A cura di Claudia Bianco
Nel saggio Il filosofo e la
sua ombra , Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) affronta il problema del suo
debito nei confronti del pensiero husserliano, e scrive: “La tradizione è oblio
delle origini, diceva l’ultimo Husserl. Ed effettivamente, se dobbiamo molto
allo stesso Husserl, non siamo in grado di vedere esattamente ciò che gli
appartiene”. L’intero percorso filosofico di Merleau-Ponty è caratterizzato da
un continuo confronto con alcuni grandi temi della fenomenologia husserliana-
lo statuto della percezione, della visione, del corpo proprio, dell’esperienza
preriflessiva-, ripresi nell’interrogazione della pittura attraverso il
confronto con l’opera di Paul Cézanne (1839-1906) che anima l’ultimo saggio da
lui pubblicato, L’occhio e lo spirito (L’Oeil et l’Esprit, 1960) . Questo
testo si colloca al termine di un percorso di pensiero iniziato con La
struttura del comportamento (1942) e proseguito con la pubblicazione della Fenomenologia
della percezione (1945) e delle raccolte di saggi Senso e non senso
(1948) e Segni (1960) , e si pone in stretta relazione con le note di
lavoro degli ultimi anni, pubblicate postume nel 1964 da Claude Lefort nel
volume intitolato Il visibile e l’invisibile (1964). Nel tentativo di
chiarire il modo in cui la riflessione di Merleau-Ponty sulla visione e la
pittura si inserisce nel quadro del pensiero fenomenologico, cominceremo con
l’esporre sinteticamente le osservazioni di Edmund Husserl (1859-1938) sul
rapporto tra estetica e fenomenologia e sullo statuto dell’immagine.
Sebbene il progetto
fenomenologico husserliano si sia progressivamente definito come edificazione
di una scienza dei fondamenti capace di descrivere le strutture del mondo
fenomenico e gli atti soggettivi che le costituiscono, assegnando così un ruolo
centrale all’analisi delle dinamiche estetiche della percezione e della
sensibilità, Husserl non ha mai dedicato un’attenzione specifica al problema
dell’arte. Gli unici suoi contributi in questo senso sono costituiti da un
manoscritto del 1906-1907 , Aesthetik und Phaenomenologie , dove
critica le interpretazioni psicologistiche e soggettivistiche dell’opera d’arte
proprie di autori come Theodor Lipps (1851-1914) , e da una breve lettera al
poeta Hugo von Hofmannsthal(1874-1929) , scritta nel 1907. In entrambi i testi
Husserl sottolinea le analogie tra metodo fenomenologico e atteggiamento
estetico, accomunati dal fatto che l’atteggiamento”naturale” e “ingenuo” nei
confronti delle cose e il nostro coinvolgimento irriflesso- di volta in volta
conoscitivo, emotivo o pragmatico – nei confronti del modo vengono sospesi,
messi tra parentesi. Il metodo fenomenologico presuppone la sospensione di
ogni presa di posizione irriflessa nei confronti del mondo (epoche) per
ricondurre le cose al loro darsi fenomenico nella sfera di una
soggettività pura, trascendentale, costitutiva, intesa come puro “sguardo” (Schauen)
che coglie intuitivamente e descrive strutture, somiglianze e differenze.
Ma anche l’atteggiamento
puramente estetico si basa sulla sospensione di ogni assunzione di esistenza
relative alle cose: “Le cose che ci stanno qui davanti sensibilmente, le cose
di cui parlano i discorsi comune e scientifico, le vediamo come realtà,
e su queste visioni d’esistenza (Existenzsehungen) si fondano atti del
sentire e del volere: gioia che questo è ,dolore che quello non è
, desiderio che ciò possa essere, e così via (prese di posizione
esistenziali, cioè, dell’animo) : il contrario di quanto accade
nell’atteggiamento spirituale della intuizione puramente estetica e della
situazione del sentire ad essa corrispondente. Ma il contrario, anche, e con
non minor ragione, di quanto accade nell’atteggiamento puramente
fenomenologico, al cui interno soltanto i problemi filosofici possono venire
risolti. Perché anche il metodo fenomenologico esige che venga rigorosamente
messa fuori circuito ogni presa di posizione esistenziale. Soprattutto nella
critica della conoscenza”. La differenza fra atteggiamento estetico dell’artista
e atteggiamento fenomenologico del filosofo risiede invece nella diversa motivazione
che sta dietro l’epoché : se da un lato il puro vedere del
fenomenologo mira a “penetrare il senso del fenomeno del mondo e ad
afferrarlo in concetti”, quello dell’artista è “un vedere per godere
esteticamente”, che intende appropriarsi intuitivamente del mondo “ per
raccogliere da ciò abbondanza di forme, materiali per creative formazioni
estetiche”.
A partire da questi brevi ma
suggestive osservazioni di Husserl, prende avvio una corrente di studi di
estetica fenomenologia che si richiama proprio all’analogia tra atteggiamento
estetico e atteggiamento fenomenologico, e ai due momenti chiave della riduzione
degli oggetti a puri fenomeni che si danno alla coscienza nello spazio puro
della soggettività trascendentale, e alla descrizione degli atti con cui
questa stessa coscienza intenziona, prende di mira e costituisce i fenomeni
stessi, Autori come Waldemar Conrad (1878-1915) , Moritz Geiger (1880-1937) o
Roman Ingarden (1893-1970) descrivono l’evento estetico come fenomeno per
eccellenza, come pura e significativa presenza di fronte a un soggetto, a cui
questo si rapporta con il piacere, il sentimento, la partecipazione
sensibile-emotiva, e propongono l’estetica fenomenologia come uno stile di
ricerca che dovunque mira a evidenziare tratti caratterizzanti, costanti,
differenze strutturali tra i fenomeni estetici presi in esame. Nel lavoro
forse più noto di questa corrente, la Fenomenologia dell’opera letteraria (1931) di Ingarden, il testo letterario è affrontato come oggetto
intenzionale- nel duplice senso che a esso è essenziale sia l’intenzione del
creatore di fornirgli significato, sia l’intenzione del fruitore di decifrare
tale significato – e descritto nella sua stratificazione, distinguendo
tra strato fonico, strato dei significati delle parole e delle frasi, strato
degli oggetti denotati e strato delle apparenze di tali oggetti.
Su un altro versante, il tema
husserliano dell’analogia tra atteggiamento estetico e atteggiamento
fenomenologico nel comune ricorso all’epoché , ossia alla sospensione
delle assunzioni esistenziali nei confronti dei contenuti presi in
considerazione, si rivela determinante per lo sviluppo della riflessione
fenomenologia sulla natura dell’immagine. A differenza delle immagini
percettive, in cui l’oggetto appare come “esso stesso presente”, “in carne e
ossa” o, per così dire, “in persona”, nelle immagini della fantasia o in quelle
rappresentative fissate su supporti materiali concretamente esistenti (quadri,
disegni, incisioni, ecc,) l’oggetto ci appare “come se” ci fosse, “in immagine”
, in quella sospensione di ogni credenza relativa alla sua esistenza o
effettiva collocazione spazio-temporale che Husserl chiama “modificazione di
neutralità. Nel paragrafo 111 del primo volume di Idee per una
fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica Husserl riassume la
sua riflessione sullo statuto dell’immagine e sulla coscienza che la intenziona
con una celebre analisi dell’incisione di Albrecht Durer dal titolo Il
cavaliere, la morte e il diavolo. In questo testo Husserl distingue tra la
percezione dell’immagine come cosa fisica , nella sua materialità di
incisione su un supporto, e la coscienza d’immagine con cui le linee che
costituiscono l’incisione vengono “attraversate” in direzione di ciò che è
raffigurazione (cioè la coscienza delle piccole figure grigie, in cui (…) si
‘presenza in maniera raffigurativa’, in virtù della somiglianza, un’altra cosa)
è un esempio di modificazione di neutralità della percezione. Questo obiectum-immagine
che raffigura qualcos’altro non sta dinanzi a noi né come esistente né
come non esistente né in qualunque altra modalità posizionale; o
piuttosto, è dato alla coscienza come esistente, ma come esistente-per-così-dire,
sottoposto alla modificazione di neutralità dell’essere”.
In quanto caratterizzata dalla
sospensione delle posizioni d’essere dell’oggetto intenzionato, l’immaginazione
– ossia l’attività di coscienza capace di presentificare , rendere
presenti le immagini- assume un importante ruolo conoscitivo nella
fenomenologia husserliana. Considerare un oggetto in immagine significa
potersi distanziare dalla determinatezza del darsi percettivo dell’oggetto
stesso e variarne le vedute, i profili, le prospettive. L’immagine finisce
così per favorire attività cognitive specifiche che differiscono sia dalla
percezione sia dall’intellezione: moltiplicando le prospettive a partire dalle
quali è intenzionato l’oggetto, la coscienza riesce a superare i vincoli della
percezione ( a cui spetta comunque un primato in quanto incontro in carne e
ossa con il fenomeno) e ad aprirsi al più chiaro coglimento dell’essenza
del fenomeno intenzionato, da un lato, e alla dimensione della possibilità e
del “come se” dall’altro.
Il legame tra immaginazione,
neutralizzazione e possibilità viene radicalizzato da Jean- Paul Sartre
(1905-1980) in L’imaginaire (1940) , un testo che costituisce uno dei
principali punti di riferimento, spesso polemico, per il pensiero di
Merleau-Ponty. Sartre distingue nettamente tra percezione e immaginazione:
attribuisce alla prima la capacità di connettersi con la datiti delle cose nel
mondo, e alla seconda un radicale potere di nientificazione, di
annullamento dei suoi contenuti. Nella coscienza immaginativa l’oggetto è
posto come non-esistente , e in questo modo il soggetto perviene a
divincolarsi dalla datiti del mondo esterno, sospendendolo e negandolo nella
sua posizione d’esistenza e aprendosi al possibile e all’irreale. Come
vedremo, nelle sue linee fondamentali, la riflessione di Merleau-Ponty si
sviluppa in una direzione opposta a quella di Sartre, in quanto non considera
l’immagine come il momento della nientificazione bensì come il luogo in cui si
concretizza esemplarmente la relazione percettiva e corporea tra io e mondo e,
nell’ultima fase della sua riflessione, come l’apertura della possibilità di un
accesso alla dimensione ontologica della visione e della sensibilità.
Sebbene segnata anche da un
confronto con il pensiero di Heidegger, l’opera di Merleau-Ponty non rinnega
mai la propria provenienza husserliana, in particolare per quanto riguarda il
riconoscimento della centralità del problema della percezione e
l’esigenza, propria dell’ultimo Husserl , di ricondurre l’insieme delle
scienze oggettive al loro fondamento nella concretezza del mondo della vita(Lebenswelt).
In La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale
(pubblicata postuma nel 1954) Husserl parte dalla constatazione della
sostanziale estraneità delle scienze oggettive rispetto al concreto
mondo storico della vita soggettiva. Al fine di riscoprire questo fondamento
comune di ogni prassi e di ogni forma di attività teoretica umana è necessario,
secondo Husserl, operare “una epoche nei confronti di tutte le scienze
oggettive”, ossia un’astensione “nei confronti di tutti gli interessi teoretici
obiettivi, nei confronti di tutte le finalità e le azioni che assumiamo e
compiamo in quanto scienziati o anche soltanto in quanto uomini avidi di
sapere”. Solo in questo modo è possibile attingere il piano di quel “regno di
evidenze originarie” che è il piano della Lebenswelt, “il mondo-ambiente
realmente concreto, la realtà vera e propria in cui viviamo, il terreno e
orizzonte già sempre datoci, esistente in anticipo, per ogni prassi, teoretica
ed extrateoretica”, un mondo che esiste pur non essendo normalmente oggetto
della nostra attenzione e riflessione.
Il riferimento alla tematica
husserliana della Lebenswelt è fondamentale per comprendere lo sviluppo
del pensiero di Merleau-Ponty e il suo approdo a un’ontologia del sensibile,
Sin da La struttura del comportamento e dalla Fenomenologia della
percezione, al centro della riflessione merleau-pontyana vi è infatti il
tema della percezione , intesa non come puro sguardo capace di descrivere
essenze e strutture fenomeniche ma piuttosto come esperienza primordiale
dell’uomo, sfondo ultimo dal quale si staccano i suoi atti e il suo sapere.
Soggetto della percezione non è tanto un ego trascendentale che opera la
riduzione per attingere un piano di datiti fenomenica pura, quanto un corpo
agente e senziente, animato da un’intenzionalità irriflessa e
precategoriale. Il cardine su cui si incentra l’interpretazione della
corporeità come soggetto della percezione è la distinzione husserliana tra il corpo
proprio o vivo (Leib) – ossia il corpo “in carne e ossa”, vivente e
vissuto in prima persona – e il corpo oggettivo (Korper) , corpo
rappresentato e ridotto a cosa. La fenomenologia della percezione delineata da
Merleau-Ponty mostra una percezione radicata nel corpo vivente, costantemente
orientata in modo prospettico e strutturata da diverse forme di motivazione.
In quest’ottica, la coscienza rappresentativa e la riflessione consono che
momenti delimitati di una vista esperenziale dominata da una viva corporeità
sensibile e agente. Al di sotto del cogito riflesso , ossia dell’io che
si articola nel linguaggio razionale, giace un cogito tacito,
silenzioso, preverbale e precategoriale, inscritto nel corpo e dotato di una
capacità simbolico-espressiva che risiede nel tradursi spontaneo di un senso
nell’altro e nella gestualità che accompagna il situarsi dell’io nel mondo
concreto.
La prima riflessione di
Merleau-Ponty sulla pittura di Cézanne, esposta nel saggio Il dubbio di
Cézanne , nasce proprio sullo sfondo dei temi delineati da Fenomenologia
della percezione e identifica nella pittura la forma più pregnante con cui
si esplicita il linguaggio tacito del corpo vissuto. Il segreto della pittura
sta nel suo riferirsi al corpo come apertura e veicolo dell’essere al mondo, e
nella sua capacità di dischiudere il mondo della vita e la genesi del senso che
vi ha luogo: “ Cézanne non ha creduto di dover scegliere tra sensazione e
pensiero come tra caos e ordine: Non vuole separare le cose fisse che appaiono
sotto il nostro sguardo e la loro labile maniera di apparire, vuole dipingere
la materia che si stando una forma, l’ordine nascente attraverso
un’organizzazione spontanea. Non introduce la frattura tra i ‘sensi’ e
l’’intelligenza’, ma tra l’ordine spontaneo delle cose percepite e l’ordine
umano delle idee e delle scienze. Noi percepiamo le cose, ci intendiamo su di
esse, siamo ancorati ad esse e solo su queste fondamenta di ‘natura’ costruiamo
delle scienze. Cézanne ha voluto dipingere questo mondo primordiale, ed ecco
perché i suoi quadri danno l’impressione della natura alla sua origine, mentre
le fotografie dei medesimi paesaggi suggeriscono i lavori degli uomini, le loro
comodità e la loro presenza imminente”.
L’espressione pittorica è capacità
di “ritornare, per prenderne coscienza, al fondamento d’esperienza muta e
solitaria sul quale sono edificate la cultura e lo scambio delle idee”. L’arte
non è imitazione , bensì è “un’operazione d’espressione” con cui “ il
pittore riprende e converte appunto in oggetto visibile ciò che senza di lui
resta rinchiuso nella vita separata da ogni coscienza: la vibrazione delle
apparenze che è la genesi delle cose”.
In L’occhio e lo spirito
l’accento cade sulla dimensione ontologica della pittura, e non più
sulla pittura come espressione della soggettività corporea dell’artista e come
prolungamento, seppure creativo, del gesto corporeo. Vengono in primo piano i
grandi temi poi confluiti nel testo incompiuto pubblicato con il titolo Il
visibile e l’invisibile : il passaggio da una fenomenologia come indagine
trascendentale a un’ontologia fenomenologistica che cerca di attingere
il senso dell’Essere in una sensibilità originaria, diffusa e de-soggettivata
detta carne (chair) ,o, ancora, la centralità della visione in
quanto capace di rivelare l’intreccio e la reversibilità tra io e mondo,
soggetto e oggetto, vedente e visibile.
Il saggio si apre con una critica
all’atteggiamento delle scienze moderne, che nascono da un pensiero che
manipola le cose e le riduce, attraverso la costruzione di modelli, a “oggetti
in generale”, anziché abitarle nella loro concretezza e opacità. Contro questa
scienza che si rapporta al mondo come “pensiero di sorvolo (pensée de
survol) “, Merleu-Ponty afferma l’esigenza di ricondurre il pensiero
all’”Essere effettuale presente”, a quel “c’è” o “si dà (il y a) “ che è
originaria coappartenenza di io e mondo mediata dal corpo. Solo l’arte, e in
particolare la pittura, è ancora capace di attingere a questo “strato di senso
bruto (nappe de sens brut)” , e lo fa proprio evidenziando la genesi
corporea dell’immagine. Il corpo di cui parla Merleau-Ponty è “un fascio di
funzioni, un intreccio (entrelacs) di visione e movimento” , un corpo
enigmatico e paradossale in quanto al tempo stesso vedente e visibile
: “Guarda ogni cosa, ma può anche guardarsi, e riconoscere in ciò che
allora vede ‘l’altra faccia’ della sua potenza visiva. Si vede vedente, si
tocca toccante , è visibile e sensibile per se stesso”. E’ dunque un corpo
preso nel tessuto del mondo, caratterizzato dall’intreccio o chiasmo –
termine derivante dalla retorica antica e indicante un’inversione o
rovesciamento nel rapporto fra termini appartenenti a versi contigui- tra
senziente e sentito:” Siamo in presenza di un corpo umano quando, fra vedente e
visibile, fra chi tocca e chi è toccato, fra un occhio e l’altro, fra una mano
e un’altra mano, avviene una sorta di reincrociarsi (recroisement).
L’immagine cui dà luogo la
pittura non è quindi da intendersi come copia, ricalco, ri-presentazione
del rappresentato, bensì è un’immagine che “non celebra mai altro enigma che
quello della visibilità”, che si apre sulla trama dell’Essere. Un’immagine che
è si somigliante, ma nel senso di “una similitudine efficace, che è genitrice,
genesi, metamorfosi dell’Essere nella visione del pittore”. Il pittore non
ricerca altro che il farsi della visibilità, il dispiegarsi del senso nel
visibile, e al tempo stesso porta alla manifestazione quella visibilità diffusa
in cui si annullano le differenze tra vedente e visibile, tra chi dipinge e chi
è dipinto. Di qui l’emblematicità dello specchio come luogo in cui il
vedente si scopre guardato e l’io si sdoppia nell’altro.
Nella terza parte del saggio,
Merleau-Pontyu si confronta infine con la teoria della visione proposta da
Cartesio nella Diottrica, dove la visione è ricondotta a un modello
proiettivo geometrico (tramite l’analogia con la proiezione prospettica della
immagini nella camera oscura) e le immagini percettive sono considerate
alla stregua di segni arbitrari nel loro rapporto con le idee nel pensiero.
Opporsi a questa interpretazione geometrica e meccanicistica della visione
significa, per Merleau-Ponty, opporsi a ogni forma di pensiero rappresentativo
e “di sorvolo” in cui va perla la capacità delle immagini di esprimere la
coappartenenza di corpo e mondo. Ciò che deve ricercare il pittore non è tanto
l’artificialità di una prospettiva geometrica statica e meccanica, quanto la
vita del visibile, il “mistero di passività” che lo anima dall’interno.
|