A cura di Roberta Musolesi
È possibile
parlare di estetica antica?
In linea
di principio, parlare di estetica antica rappresenta una contraddizione perché
l’estetica, come disciplina filosofica, nasce alla fine del Settecento. La
disciplina cui, a metà del XVIII secolo, Baumgarten impose il nome di estetica,
intendendo con essa la dottrina della conoscenza sensibile e della sua perfetta
realizzazione nella bellezza, non ebbe infatti nell’antichità un suo proprio
territorio teorico, ma tale mancata autonomia non autorizza comunque ad
ignorare gli apporti del pensiero greco e romano alla storia dell’estetica
occidentale. E’ quindi corretto affermare che l’indagine estetica ha certamente
avuto inizio in Europa oltre 2000 anni prima che fosse trovato per essa un termine
specifico e si costituisse un campo di studi autonomo.
Secondo
Gianni Carchia
inoltre non solo è possibile parlare di estetica antica come riflessione sulla
sensibilità, sul bello e sull’arte, ma l’aver isolato un ambito specifico, dal
Settecento in poi, non è stato sicuramente un bene. Dal suo punto di vista
parlare di estetica antica significa pertanto cercare di comprendere cosa hanno
detto sulla sensibilità, sull’arte e sulla bellezza Pitagora, Democrito e
Platone, mentre parlare di estetica moderna significa, nella maggior parte dei
casi, occuparsi di figure minori o di spazi marginali che le maggiori
personalità filosofiche hanno dedicato, per lo più per esigenze di sistema,
alle suddette tematiche. Secondo Carchia inoltre le riflessioni estetiche degli
antichi non si limitano, come comunemente si pensa, esclusivamente alla poesia,
ma coinvolgono l’essere, la fenomenologia e la psicologia.
Dello
stesso parere è Giovanni Lombardo,
anche se con opportune precisazioni. Se è vero infatti che l’antichità
classica, che non giunse a sviluppare compiutamente un’idea di autocoscienza,
non attinse quasi mai alla dimensione soggettivistica dell’esperienza estetica,
è vero anche che su un piano più generale è oggi possibile interpretare alcuni
personaggi, ad esempio, del dramma antico come anticipatori della
consapevolezza propria del mondo moderno e analogamente alcune teorizzazioni ed
acquisizioni del pensiero antico (si vedano, ad esempio, la concezione
platonica del bello o quella aristotelica dell’opera letteraria) sembrano
precorrere sensibilità sicuramente molto vicine al nostro tempo. Fra estetica
antica e moderna esistono tuttavia, dal punto di vista dell’autore, alcune
importanti e fondamentali distinzioni e differenze: l’estetica moderna è
abituata a cercare la bellezza soprattutto nell’opera d’arte, che viene
ammirata in quanto rappresentazione di un significato indipendente da qualsiasi
vincolo utilitaristico o morale, l’estetica antica inserisce invece l’arte fra
le competenze tecniche ed artigianali, i cui prodotti sono destinati ad una
fruizione prevalentemente pubblica entro spazi istituzionali come feste,
simposi e riti religiosi.
Di
opinione contraria a quella di Carchia e Lombardo è invece Sergio Givone, secondo
il quale parlare di estetica riferendosi alla riflessione classica, e greca in
particolare, sul bello e sull’arte appare problematico non solo perché per i
Greci l’arte aveva a che fare con l’intelletto e non con la sensibilità, cui
invece il termine moderno di estetica rimanda, ma anche perchè gli stessi
concetti di arte e di bello che noi impieghiamo non sono semanticamente
equivalenti ai corrispondenti termini della lingua greca.
Arte e bellezza
Anche se quanto appena esposto,
come vedremo in seguito, corrisponde a verità, è comunque possibile affermare
con certezza che, già nel periodo cosiddetto arcaico, che va da VI secolo a. C.
all’inizio del V secolo, i Greci, che già possedevano una grande arte, avevano
sviluppato anche una loro concezione precisa del bello e dell’arte stessa, che
non misero per iscritto, ma che può essere ricostruita a partire dalla prassi
artistica concreta.
I
Greci, come iniziatori di questa inedita forma di riflessione, dovettero
pertanto inventare un linguaggio per poter parlare dell’arte da loro stessi
inventata e definire dei concetti che anche noi oggi utilizziamo, anche se con
un significato diverso.
Il
bello
Il
primo di questi concetti fondamentali è appunto il concetto di bello.
La
parola kalón, che noi traduciamo con “bello”, aveva in realtà un
significato più ampio rispetto a quello attuale: comprendeva non solo ciò che
risultava gradito all’occhio e all’orecchio, ma anche qualità del carattere e
della mente umana. Gli antichi mantengono inoltre separate la sfera del bello e
la sfera dell’arte e conferiscono alla bellezza un fondamento ontologico, per
ricercarne conseguentemente le manifestazioni nella natura e, in particolare,
nel corpo dell’uomo, il più nobile e alto fra gli esseri naturali. Proprio per
questo primato, l’uomo è in grado di esprimere la sua bellezza, oltre che nella
proporzione delle forme fisiche, anche nella dignità dei comportamenti pratici:
da qui deriva il forte legame fra bello e buono, che nella Grecia classica
trova la sua espressione suprema nell’ideale formativo della kalokagathía, la
condizione propria cioè di chi sa di potersi dimostrare, nello stesso tempo,
bello e buono. Buono, agathós, rappresenta l’aspetto morale, unito alle
sfumature sociale e mondana che provengono dalle origini, bello, kalós, è
la bellezza fisica, con l’inevitabile aura erotica e sensuale che l’accompagna.
Già da solo, tuttavia, l’aggettivo kalós è in grado di qualificare,
insieme alla bellezza fisica, anche quella morale, così come nell’aggettivo
latino bellus, da cui deriva l’italiano bello, si rileva un
diminutivo di bonus (dwenos → dwenolos → benlos)
Quello
di “bello” era quindi un concetto dal significato molto complesso e ricco, cui
i Greci ricondussero schematicamente:
1.
l’armonia, rilevabile nell’equilibrio
cosmico;
2.
la simmetria, cioè misura appropriata;
3.
l’euritmia, cioè ritmo esatto e dalle
corrette proporzioni.
Tutto
ciò è riassumibile nel concetto di kósmos, che si riferisce alla
bellezza di un oggetto dovuta alla perfezione della sua struttura in ragione
della proporzione della sue parti. Fin dall’età arcaica l’opera d’arte viene
infatti concepita come un insieme composito di elementi che rappresentano la
copia e la riproduzione di un ordine esterno all’opera stessa e che, in virtù
del loro trattamento rappresentativo, generano piacere e ammirazione. Nel campo
delle arti verbali, come riferisce lo stesso Omero, il concetto di kósmos si
collega all’armonia e alla coerenza: di un cantore si può dire che esegua un
canto secondo i canoni della bellezza se procede katá kósmon, secondo un
bell’ordine, riproponendo cioè in una coerente struttura verbale la successione
reale degli eventi. Nella lirica arcaica il testo poetico viene inteso come un kósmos
epéōn, cioè un bell’ordine di parole.
Il
processo compositivo del kósmos è attivato, a sua volta, dall’impulso a
riprodurre che, secondo Aristotele, caratterizza l’uomo in quanto essere
rivolto e orientato verso la conoscenza. Tale impulso riproduttivo viene
definito dallo Stagirita come mímēsis, il processo imitativo cioè
che può riferirsi non solo ai procedimenti della poesia, delle arti figurative
e della musica, ma anche della voce e della recitazione, fino ad arrivare ad
accezioni più filosofiche, come l’assunzione di comportamenti ritenuti
esemplari, il legame fra i nomi e le cose, il rapporto fra l’essere e il
divenire fino ad arrivare addirittura alla contemplazione delle forme ideali.
Il concetto di mímēsis apparve assai presto e persistette a lungo nella
cultura e nell’arte della Grecia classica; prima di assumere il succitato
significato di riproduzione della realtà con le sue molteplici sfumature, si
riferiva originariamente alla danza e aveva un significato del tutto diverso,
in quanto stava ad indicare l’espressione dei sentimenti e la manifestazione
dell’esperienza attraverso il movimento, il suono e le parole. Tale concetto
comparve per la prima volta in connessione con il culto di Dioniso e le danze
rituali dei sacerdoti; in Pindaro, infatti, la parola mímēsis sta a
significare una danza nel senso antico del termine, intesa cioè come danza non
imitativa, ma espressiva, tesa cioè ad esprimere sentimenti piuttosto che a
imitarli.
L’arte
Per
quanto concerne l’altro concetto fondamentale, quello di arte, i Greci
si riferivano ad essa mediante il termine téchnē, in cui veniva
fatto rientrare ogni prodotto dell’abilità tecnica, dal lavoro manuale dei
tessitori, dei calzolai (l’arte di fare le scarpe) e dei tessitori a quello
degli architetti. Rappresentare la realtà significa, anche ai livelli più
elementari e soprattutto alle origini dell’antichità classica, filtrarla
attraverso un meccanismo selettivo tale da estrapolare gli elementi
maggiormente significativi per ricomporli in un nuovo ordine; l’artista, in
definitiva, secondo la prospettiva classica, opera alla stregua di un
fabbricatore, di un poiētēs, che mediante una tecnica ed una
particolare abilità riproduttiva, mette assieme un kósmos artificiale
analogo e per certi versi simile al kósmos reale. Come affermava anche
Democrito, il kósmos artistico presuppone l’atto del costruire, del tektáinesthai,
espressione verbale che è vicina, con la radice tek-, congiungere,
al termine greco téchnē. La costruzione di un kósmos riesce
inoltre tanto più bella ed attraente quanto più in essa ciò che è stato imitato
risplende agli occhi con la luce che gli è propria. L’artista infatti ottiene
successo anche in funzione della sua capacità di trasformare i propri mezzi
espressivi rendendoli adeguati alla situazione che essi devono rappresentare e
alle circostanze cui essi, davanti all’opera finita, vengono recepiti; in
definitiva la sua attività, sia nel momento della produzione che in quello
della fruizione, è connessa e si innesta sempre in un preciso kairós, cioè
in una giusta occasione: ciò che l’artista riesce a ritagliare dalla realtà
deve poi essere opportunamente innestato ed adattato nelle reazioni dei
fruitori, che devono cogliere il piacere estetico dato dall’identità fra
l’opera e la realtà in essa rappresentata.
Il
termine téchnē fa quindi riferimento:
1.
all’attività umana in quanto opposta alla spontaneità
della natura;
2.
all’aspetto della produzione
manuale, visto in alternativa a quello dell’attività conoscitiva;
3.
alla relazione con l’abilità e non
con l’ispirazione;
4.
alla presenza di norme operative generali e non
di semplice abitudine ed ammaestramento meccanico.
L’aspetto
dell’abilità era ritenuto essenziale, ragione per cui l’arte era considerata
un’attività dell’ingegno, e fondamentali erano considerate anche le conoscenze
che l’esercizio dell’arte stessa richiedeva. Per i Greci, inoltre, quelle che più
tardi coincisero con le “belle arti” non erano distinte dalle arti manuali e
qualunque artigiano, dēmiourgós, a qualunque arte si dedicasse,
poteva raggiungere la perfezione e diventare un maestro, architéktōn.
L’atteggiamento
dei Greci verso coloro che esercitavano le arti era inoltre caratterizzato da
una marcata ambivalenza: da un lato essi erano stimati per le conoscenze che
possedevano, ma dall’altro erano disprezzati per il fatto di esercitare
un’attività manuale dalla quale ricavavano i mezzi per il loro sostentamento.
Anche la divisione delle arti risentiva, in un certo senso, di questa visione
preconcetta. Ad un livello superiore, infatti, erano collocate le arti libere,
quelle cioè che non richiedevano fatica e sforzo fisico, dall’altro stavano le
arti servili, che richiedevano, al contrario, impegno fisico ed attività
manuale; tanto per fare un esempio, la musica era considerata arte libera,
mentre la scultura e anche la pittura erano considerate arti servili. La
separazione fra arti libere e arti servili rifletteva quindi una cultura per la
quale il lavoro manuale aveva in sé qualcosa di poco nobile. La stessa
condizione degli artisti, non solo di quelli che praticavano le arti servili,
ma anche dei musici, degli attori e dei ballerini, rifletteva chiaramente
questo pregiudizio, cui nei fatti se ne aggiungevano altri: gli attori, che
pure non praticavano un’arte servile, sono stati oggetto, da allora fino
all’età moderna, di duri giudizi di condanna per lo stile di vita fuori dai
canoni della normalità che a causa della loro professione conducevano.
La poesia
I Greci
non classificavano la poesia fra le arti: l’arte era un’attività che, in virtù
di specifiche abilità e seguendo precise regole, portava alla produzione di
oggetti materiali, mentre la poesia era considerata frutto dell’ispirazione. In
definitiva, nell’arte, l’intervento dell’abilità tecnica impediva di avvertire
il coinvolgimento dell’ispirazione, mentre nella poesia accadeva esattamente il
contrario e per questo non si vedeva alcun possibile rapporto fra le due. La
poesia pertanto, per queste ragioni, venne accostata alla divinazione e i poeti
furono classificati come indovini, in quanto si riteneva che potessero portare
a termine la loro opera solo grazie all’ispirazione concessa dalle potenze
celesti. Ciò contribuì a confermare la forza seduttiva della poesia e la
circondò di un alone magico. Se non fu possibile infatti per i Greci cogliere
il legame fra poesia e arte, fu invece immediata la connessione fra poesia,
musica e canto, che fu a tal punto accentuata da giungere a ritenerle unite ed
appartenenti alla stessa sfera creativa. Tale affinità era motivata in primo
luogo dal fatto che la poesia veniva normalmente recitata insieme ad un
accompagnamento musicale, ed era quindi percepita acusticamente come musica, e
secondariamente perché entrambe erano in grado di produrre nel fruitore uno
stato di esaltazione. Il canto nelle epoche più antiche era interpretato come
un dono soprannaturale in grado di generare l’entousiasmos, in grado
cioè di dilettare e affascinare gli ascoltatori. Lo stesso termine estetica,
che prende le sue origini dal termine greco áisthēsis, fa
riferimento non solo alla percezione sensoriale nel suo complesso, ma anche, in
particolare, alla percezione per mezzo dell’orecchio, implicita nel verbo aiō:
l’ascolto dell’esecuzione di un aedo si riteneva potesse comportare
l’attivazione di un’esperienza estetica portata avanti in virtù
dell’ispirazione del poeta, in grado di rafforzare i poteri visualizzanti della
sua arte, poteri che, sul piano tecnico, si esplicavano attraverso i
procedimenti dell’enárgeia e coinvolgevano immediatamente l’uditorio
negli eventi evocati dal canto. Pertanto, proprio nel momento in cui gli
spettatori potevano cogliere l’affinità fra il corso delle parole e il corso
delle cose, provavano le medesime emozioni che avrebbero provato se gli
avvenimenti presentati dal canto si fossero svolti davanti a loro.
Importante
e significativo è inoltre il legame esistente fra poesia e filosofia. Prima di
scendere nel dettaglio delle riflessioni filosofiche sull’arte sviluppate dai
singoli artisti o dai vari pensatori, è possibile anticipare che è Omero, con
la distinzione fra poetica della verità, esemplificata da Demodoco, e poetica
della finzione, esemplificata dalle sirene, a dare l’avvio alla contrapposizione
fra pensiero filosofico e poesia che segnerà tutto il dibattito letterario fra
il VII e IV secolo a.C. In seguito Esiodo, polemico nei confronti dei racconti
di finzione e delle favole dell’epos, si proclama depositario di un
messaggio di verità che presenta come trasmesso direttamente dalle Muse;
Parmenide, invece, operando una distinzione fra l’ambito della verità e quello
del non essere e dell’opinione e individuando nei discorsi propri della doxa,
cioè dell’opinione, un ordine ingannevole, giunge a denunciare la fallacia
di ogni rappresentazione costruita per mezzo della poesia e, a suo avviso, il
“bell’ordine delle parole”, tramite espressivo della doxa, è portatore
di un messaggio inaffidabile. Platone, erede della metafisica parmenidea e
difensore strenuo del primato della componente razionale dell’anima protesa verso
l’apprensione delle idee, porta alle estreme conseguenze la separazione fra
poesia e filosofia. L’arte in generale, e la poesia in particolare, si
riferiscono infatti, dal suo punto di vista, al mondo delle apparenze e delle
sensazioni e sono per questo molto lontane dall’eterno splendore del mondo
delle idee; queste quindi, in quanto riproducono l’intricata e contorta
molteplicità del divenire, restano limitate al gradino più basso della scala
verso la verità e, poichè sollecitano emozioni, sono ritenute da Platone
attività che offuscano lo sviluppo e l’ascesa della ragione. Aristotele
rovescia invece la prospettiva platonica affermando che la poesia, in quanto mímēsis
práxeōs, cioè rispecchiamento di un’azione reale o possibile, svolge
una fondamentale funzione conoscitiva. Poichè infatti può riprodurre ciò che
accade ed anticipare, secondo le regole della verosimiglianza o del principio
causa-effetto, ciò che potrebbe accadere, la poesia risulta più vicina alla
filosofia di quanto, ad esempio, non possa essere la storia: la poesia, ponendo
ordine nel caos dell’esperienza e nel tumulto delle passioni, che vengono così
organizzati in una sintesi coerente, è in grado di rendere comprensibili gli
eventi spesso confusi e contraddittori della vita reale. I fatti, che rimangono
comunque imprevedibili, con la poesia verrebbero quindi proposti, secondo lo
Stagirita, secondo un preciso ordine formale ed essa si presenta pertanto
certamente come un inganno, ma solo apparente, un inganno cioè che viene
comunque sostenuto e convalidato dalla precisione e dalla coerenza della
rappresentazione. Secondo Aristotele la poesia appare così come un “ordine
disordinato”, un ordine cioè che riespone, senza cancellarlo od annullarlo,
l’inestricabile disordine delle passioni.
Le
strade tracciate da Platone e da Aristotele si perpetueranno in seguito nella
contrapposizione fra due possibili funzioni della poesia, quella moralistica
del prodesse e quella edonistica del delectare, ma la ricerca
aristotelica sulla conoscenza mediante la mímēsis sarà all’origine,
in età ellenistica, di una nuova sensibilità nei confronti del testo, sia dal
punto di vista filologico sia sul piano dello stile.
Gli
Stoici, che riprenderanno, in chiave puramente individualistica, le idee
platoniche ed aristoteliche relative ai processi psicologici legati alla
visualizzazione mentale, svilupperanno un’idea della creatività estremamente
moderna, in quanto ritenuta frutto dell’espressione dell’immaginazione
personale dell’artista. Questa idea si ritroverà anche in Cicerone e verrà
elaborata poi da Plotino in un senso che la spingerà oltre il mondo classico.
Dalla concezione plotiniana del bello come traguardo del viaggio spirituale
verso l’assoluto discenderà infatti, per mezzo di Agostino, l’estetica
cristiana del Medioevo.
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