
osservazioni su temi diversi, dalla teoria della prospettiva e della
rappresentazione di luci e ombre a indicazioni dettagliate sulla pratica
quotidiana del dipingere - non furono pubblicati durante la sua vita.
Il Trattato della pittura, che è la fonte principale per conoscere
le sue idee sull’arte, non fu redatto di suo pugno ma è una compilazione dovuto
ai suoi allievi. Scritto probabilmente a partire dalla fine del Quattrocento,
la prima edizione parziale apparve nel 1651 a Parigi, mentre l’edizione integrale, che si basa sul manoscritto 1270 di Urbino, uscì soltanto nel 1817 a cura di G. Manzi.
Il Trattato appartiene a pieno titolo a un insieme di tesi di
teoria dell’arte scritti da artisti, architetti e umanisti che hanno segnato
profondamente la cultura rinascimentale: tra questi possiamo menzionare i tre
trattati di Leon Battista Alberti intitolati rispettivamente De pictura, De
re aedificatoria e De statua, i Commentarii di Lorenzo Ghiberti, il De
prospectiva pingendi di Piero della Francesca e il De divina proporzione
di Luca Pacioli per quanto riguarda la teoria della prospettiva, i trattati di
architettura del Filerete e di Francesco di Giorgio Martini o ancora,
l’affascinante Hypnerotomachia Poliphili del domenicano Francesco
Colonna. Attraverso la riflessione teorica sui principi delle arti visive e
della rappresentazione, gli artisti rinascimentali aspiravano al riconoscimento
delle loro attività come arti liberali e non più come mere arti
meccaniche. Riprendendo categorie concettuali tratte dalla filosofia e
dalla retorica, ed elaborando paradigmi storiografici miranti a esaltare il
proprio ruolo di artisti, come quello presentato dal Vasari nelle Vite de’
più eccellenti architetti, scultori e pittori, sostenevano la necessità di
attribuire alle arti visive uno statuto pari se non superiore a quello della
poesia, di cui da tempo era stata riconosciuta la dimensione intellettuale.
Leon Battista Alberti è il primo umanista a sviluppare una teoria
complessiva dell’arte nei tre trattati da lui dedicati alla pittura,
all’architettura e alla scultura. Il De pictura, in particolare,
costituisce un importante precedente e termine di confronto per la comprensione
del Trattato di Leonardo. Qui l’Alberti comincia con la tesi secondo cui
la pittura ha come oggetto solo ed esclusivamente il visibile (“Delle
cose quali non possiano vedere, neuno nega nulla apartenersene al pittore. Solo
studia il pittore fingere quello che si vede”) e prosegue sostenendo che la
rappresentazione pittorica deve essere concepita come “intersezione della
piramide visiva”, ossia come “finestra” aperta e delimitata all’interno del
campo visivo.
Tale spazio della rappresentazione deve poi essere costruito seguendo
rigorosamente le leggi della rappresentazione prospettica, elaborate di recente
dal Brunelleschi, che si pensava riflettessero esattamente le leggi della
visione. Sulla base di questa analogia tra visione empirica e rappresentazione
pittorica si fondava, secondo l’Alberti, la “forza divina” della pittura,
capace, “come l’amicizia”, di “far gli uomini assenti essere presenti, (e) i
morti dopo molti secoli essere quasi vivi”. Dopo aver richiamato alcuni temi
ripresi dalla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (23-79 d.C.),
secondo il quale all’origine della pittura ci sarebbe stato il fascino di
Narciso per la propria immagine riflessa e il tratto con cui furono delineati
la prima volta i contorni dell’ombra di un volto amato, l’Alberti riprende
l’argomentazione sistematica e suddivide la pittura in tre parti o momenti:
1.
la circoscrizione dello spazio della rappresentazione;
2.
la composizione degli elementi rappresentati;
3.
la ricezione delle luci e delle ombre.
Nel suo insieme, la riflessione dell’Alberti sulle arti si caratterizza
come un complesso tentativo di rifondare la pratica pittoria, architettonica e
scultorea su basi razionali che avessero al tempo stesso precisi riferimenti
nell’Antichità e una solida impostazione scientifica. Nel De re
aedificatoria, la razionalità delle arti si fonda sul fatto che esse
traggono origine dal disegno, inteso come “preordinazione concepita
dall’anima” e come “prodotto dell’ingegno “ prima ancora che come
tracciato materiale di linee e di angoli. Il riferiemento all’Antichità
classica veniva individuato da un lato nella ripresa di termini tratti dalla
teoria della retorica (inventio, compositio ecc.), e dall’altro
nella formulazione della teoria del bello come concinnitas, un termine
che riprendeva il tema ormai tradizionale della simmetria e della proporzione
caricandolo di specifiche valenze morali. La scientificità dell’arte, infine,
risiedeva nel riferimento alla teoria della prospettiva, argomento che durante
il Rinascimento avrebbe occupato non soltanto artisti con spiccati interessi
scientifici (Piero della Francesca, Lenardo), ma anche matematici (Luca
Pacioli), architetti (Brunelleschi, Bramante), scultori (Ghibertim,
Donatello). Fondare la teoria della rappresentazione pittorica sulla teoria
della costruzione prospettica significava, come abbiamo visto da un lato
conferire un fondamento “naturale” alla pittura rendendola analoga alla
visione, e dall’altro trovare un metodo il più possibile univoco e stabile per
la rappresentazione sul piano dello spazio tridimensionale e per la misurazione
del decrescere delle grandezze rappresentata con l’aumentare della distanza.
Nel Trattato della pittura di Leonardo ritroviamo gran
parte di questi temi, con alcune importanti differenze. Insieme al rapporto
tra pittura e visione e alla costruzione prospettica della rappresentazione,
troviamo infatti una grande varietà di osservazioni su temi diversi – la
formazione del pittore, la vita quotidiana nello studio, i piaceri della
pittura – oltre a indicazioni precise sulla rappresentazione del corpo umano,
del paesaggio, dei corpi trasparenti o opachi, delle emozioni, delle storie. La
problematica della luce e dell’ombra ricorre come parte essenziale di un
approccio che, al culto della classicità che pervade gli scritti dell’Alberti,
sostituisce un tentativo di legittimazione dello statuto scientifico della
pittura a partire da un’incessante attività di ricerca e di sperimentazione sul
mondo delle forme naturali. Lo statuto scientifico della pittura deriva,
secondo Leonardo, dalla superiorità della vista rispetto a tutti gli
altri sensi quale strumento di investigazione della natura. «L’occhio, che
si dice finestra dell’anima, è la principale via donde il comune senso può più
copiosamente e magnificamente considerare le infinite opere di natura». La
pittura, “partorita dalla stessa natura” e intesa come capacità di riprodurre
le realtà visibile, “evidenti”, sulla superficie piana, ha uno statuto
propriamente filosofico: «la pittura è filosofia (…) sola imitatrice
di tutte le opere evidenti di natura (…) è una sottile invenzione la quale con
filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme: mare,
siti, piante, animali, erbe, fiori, le quali sono cinte di ombra e di lume».
Oggetto di conoscenza della pittura è dunque il visibile , la superficie
visibile delle cose, che essa imita in modo che l’imitazione non si riduce a
mera riproduzione ma costituisce un vero e proprio processo euristico,
sperimentale, osservativo. L’atteggiamento di Leonardo nei confronti della
natura è empirico e razionale al tempo stesso. Come ogni scienza degna di tale
nome, la pittura deve avvalersi di “matematiche dimostrazioni” e di
“esperienza”: essa “è prima nella mente del suo speculatore, e non può
pervenire alla sua perfezione senza la manuale operazione”. Delle dieci
qualità del visibile (“ luce, tenebre, colore, corpo, figura, sito, remozione,
propinquità, moto e quiete”) la pittura è in grado di coglierne sette, in
quanto non riesce a rappresentare l’interno dei corpi al di là della loro
superficie opaca, né il moto e la quiete. Lo studio della natura è dunque
filtrato dalla pittura come capacità rappresentativa che tratta la disposizione
delle luci e delle ombre come un fenomeno naturale e la costruzione prospettica
come una struttura geometrica che conferisce scientificità alla rappresentazione.
La prospettiva, infine è studiata da Leonardo non solo come prospettiva lineare,
che costruisce geometricamente il decrescere della grandezza degli oggetti
con l’aumentare della distanza, ma anche come “prospettiva aerea” in cui la
distanza stessa viene resa attraverso il colore e lo sfumato.
Da questa analisi della pittura quale strumento privilegiato di indagine
del visibile deriva nel Trattato l’esaltazione del ruolo del pittore,
“padrone di tutte le cose che possono cadere in pensiero all’uomo”, e la
celebre tesi della superiorità della pittura rispetto alla poesia, una ripresa
da parte di Leonardo del tema ormai tradizionale del paragone fra le arti. Il
primato della pittura, secondo lui, deriva:
§
da un lato dalla superiorità della vista rispetto all’udito e
dell’immagine rispetto alla parola (che sta all’immagine come l’ombra al corpo
vero e proprio);
§
dall’altro dalla capacità dell’immagine di rappresentare simultaneamente
il proprio contenuto, anziché successivamente come è costretta a
fare la poesia, composta di parole che si susseguono l’un l’altra.
Una distinzione, questa, tra simultaneità della rappresentazione
pittorica e sequenzialità del discorso poetico, che sarà ripresa e
approfondita nel Settecento dal Laocoonte di Gotthold Ephraim Lesing
(1729-1781).
GIAMBATTISTA VICO
La
logica poetica
Nel capitolo della sezione storica dell’Estetica dedicato a Vico,
Benedetto Croce scrive: «Il rivoluzionario, che, mettendo da parte il
concetto del verisimile e intendendo in modo muovo la fantasia, penetrò la vera
natura della poesia e dell’arte, e scoperse, per così dire, la scienza
estetica, fu l’italiano Gianbattista Vico», e lo fece «dieci anni
innanzi che si pubblicasse in Germania il primo opuscolo del Baumgarten»
con la Scienza nuova prima del 1725. Le due
sezioni presenti nella Scienza nuova seconda del 1730, intitolate
rispettivamente “Della sapienza poetica” e “ Della discoperta del
vero Omero”, avrebbero poi, secondo Croce, dato ulteriore fondamento al
primato di Vico quale vero e proprio iniziatore dell’estetica, in anticipo
rispetto ad Alexander Gottlieb Baumgarten, pubblica la Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus nel 1735 e l’Aesthetica
nel 1750. Nell’interpretazione di Croce, l’originalità e il valore fondativi
del pensiero di Vico consisterebbero nell’aver ricondotto la poesia a “un
periodo della storia dell’umanità” che deve essere inteso più in generale come
“un momento della storia ideale dello spirito, una forma della coscienza”.
Nella concezione vichiana della storia, la fantasia all’origine
dell’espressione poetica è dotata di una sua autonomia espressiva e
conoscitiva, tanto che si può dire che “il grado fantastico è affatto
indipendente e autonomo rispetto a quello intellettivo, che non solo non gli
può aggiungere alcuna perfezione, ma riesce solamente a distruggerlo”. Arte e
scienza, fondate rispettivamente su fantasia e intelletto, sarebbero dunque
attività contrapposte e inconfondibili, e merito di Vico sarebbe l’aver
chiarito il ruolo e l’autonomia della “fantasia creatrice” nello sviluppo
storico delle istituzioni e delle forme di conoscenza, del linguaggio, della
mitologia, delle figurazioni simboliche, sicché, a ben vedere, “la vera Scienza
nuova del Vico è l’Estetica”. Al tempo stesso, però, la lettura di Croce coglie
alcuni aspetti cruciali dell’importanza del pensiero di Vico per la storia
dell’estetica: il ruolo centrale, espressivo e conoscitivo attribuito alla
fantasia, la produttività dell’immaginazione, il radicamento sensibile e
sentimentale delle forme espressive.
Il tema della rivendicazione dello statuto di verità del poetico e
dell’autonomia della poesia rispetto ad altre forme conoscitive e ad altre
regioni della cultura era già stato al centro della riflessione ai autori del
primo Settecento italiano come Gian Vincenzo Gravina (Della ragion poetica,
1708) e Ludovico Muratori (Della perfetta poesia italiana, 1706; Riflessioni
sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti, 1708) e le loro opere
costituiscono il contesto entro cui si sviluppa il pensiero vichiano. Nel nuovo
approccio alla storia presentato da Vico nelle tre edizioni della Scienza
nuova (1725,1730,1744), l’evoluzione delle istituzioni sociali dell’umanità
dopo il diluvio procede in parallelo con lo sviluppo delle forme della
conoscenza e del linguaggio. In un celebre passo della Scienza nuova
seconda Vico scrive: “Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi
avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura”.
Allo sviluppo delle forme di conoscenza dalla sensazione al sentimento, alla
fantasia e alla ragione corrisponde la suddivisione della storia in tre età e
in tre forme linguistiche: «Ci sono pur giunti due gran rottami
dell’egiziache antichità, che si sono sopra osservati. De’ quali uno è che gli
egizi riducevano tutto il tempo del mondo scorso loro dinanzi a tre età, che
furono: età degli dei, età degli eroi ed età degli uomini. L’altro, che per
tutte queste tre età si fussero parlate tre lingue, nell’ordine corrispondenti
a dette tre età, che furono: la lingua geroglifica, ovvero sagra, la lingua
simbolica o per somiglianze, qual è l’eroica, e la pistolare o sia volgare
degli uomini, per segni convenuti da comunicare le volgari bisogne della lor vita».
1.
Età degli dei (ossia dei miti religiosi primitivi);
2.
l’età degli eroi ( o del dominio signorile, così come è descritto
nei poemi omerici);
3.
l’età degli uomini (caratterizzata dalla comparsa del pensiero
filosofico e delle codificazioni legislative).
Le forme espressive delle prime due età, la “lingua geroglifica” e la
“lingua simbolica o per somiglianze”, devono, secondo Vico, essere ricondotte
alle forme conoscitive che le hanno generate: sono espressione di una fantasia
spontaneamente animistica e antropomorfica, ma manifestano una “sapienza
poetica” che deve essere compresa filologicamente, evitando due forme
opposte di pregiudizio quali il disprezzo razionalistico nei confronti delle
superstizioni arcaiche – come se queste fossero prive di senso – e
l’atteggiamento esoterico che vede in esse forme di sapere occulto. I miti non
sono dunque né invenzioni arbitrarie né travestimenti allegorici di verità
filosofiche, bensì narrazioni in cui trova espressione la natura
mitico-fantastica dell’umanità primitiva, l’immaginazione collettiva dei
popoli. Il mito è poesia, è l’esplicitarsi di una “sapienza poetica” che
caratterizza le fasi iniziali dell’umanità, quando dominano facoltà come il
senso, la fantasia, la memoria, che “mettono le loro radici nel corpo e
prendono vigore dal corpo”. Nelle lingue geroglifiche e simboliche Vico
rintraccia i “caratteri poetici” e gli “universali fantastici” di lingue che si
sono formate a partire dai gesti e dal canto sulla base dell’esigenza di
rapportarsi mimeticamente alla natura e di esprimere con vivacità le passioni.
Le prime lingue articolate, che erano lingue “poetiche”, ricorrevano infatti a
immagini, somiglianze, comparazioni, metafore. Figure retoriche come la
metafora e la sineddoche non erano mere decorazioni esteriori che si
aggiungevano a un linguaggio già organizzato, bensì forme espressive che
riflettevano forme di conoscenza proprie di quell’”infanzia” dell’umanità nella
quale la comprensione del mondo esterno avviene cogliendo somiglianze e
analogie tra cose animate e cose inanimate. La “ragion poetica” che
caratterizza la mentalità dei popoli nelle prime fasi del loro sviluppo è
dunque pervasa dalla tendenza a comprendere il mondo secondo categorie mitiche,
riconducibili a determinati “caratteri poetici” che devono essere intesi come
forme embrionali di concetti nei quali la somiglianza metaforica supplisce alla
mancanza di astrazione.
La riflessione di Vico sulla “sapienza poetica” e sul ruolo conoscitivo
ed espressivo della fantasia si colloca pertanto nel quadro di un progetto di
ricerca sull’origine dei miti, del linguaggio, dell’evoluzione delle società
primitive. Il mondo storico studiato da Vico non è costituito di oggetti
materiali ed esterni (come il mondo naturale), né di enti fittizi (come quello
della matematica), bensì è un universo composto da motivi, propositi, azioni,
passioni, speranze, linguaggi, miti, leggi, istituzioni civili che l’uomo può
conoscere in quanto ne è il protagonista.
La “scienza nuova” delineata da Vico deve essere al tempo stesso storia
filologia e filosofia, dove lo studio dei fatti si fonde con quello
dell’evoluzione delle forme linguistiche e conoscitive. In aperta polemica con
il razionalismo e il metodo deduttivo sviluppato dai cartesiani, caratterizzato
dalla ricerca di un’evidenza razionale che respingeva qualsiasi contaminazione
emotiva e da un ideale di austerità e sobrietà scientifica dello stile, Vico
ribadisce l’importanza storica e gnoseologica dell’eloquenza che sa muovere gli
affetti, della retorica, della poesia, della fantasia, dell’ingegno quale
facoltà produttrice di metafore. Il “vero” che è oggetto della scienza non
risiede tanto in rappresentazioni chiare e distinte che si offrono a una
coscienza autonoma rispetto alla storia, bensì nei fatti e nelle
concrezioni linguistico-espressive che la storia stessa ci propone; come scrive
Vico, il vero coincide con ciò che è stato fatto , “verum ipsum
factum”.
Radicata nello sviluppo storico dell’umanità, la fantasia possiede un
potenziale espressivo diverso e autonomo rispetto alla ragione, quasi opposto
ad essa: “La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio”.
Sottolineando un’opposizione tra conoscenza razionale e conoscenza poetica
presente anche in Baumgarten, Vico sostiene che se le “sentenze filosofiche,
che si formano dalla riflessione con raziocinii(…) più s’appressano al vero
quanto più s’innalzano agli universali”, le “sentenze poetiche”, espressione di
affetti e passioni , sono tanto più vere quanto più danno a conoscere il particolare.
A fronte di questa opposizione al razionalismo cartesiano, Vico sviluppa delle
tesi – come quella della radicale storicità del linguaggio che non deve essere
inteso come una creazione arbitraria e convenzionale ma come un’istituzione
radicata antropologicamente nell’evoluzione delle forme di vita e di conoscenza
dei popoli – che rimarranno al centro della riflessione settecentesca sul
linguaggio, in particolare in autori come Etienne Condillac (1715-1780),
Pierre-Louis Maupertuis (1698-1759), Jean-Jacques Rousseau(1712-1778) e Johann
Gottfried Herder (1744-1803).
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