A cura di Roberta Musolesi
I poeti antichi svilupparono le
loro riflessioni teoriche all’interno delle loro opere di poesia. Essi infatti,
scrivendo e parlando delle cose più svariate, parlarono spesso di arte in
generale e di poesia in particolare, ponendo interrogativi che poi sarebbero
divenuti essenziali per l’estetica delle epoche successive:
-
quali sono le
origini della poesia?
-
quali sono i
suoi fini?
-
in che modo
essa agisce sull’uomo?
-
qual è il suo
oggetto?
-
è vero ciò che
essa dice?
Estetica e filosofia nelle opere di
Omero
Introduzione
Risalire agli albori del
pensiero greco significa riscoprire tutti quegli aspetti, anche avvolti di
mistero, che precedettero la fase, ormai storica, in cui le domande e gli
interrogativi iniziarono ad assumere una valenza chiaramente filosofica. La
linea di separazione fra questa tradizione e la filosofia è rappresentata anche
dalla creazione di generi letterari nuovi ed alternativi, che solo
occasionalmente faranno uso del linguaggio poetico e con fini del tutto
differenti rispetto al retroterra culturale della grecità più remota. Il testo
filosofico, come genere letterario a sé, si darà infatti prevalentemente
obiettivi di carattere conoscitivo, nel tentativo di esplorare il problema
dell’origine della realtà che tanto appassionò i primi filosofi.
Già però con l’epos
greco e con Omero quale presunto (e forse mai esistito) autore dell’Iliade e
dell’Odissea, è presente una rilevante anticipazione di contenuti definibili a
vario titolo come filosofici, come, ad esempio, il ruolo didattico del dialogo
interpersonale e della dialettica, che è ravvisabile nella stessa struttura del
discorso narrativo omerico e che sarà proprio del pensiero greco più maturo.
La filosofia, quindi, che
volle muovere i primi passi verso il superamento della tradizione
precedente legata al mito, trovò un punto di riferimento “forte” proprio
nell’epos omerico: i poemi omerici, che presentavano modelli di vita e pensiero
paradigmatici, sebbene immersi nell’aura della tensione fantastica, svolsero un
ruolo di fondamentale importanza nel dare le coordinate concettuali
propedeutiche alla nascita della filosofia. Queste idee, che si mostreranno
produttive, in particolare, nell’ambito della metafisica, sia di quella dei
filosofi della Ionia, più “debole” per contenuti, sia di quella più complessa
ed articolata di Platone ed Aristotele, trovano la loro origine, da un punto di
vista prefilosofico, nella volontà di Omero di ricercare ed offrire una
giustificazione valida alla molteplicità di eventi che si sviluppano nel corso
della narrazione e quindi nella ricerca delle cause recondite che rendono
possibile e spiegano una determinata situazione. Le vicissitudini e le storie
che Iliade e Odissea rappresentano appaiono sempre governate da un meccanismo
razionale, malgrado l’apparente inattendibilità e a volte l’incoerenza
dell’intreccio narrativo; i vari accadimenti presentati nei testi omerici non
sono mai pertanto casuali, ma emerge, al contrario, una sorta di superiore
regia che guida gli eventi e che garantisce uno sviluppo coerente della storia
e dei vari temi-guida. Per queste ragioni, la poesia omerica consente di
parlare, oltre che di filosofia implicita, anche di ermeneutica delle origini.
Questo termine, a sua
volta collegato al nome del messaggero degli Dei dell’Olimpo, Hermes, deriva da "hermeneia" cioè
"espressione, interpretazione", e si presenta come un tipo di
pensiero importantissimo, soprattutto per via della tradizione ad esso
collegata e dei suoi futuri sviluppi.
Nell’Inno ad Hermes, attribuito
tradizionalmente all’autore dell’Iliade e dell’Odissea, si celebra appunto
questa divinità dell’intermediazione, protettrice dei poeti e messaggero
dell’Olimpo, rappresentata iconograficamente come un dio-fanciullo, dalla
mente sottile e ispiratore di sogni, guardiano delle porte e suonatore della
lira, tutti caratteri che, insieme alla vocazione per il furto (Hermes rubò le
vacche di Apollo già il primo giorno di vita) saranno tipici di questo dio
eternamente giovane, custode dei segreti del linguaggio e della verità.
L’Inno ad Hermes di Omero
segna pertanto la nascita della filosofia e, in particolare, di quella branca,
l’ermeneutica, che diverrà uno strumento indispensabile per decriptare e
comprendere scritti e discorsi.
·
Alcune
considerazioni sui canali di trasmissione e diffusione del sapere nella Grecia
arcaica: oralità e scrittura
La cultura greca arcaica si
trasmetteva essenzialmente attraverso due principali canali di comunicazione:
la pratica della scrittura e la tradizione orale.
La scrittura fu una tecnica utilizzata
in origine per scopi pratici, come la registrazione di liste di cariche
ufficiali, la conservazione delle leggi, testamenti, commemorazioni di eventi
politici o sociali, messaggi e dediche.
La scrittura, tuttavia, non
costituiva il mezzo più adatto per trasmettere il sapere tradizionale e ciò
principalmente a causa della difficile reperibilità e dei notevoli costi del
materiale scrittorio. La società greca inoltre considerava l’immutabilità delle
azioni, dei riti religiosi e dei costumi etici l’elemento fondante della sua
stessa identità e tale immutabilità era garantita dal rito e dal mito, che
prevedevano forme di comunicazione orale: il rito consisteva in una sequenza di
atti fissati da canoni tramandati di generazione in generazione e compiuti in
tempi e luoghi stabiliti, il mito era il racconto che rintracciava e fissava le
origini della società in una prospettiva magica, soprannaturale, religiosa.
Questi due elementi del patrimonio culturale greco erano trasmessi e diffusi da
indovini e poeti, da coloro cioè che avevano ricevuto dalle Muse il dono della
memoria.
I poeti trasmettevano l’insieme delle
conoscenze ancestrali del popolo greco adeguandole alle esigenze culturali del
loro tempo e la loro abilità consisteva anche nel non rendere troppo manifeste
al pubblico le inevitabili innovazioni ideologiche e stilistiche che essi
dovevano necessariamente introdurre. Da tale contesto deriva così uno degli
aspetti fondamentali dell’estetica e della poetica della Grecia delle origini,
il ripetere rinnovando e innovando. La scrittura invece tendeva già a fissare i
testi in una forma definitiva e non sembrava in grado di garantire alcuna
possibilità di innovazione ed evoluzione del testo poetico, che subiva invece
frequenti modificazioni nel corso della presentazione e della declamazione al
pubblico, in virtù della capacità dei singoli poeti di trarre spunto da modelli
lirici noti per creare delle variazioni.
Il patrimonio della lirica greca
arcaica cominciò ad essere messo per iscritto in modo sistematico solo
nell’epoca ellenistica, quando si avvertì il rischio di perdere le opere più
importanti, e solo in quel momento nacquero l’editoria e il mercato librario.
Rispetto alla questione dell’oralità
dei poemi omerici appaiono necessarie alcune precisazioni. E’ infatti
importante tentare di comprendere come essi venissero effettivamente composti,
se cioè per mezzo di un procedimento che comunque implicava anche la scrittura
o se invece mediante processi che prescindevano dalla scrittura stessa;
secondariamente è essenziale chiarire un equivoco di fondo e cioè che l’idea di
una composizione orale non deve essere associata, come normalmente avviene,
all’idea di una composizione molto rapida, con coincidenza cioè fra tempo della
composizione e tempo dell’esecuzione e della produzione; tale modo di pensare
appare in effetti poco produttivo poiché conduce a considerare i poemi omerici
come qualcosa di diverso da un’opera letteraria.
Per l’interpretazione e l’analisi
critica dell’oralità esistono vari modelli, molti dei quali tuttavia non
appaiono applicabili ai poemi omerici. Uno di questi modelli, quello elaborato
da R. Finnegan in Oral Composition and Oral Literature in the Pacific, è
stato elaborato per le pratiche poetiche del Pacifico, dove si praticano canti
in funzione della danza, dove la composizione può essere collettiva e dove
nell’elaborazione possono intervenire degli assistenti ai quali può toccare il
compito della memorizzazione, tutti elementi che non appartengono alla natura
dei poemi omerici. L’estensione inoltre delle due opere omeriche è tale da non
rendere plausibile l’ipotesi che ciascuna di queste fosse associabile ad una
sola ed unica performance e ciò sarebbe dimostrato dai numerosi collegamenti e
dalle molteplici rispondenze evidenti in vari punti di ogni poema, che
proverebbero invece l’ipotesi di performance relative anche a singole parti.
Altra prospettiva interpretativa è
quella di B. Gentili, che in Poesia e pubblico nella Grecia antica confronta
la pratica aedica arcaica con l’esperienza dei poeti improvvisatori italiani
attivi nel XVIII secolo. La forte emotività che caratterizza queste recitazioni
estemporanee e che si esprime, ad esempio, con il volto assorto e distaccato,
lo sguardo rivolto verso l’alto, gli occhi che si accendono, lo sguardo torvo,
i capelli arruffati, non trova tuttavia alcun riscontro negli atteggiamenti
propri degli aedi dell’Odissea, in cui non appare alcun accenno a forme di
agitazione emotiva durante l’esecuzione dei canti. Il tipo di performance
proprio degli improvvisatori italiani, che appare assimilabile in tutto e per
tutto alla mania, non ha pertanto nulla a che vedere con la poesia omerica.
Altro aspetto messo in luce da Gentili è la possibilità che frammenti del
repertorio epico, utilizzati dagli aedi per ricordare meglio gli elementi
principali del racconto o per dare inizio o fine al libro, potessero essere
affidati alla scrittura, ma nega in seguito che i poemi omerici potessero
essere scritti per intero e ciò sulla base della difficoltà nel reperimento del
materiale scrittorio, rappresentato prevalentemente da pezzi di cuoio. Malgrado
il supporto materiale fosse poco adatto alla scrittura e di difficile
reperibilità, ciò non rappresenta tuttavia un motivo per ritenere con certezza
che le parti scritte fossero limitate a brevi frammenti, poiché nulla vieta di
pensare che gli stessi supporti potessero essere utilizzati per frammenti più
grandi.
Altro dato evidenziato da Gentili è
la constatazione, all’interno dei poemi omerici, di parti intercambiabili e
spostabili a piacimento, quindi utilizzate presumibilmente in modo meccanico,
cui però si contrappone la constatazione della profonda coerenza strutturale
che caratterizza i testi omerici, attestata, ad esempio, da un uso altamente
consapevole della tecnica delle corrispondenze. L’ipotesi però della creazione
ad opera di un aedo geniale è in contrasto con l’ipotesi della ripetizione
meccanica di parti, così come appare poco compatibile l’ipotesi della
intercambiabilità di frammenti a fronte della comprovata coerenza testuale.
L. E. Rossi, sulla scia di Havelock,
nel suo I poemi omerici come testimonianza di poesia orale, prende in
esame alcuni indizi che, a suo avviso, attesterebbero l’origine prevalentemente
orale dei poemi omerici.
Il primo indizio che l’autore
individua è l’anacronismo, la presenza cioè nel singolo poema di elementi
culturali relativi a differenti momenti cronologici; questo aspetto tuttavia
appare più la conseguenza del particolare modo di porsi del poeta di fronte
alla tradizione piuttosto che del mezzo, oralità o scrittura, impiegato per
produrre le opere.
Altro indizio presentato da Rossi a
favore dell’oralità è la presenza nei poemi di incongruenze narrative, più
frequenti e probabili, a suo avviso, quando si compone oralmente. Un esempio è
individuato nel personaggio di Pulaimenes, che nel V libro viene ucciso e nel
XIII libro viene invece dato come vivo. Tali incongruenze, definite da Rossi
come “scandali analitici”, possono in effetti verificarsi nel caso di poemi
molto lunghi e ciò indipendentemente dal processo e dai mezzi coinvolti nella
creazione; anche nell’Orlando Furioso, malgrado Ariosto facesse
sicuramente uso della scrittura, il personaggio di Agricalte prima viene ucciso
ed poi in seguito risulta essere vivo.
·
Iliade ed
Odissea: i contenuti filosofici
In tutto Omero compare una costante
ricerca intorno alla natura umana e alle leggi eterne che governano il corso
del mondo.
Nel mondo omerico regna una perfetta
armonia della natura e della vita umana; ovunque appare un flusso di vita
guidato e regolato da un ritmo unificatore, non compare mai caos né Omero si
abbandona mai all’esperienza caotica della vita. Omero conosce e coglie le
passioni umane e ne rappresenta magistralmente l’impeto, ma mostra anche che,
quando tale corrente tende a straripare, è sempre possibile trattenerla entro
solidi argini.
I limiti etici sono per Omero e per
tutti i Greci supreme leggi dell’essere e non semplici convenzioni; la
coscienza dell’obbligo della legge morale, che rappresenta l’aspetto soggettivo
della moralità, è il riflesso dell’eticità del reale, che viene messa in luce
non solo dall’epica, ma anche dalla riflessione filosofica più tarda (si
vedano, ad esempio, il concetto di dike in Solone e nella filosofia
naturale di Anassimandro, la morale dei sofisti e la sua relazione con la legge
della natura e l’armonia di Sofocle). A tutto ciò si ricollega il gusto di
Omero per la ricerca della motivazione: egli non propone mai una semplice
narrazione di fatti, ma solo sviluppo, secondo la legge causa-effetto,
dell’azione di fase in fase e svolgimento della drammaticità del racconto in
modo perfettamente coerente. L’azione quindi non si distende con una fiacca e
banale successione temporale, ma in ogni istante viene fatto valere il principio
di ragion sufficiente ed ogni evento appare organicamente legato agli altri.
Omero tuttavia non è un autore
moderno, per cui possa valere cioè solo lo svolgimento interiore dei fatti, e
nel mondo in cui egli vive nulla può accadere senza l’intervento di una potenza
divina. Omero quindi non parla dei moti interiori dei suoi personaggi dal punto
di vista di chi può averli provati direttamente, ma individua, coglie ed
esprime costantemente i nessi fra umano e divino. E’ vero che l’intervento del
divino costituisce per il poeta anche un artificio poetico, ma non appare mai
esclusivamente strumentale. Dall’analisi delle modalità con cui viene descritto
l’intervento degli dei nelle epopee omeriche, si avverte infatti in modo molto
chiaro che non si tratta di un intervento puramente esteriore, come poteva
essere quello del più antico stile epico, ma di un vero e proprio potere di
indirizzo della vita delle singole persone da parte del divino. E’ vero che, in
modo analogo a quanto appare evidente nel pensiero religioso e politico
dell’antico Oriente, anche per i Greci gli dei si contrappongono e puntano
ciascuno a perseguire il proprio interesse personale, ma nell’Iliade e
nell’Odissea appaiono tratti e caratteri più moderni, come la volontà di
salvaguardare, al di sopra delle discordie, la lealtà che esiste fra le varie
divinità, l’unità del loro operare e la stabilità del loro regno divino.
Accanto al rilievo dato al divino, viene valorizzata, nella considerazione e
nella valutazione degli eventi, anche la prospettiva psicologica. Appare chiaro
al lettore che le vicende umane sono determinate necessariamente da
imperscrutabili leggi sovrumane, ma emerge anche che tali leggi divine si
intrecciano inevitabilmente con le azioni e le sofferenze dell’uomo, intreccio
che costringe il poeta a vedere l’azione dell’uomo non nella sua particolarità
e contingenza, ma nel suo valore assoluto e ad inquadrarla nell’ambito della
concatenazione universale degli eventi.
L’epos omerico presenta quindi, come
elemento di grande novità rispetto alla cosmologia teomorfa dell’Oriente, un
chiaro atteggiamento antropocentrico, che appare però meno evidente nell’Iliade
rispetto all’Odissea, opera questa prodotta in un momento storico in cui il
pensiero mostrava già un elevato grado di sistematicità e di ordine razionale.
Diverso è fra le due opere l’atteggiamento stesso delle divinità: nell’Iliade,
sebbene compaiano già i segni di un pensiero morale orientato a conciliare
l’azione reciproca delle varie divinità ed una visione del mondo di carattere
essenzialmente razionale, appaiono tuttavia ancora scene molto tumultuose, in
cui gli dei rischiano spesso di venire alle mani e in cui emerge l’immagine di
uno Zeus che impone la sua sovranità con le minacce, nell’Odissea invece appare
una maggiore coerenza e finalità nell’azione delle divinità e lo Zeus che
presiede il consiglio degli dei si configura come coscienza universale
filosoficamente purificata. L’immagine che nell’Odissea si ha quindi di Zeus è
quella di una potenza onnisciente, superiore ad ogni pensiero e ad ogni azione
dei mortali ed è nella sua essenza spirito e pensiero.
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Iliade ed
Odissea: alcune considerazioni etiche, sociologiche e pedagogiche
Iliade ed Odissea rappresentano, come
già sottolineato, fonti storiche di primaria importanza per la conoscenza della
cultura greca arcaica. Queste opere vengono normalmente riferite ad Omero, ma è
importante precisare che, malgrado questa comune paternità, esse non possono
essere considerate con assoluta certezza come un’unità né come se fossero
invenzione di un unico poeta.
Delle due opere, l’Iliade appare, per
struttura e temi affrontati, come il poema più antico, mentre l’Odissea
riflette sicuramente uno stadio più recente della civiltà, ma sebbene la prima
dia l’impressione di una maggiore antichità rispetto alla seconda, non è detto
che la sua produzione concreta sia da collocarsi molto lontano da quella
dell’Odissea.
L’Iliade mostra l’assoluta prevalenza
dello stato di guerra, quale doveva essere la condizione delle genti greche
nell’età delle migrazioni, ed in essa si fondono l’immagine, tramandata dal
canto, degli antichi eroi leggendari e le tradizioni dell’aristocrazia. Il
valoroso, nell’Iliade, è sempre l’aristocratico, l’uomo di classe sociale
elevata, e combattimento e vittoria rappresentano elementi di suprema
distinzione e costituiscono la vera sostanza della sua vita. I temi dell’Iliade
mostrano quindi l’aspetto guerriero dell’esistenza e gli eroi, pur nel loro
contegno aristocratico, hanno come loro luogo naturale il campo di battaglia e
solo raramente vengono raffigurati o descritti nelle pause fra un conflitto e
l’altro.
Nell’Odissea la scena cambia
completamente. Il motivo del ritorno degli eroi, infatti, crea le condizioni
per la rappresentazione e la descrizione della loro esistenza in tempo di pace.
L’Odissea, che propone immagini estremamente realistiche degli ambienti,
rappresenta pertanto la fonte principale per conoscere lo stile di vita
dell’antica aristocrazia. L’aristocrazia dell’Odissea è una classe sociale che appare
fortemente consapevole del proprio privilegio, della propria maggior finezza di
costumi e di stile di vita; le sue condizioni di vita sono caratterizzate dalla
sedentarietà, elemento questo che rende possibile la trasmissione dello stile
di vita dagli anziani ai fanciulli e l’organizzazione di una scuola: elementi
peculiari della cultura aristocratica, così come viene rappresentata
dall’Odissea, sono il saper provvedere alla formazione della personalità umana,
mediante continui ammaestramenti, e la trasformazione dell’educazione in
formazione sistematica della personalità secondo un modello definito.
A differenza quindi dell’Iliade, in
cui vengono rappresentate figure caratterizzate da grandi passioni e da destini
tragici, nel poema più recente compaiono personaggi dalle connotazioni più
umane. La misura del pregio di ogni personalità è certamente ancora il valore
guerriero, ma ad esso si aggiunge tuttavia anche l’apprezzamento dei meriti
intellettuali e sociali: l’eroe è colui che non è mai privo di buoni consigli,
che in ogni circostanza sa trovare le parole giuste e che, oltre alle virtù
guerriere, mostra astuzia, capacità inventiva e spirito pratico, grazie a cui
finisce per trionfare sempre sui nemici potenti e su pericoli insidiosi.
Le opere di Omero pertanto, come ebbe
modo di affermare anche lo stesso Platone, non venivano lette solo per il
piacere artistico che erano in grado di provocare, ma anche gli esempi di vita
che presentavano. Nel pensiero greco dell’età arcaica l’elemento estetico non è
infatti ancora separato da quello etico e tale fusione non è puramente
accidentale, ma, al contrario, il contenuto normativo e la forma artistica
dell’opera d’arte stanno in una relazione di reciprocità e hanno in comune la
loro intima radice. La poesia della Grecia classica non fornisce quindi
solamente la rappresentazione di frammenti e scorci della realtà, ma sceglie
accuratamente questi aspetti, cerca di renderli nella forma artistica migliore
e più efficace e li pone poi in relazione ad un determinato ideale o modello da
trasmettere. Le innumerevoli scene di combattimento, ad esempio, collegate fra
loro in forma unitaria, non hanno solo lo scopo di presentare quadri
particolari di avvenimenti noti, ma anche quello di mettere in risalto la virtù
morale degli eroi famosi, fra i quali spicca Achille, monumento immortale di
esperienza umana e di dolorosa grandezza. Con il termine aristia si
indica proprio la descrizione delle gesta e del valore di un eroe, di cui
vengono celebrati i tratti quasi sovrumani e comunque ritenuti eccellenti da un
punto di vista etico. Le soluzioni stilistiche e narrative adottate per
raggiungere questi obiettivi sono le seguenti:
a) “ritardare” o escludere l’intervento
delle divinità, di Zeus in particolare, nelle vicende della guerra, in modo
tale da creare lo spazio per il libero dispiegamento delle possibilità dei
singoli guerrieri, quindi di uomini;
b) inventare episodi e creare
circostanze, come l’episodio della seduzione di Zeus da parte di Hera, che
consentano di lasciare campo libero all’intervento dell’uomo;
c) introdurre gli exploits di singoli
guerrieri, quindi proporre delle aristie “minori”, per interrompere ed
intercalare le sequenze vittoriose delle aristie principali, quella di
Ettore e di Achille, e per proporre nello stesso tempo diversi modelli umani.
Accanto poi alla presentazione di
modelli etici, fin dalle battute iniziali dei due poemi appare evidente il
rilievo che l’autore intende dare ad un dato ideologico fondamentale, e cioè
che, al di là della guerra, che rappresenta la struttura portante dell’opera,
l’elemento che accomuna il genere umano nel suo complesso è l’ineludibilità
della morte. Le “forti anime di eroi” sono quelle dei Greci e dei Troiani, che
appaiono legati da un comune destino di paura architettato e progettato da
Zeus, e in molti passi dell’opera molti di loro, sempre Greci e Troiani, si
trovano coinvolti in gravi lutti.
Omero scrive un poema che racconta la
guerra, realizzato con pieno gusto del narrare e con uno straordinario senso
del fatto, ma nello stesso tempo svela una realtà profonda, che va al di là
della guerra e che la svuota completamente di significato. Mentre infatti la
sua poesia prende corpo, inizia a farsi strada, mediante l’impiego di mirati e
studiati paragoni (ad esempio gli uomini paragonati alle foglie), l’idea della
fragilità e della debolezza del genere umano: gli uomini, che nel corso della
narrazione divengono progressivamente sempre meno guerrieri e sempre più
uomini, in alcune circostanze manifestano certamente la loro forza, ma in altre
soccombono e periscono.
Il discorso relativo al ruolo che i
modelli etici giocano nell’Iliade e nell’Odissea deve tuttavia spingersi ancora
più in profondità. L’aspetto della responsabilità personale, articolata in due
forme, responsabilità oggettiva, che va al di là della volontarietà di chi ha
commesso il fatto (es.: Patroclo da ragazzo ha dovuto abbandonare la sua terra
per aver commesso un delitto involontario), e complementarietà dell’agire
dell’uomo con quello della divinità, cioè quel concetto di atē come
idea che implicitamente evoca l’intervento di una forza esterna al soggetto,
riveste nei poemi omerici un ruolo centrale. Un singolo individuo,
potenzialmente all’origine di un evento o di una catena di eventi di valenza
negativa, viene giudicato con modalità che hanno un chiaro riferimento ai
procedimenti ufficiali di amministrazione della giustizia; Zeus inoltre viene
presentato come difensore ultimo e quale garanzia dalla possibilità di sentenze
ingiuste: nel XVI libro la rovinosa tempesta provocata da Zeus è presentata dal
poeta come espressione dell’ira del capo degli a causa di una pratica scorretta
dell’attività giudiziaria.
Nella parte conclusiva del poema si
assiste tuttavia, in questo senso, ad una svolta. Zeus viene infatti presentato
non più solo come garante ultimo della giustizia, ma anche e soprattutto come
l’entità all’origine del ciclo di sofferenze e di mali che colpiscono l’uomo;
nel XXIV libro, infatti, Achille si rivolge a Priamo enunciando il principio
secondo cui all’uomo tocca vivere nell’infelicità, concezione questa che non è
incompatibile con l’immagine di Zeus garante della giustizia, ma che fa
riferimento ad un atteggiamento etico di ordine diverso.
Date queste premesse, è necessario
analizzare come il concetto di responsabilità personale prenda effettivamente
corpo attraverso le vicende di alcuni personaggi dell’Iliade:
Paride
Viene presentato come responsabile
dell’infrazione della norma dell’ospitalità per aver condotto via Elena e molte
delle sue ricchezze da Sparta e per questo è ritenuto all’origine della guerra.
Il comportamento di Paride e di Elena viene inoltre stigmatizzato come
lussurioso e lo stesso Paride viene presentato come uomo che agisce in quanto
accecato dal desiderio. A parte però questo duro giudizio di condanna, non si
ravvisa nel poema una linea narrativa che faccia pensare che a tale colpa debba
necessariamente seguire una punizione: l’Iliade si conclude senza che Paride
venga ucciso e il poema inoltre termina con la morte di Ettore, il personaggio
che più di ogni altro ha espresso atteggiamenti di rimprovero nei confronti di
Paride. In linea di massima quindi, nel corso dell’opera, il problema della
responsabilità di Paride tende ad essere mitigato: nella parte iniziale viene
frequentemente citato il gesto del rapimento di Elena, oggetto di dura condanna
da parte dei Greci, ma in seguito viene mostrato un Paride che riesce a
riscattarsi grazie alle sue qualità di guerriero.
Elena
Il dato costante è quello
dell’autocondanna di Elena, che definisce se stessa, per ben due volte nel
discorso rivolto ad Ettore, come cagna. L’autocondanna è confermata
dall’auspicio, espresso dalla stessa Elena, di poter morire per aver compiuto
il gesto di seguire Paride e dall’augurio di poter essere trascinata via da una
rovinosa tempesta.
Relativamente alla volontarietà o
meno del gesto compiuto da Elena, i fatti vengono presentati nel poema in modo
molto articolato. Di fronte a Priamo infatti Elena pone l’accento sull’aspetto
della volontarietà, mentre nel corso del lamento funebre per Ettore si pone
maggiormente in luce l’iniziativa di Paride, presentato come colui che l’ha
condotta con la forza a Troia. Molto diversa è la presentazione del punto di
vista dei Greci. A loro avviso l’essenziale era infatti vendicare “gli strappi
e i gemiti di Elena”, con chiaro riferimento quindi ad un atto di costrizione
esercitato da Paride ai danni di Elena stessa, e questo punto di vista
rappresentava una premessa necessaria perché la guerra mossa contro Troia non
apparisse priva di giustificazione.
Il narratore, dal canto suo, non
presenta Elena semplicemente come colei che ha subito un atto di costrizione,
ma propone tre diversi punti di vista sottesi a questo evento: l’intervento di
Paride, l’intervento di una dea, Afrodite, ma soprattutto il consenso di Elena,
cui fa da contraltare l’autocondanna.
Appare chiaro quindi che Omero
esprime nei confronti di Elena un giudizio di aperta condanna, ma è nello
stesso tempo refrattario a suggerire una evoluzione degli eventi che abbia come
sbocco la punizione della donna.
Agamennone
Agamennone viene presentato, da parte
di Achille nel I libro, come colpevole di violenza per il fatto di avergli
tolto Briseide, ma nel corso del poema appare pentirsi del suo comportamento,
fino a che nell’assemblea che viene descritta nel XIX libro fa pubblica
ammenda. Achille, in questa circostanza, non chiede nessuna riparazione ad
Agamennone e convoca un’assemblea della riconciliazione per annunciare la
volontà di abbandonare atteggiamenti improntati all’ira e alla rabbia e per
chiedere ad Agamennone di guidare l’esercito nella battaglia alla quale lui
stesso prenderà parte. La causa di questo mutamento di orientamento è da
individuare essenzialmente nella morte di Patroclo, di fronte alla quale l’ira perde
di significato, e in occasione dell’assemblea per la riconciliazione la
questione del contrasto fra Achille ed Agamennone appare già superata, anche se
un atto di riparazione da parte di Agamennone stesso, sebbene svuotato di
significato reale, dovrà esserci.
A differenza di quanto accade
nell’Iliade, nell’Odissea colpa e punizione si caricano invece di una valenza
molto forte. Il poeta esprime infatti frequenti giudizi di esplicita condanna,
ad esempio nei confronti dei Proci, vengono impiegati spesso termini valutativi
ed emerge molto chiaramente un esplicito intento didattico, espresso, ad
esempio, già nel proemio nell’anticipazione del destino di morte cui i compagni
di Ulisse sono destinati a causa del loro comportamento colpevole. Tale
messaggio didattico, pur intersecandosi con altri temi importanti, come la
nostalgia, il ritorno, gli affetti familiari e anche, e soprattutto, il piacere
della narrazione, spinto fino al limite del fiabesco, appare nell’Odissea molto
evidente, mentre nell’Iliade risulta essere molto più nascosto.
·
Iliade ed
Odissea: le scelte stilistiche in funzione delle esigenze narrative
Concentrando l’analisi e l’attenzione
in primo luogo sull’Iliade, uno dei dati che balza agli occhi per primo è che
una parte considerevole del testo è costituita da discorsi diretti, che
rappresentano il 45% degli oltre 15600 versi che costituiscono l’opera. Tale
alternanza di parti narrative e parti in cui il narratore lascia spazio al
personaggio per una autonoma formulazione del discorso si trova già in
composizioni letterarie anteriori all’Iliade, come, ad esempio, nel poema di
Gilgamesh. Questo aspetto tuttavia, al di là del dato apparente, presenta
nell’Iliade varie sfaccettature.
In primo luogo il discorso di ogni
singolo personaggio, espressione di un particolare punto di vista, può essere
motivato da fattori di ordine puramente espositivo, miranti cioè a rendere
possibile l’esposizione da parte del parlante di cose o fatti che un altro
parlante non conosce, o di ordine tendenzioso, di esposizione cioè da parte del
parlante di cose che in un particolare momento appaiono molto vicine ai suoi
interessi e alle sue intenzioni. Il discorso formulato da ciascun personaggio
conserva inoltre sempre un carattere di contestualità rispetto alla dimensione
narrativa complessiva e ciò in virtù dell’abilità del poeta che riesce sempre,
mediante una serie di procedimenti molto sofisticati, a concedere uno spazio
autonomo al suo personaggio, ma, nello stesso tempo, a creare connessioni fra
tale spazio autonomo e il resto della narrazione.
Centrale è inoltre il rapporto fra il
punto di vista del narratore e la posizione espressa dal personaggio, figure
queste che si alternano per tutto il corso dell’opera e che si contendono il
ruolo di primo piano. Sul rapporto fra queste due figure sono necessari alcuni
approfondimenti.
·
Il rapporto
fra narratore e personaggio
Relativamente al rapporto fra il
narratore e il personaggio, si possono individuare diverse strategie:
a) il narratore fa da spalla al
personaggio: il
narratore crea le condizioni affinché il personaggio possa esprimere il suo
punto di vista. Tale meccanismo è evidente in molti passi dell’Iliade, come, ad
esempio, nella parte iniziale del libro XXI, in cui viene narrato l’episodio
patetico di Licaone. In questa circostanza vengono prodotte da parte di Achille
delle frequenti ripetizioni di forme verbali, già proposte precedentemente dal
narratore, che in questo caso sostiene e fa da spalla ad Achille;
b) il narratore gioca con il personaggio: ciò si può cogliere chiaramente nel libro XIV, in cui
Omero gioca addirittura con Zeus nel corso dell’episodio della seduzione che
Zeus stesso subisce da parte di Hera. In questa circostanza il capo degli dei
fa riferimento con estrema tranquillità e con un atteggiamento un po’ spavaldo
ad un suo desiderio che, nel passato, lo ha condotto ad avere come oggetto sia
donne mortali che dee e, a riprova di ciò, produce un lungo elenco di donne che
ha amato. Proprio però nel momento in cui egli mette in mostra le sue doti di
amatore, viene ingannato da Hera, che riesce a farlo cadere in un sonno
profondo e a sedurlo; il narratore mostra quindi di giocare con il personaggio,
facendo in modo che egli si scopra proprio nel momento meno opportuno e
coprendolo in un certo senso di ridicolo;
c) il narratore prende le distanze dal
personaggio: nel VI libro si parla dello scambio
di armi fra Diomede e Glauco su proposta di Diomede e il narratore afferma,
facendo ricorso ad un’espressione molto forte, che Zeus ha tolto il senno a
Glauco. Tale giudizio negativo nasce dal fatto che l’accordo fra i due, che si
impegnano a non combattersi più nemmeno in futuro, appare al narratore troppo
in anticipo rispetto ai tempi e per questo sente la necessità di introdurre una
nota di commento tale da impedire all’ascoltatore di immedesimarsi nella
vicenda e nelle sorti del personaggio e che provoca pertanto l’effetto
contrario, un impulso cioè verso un atteggiamento di dissociazione. In
definitiva, in questo episodio il personaggio si sarebbe spinto, a giudizio del
narratore, troppo oltre e per questo il narratore stesso sente la necessità di
frenarlo.
Relativamente invece a come viene
delineato e presentato il personaggio, non solo nella sua esteriorità, ma anche
nella sua dimensione interiore e motivazionale, si individuano nell’Iliade vari
procedimenti:
a) il personaggio viene presentato dal
narratore nell’atto di agire senza che vi sia consapevolezza da parte sua della
motivazione che lo spinge all’azione: in questa circostanza è il narratore che garantisce per il
personaggio e la sequenza delle vicende è interamente organizzata e regolata
dal narratore stesso, che segue lo sviluppo delle cose e di volta in volta
fornisce informazioni all’ascoltatore;
b) il personaggio agisce in concomitanza
con una circostanza accessoria che viene correlata al suo personale punto di
vista: in questo
caso il nesso tra personaggio e le sequenza delle vicende non è immediato, ma
si ha un elemento intermedio, caratterizzato peraltro da una precisa struttura
grammaticale e sintattica (participio, preposizione temporale-causale e
proposizione finale) che aiuta a far prevalere il punto di vista del
personaggio stesso e la sua autonoma capacità di valutazione;
c) il narratore riferisce
dell’incertezza del personaggio fra due alternative e informa in seguito quale
delle due è stata scelta: si tratta in questo caso di un salto qualitativo rispetto ai precedenti
procedimenti espressivi utilizzati poiché il narratore concede al personaggio
un suo spazio autonomo, anche se è sempre lui a regolare e a circoscrivere
questo spazio; l’incertezza viene espressa mediante l’uso dei verbi meditare,
riflettere ed esitare e con la struttura o…. o….. e a volte la titubanza del
personaggio si conclude con l’intervento esterno di un’altra entità, rappresentata
nella maggior parte dei casi da una divinità;
d) in un monologo il personaggio
riflette fra sé e sé fino a decidere come agire: il personaggio in questo caso
perviene ad una decisione attraverso un discorso rivolto a se stesso e rompe il
legame che lo lega al narratore, evidenziando una sua autonoma capacità di
argomentazione.
Relativamente ai
monologhi questi appaiono differentemente articolati a seconda degli scopi che,
per mezzo di essi, il personaggio si prefigge:
1) il monologo può svilupparsi mediante
l’enunciazione da parte del personaggio della decisione presa dopo aver
esposto due alternative che si elidono a vicenda, caso in cui il monologo appare
maggiormente formalizzato anche nella struttura (introduzione con un verso
formulare esterno – inizio con una interiezione che contiene al suo interno il
verso modulare “ma perché a me il mio animo ha detto queste cose”);
2) il monologo può presentare il
personaggio che perviene ad una decisione senza aver enunciato alternative; in questo caso si tratta di
monologhi brevi che al poeta dovevano apparire più adatti a rendere il senso
dell’immediata percezione di ciò che si presenta di fronte al personaggio; nel
caso di Ettore la prospettiva che gli si pone davanti è la sua morte,
circostanza questa in cui il poeta mette in atto una creazione poetica di
altissimo livello espressivo mediante la quale propone il modello dell’eroe che
affronta consapevolmente e senza incertezze il suo destino. Il margine di
scelta che resta all’eroe riguarda il modo di morire, in considerazione del
ricordo che del suo gesto resterà alla generazioni future: nel gesto esemplare
cui si sta preparando, l’eroe trova il suo riscatto o, osservando le cose da un
diverso punto di vista, il poeta concede al suo personaggio il modo per riscattarsi
di fronte ad una situazione irrevocabile e senza alternative nella quale egli
lo ha stretto. Il monologo si carica pertanto in questo caso di un inevitabile
carattere drammatico e tragico;
3) nel monologo il personaggio non
perviene ad alcuna decisione e non si pone nemmeno il problema di decidere.
In tutta l’opera compaiono quattro
monologhi nei libri XI, XVII, XXI e XXII, la cui estensione cresce
progressivamente e dei quali l’ultimo, quello di Ettore, rappresenta il culmine
di una sequenza in progressione non solo sul piano ritmico, ma anche dal punto
di vista dell’espressione poetica.
·
Il diverso
ambito di conoscenza del narratore e del personaggio
Altro aspetto da segnalare è relativo
all’ambito di conoscenza proprio del narratore rispetto a quello del
personaggio. Nell’Iliade, così come nell’Odissea, appare, ad esempio, in modo
costante la seguente struttura espressiva: “Così disse (dissero) pregando”, seguita
poi da “…e lo/li ascoltò” seguita dal nome della divinità che prestava
ascolto. Tale formula espressiva riflette pertanto una situazione tipica,
quella dell’uomo che prega e della divinità che, venendo incontro ad un
desiderio elementare dell’uomo, presta ascolto. Nell’Iliade tuttavia,
differentemente da ciò che accade nell’Odissea, compaiono due casi atipici. Il
primo caso è quello in cui alla formula: “Così disse pregando” segue un
verso da cui appare evidente il rifiuto della divinità a prestare ascolto alla
preghiera. In questo modo si delinea uno scarto fra l’ambito di conoscenza del
personaggio e quello del narratore, che mostra di conoscere di più, sulle
intenzioni della divinità, del personaggio stesso. Nel secondo caso, invece, la
formulazione del verso appare regolare sul piano della forma, ma la risposta
della divinità si carica di una risonanza sinistra. Ciò avviene, ad esempio,
nel XVI libro, quando Achille chiede a Zeus di garantire il successo di
Patroclo e di farlo tornare sano e salvo; in questo caso il narratore,
anticipando gli eventi, rivela che la preghiera di Achille non verrà esaudita
interamente e che soprattutto non verrà esaudita nel punto che per Achille è di
importanza essenziale. Anche in questo caso il narratore circoscrive il
personaggio in un ambito ristretto di conoscenza e mette in atto nei suoi
confronti un gioco nel complesso piuttosto crudele: in un primo momento tutto
appare andare nella direzione voluta dal personaggio e la divinità sembra
esaudire tutte le sue preghiere, dopo invece il discorso si arricchisce di un
elemento che preannuncia al personaggio un evento negativo. Il rifiuto della
divinità di intervenire per esaudire la preghiera che il personaggio gli ha
rivolto emerge inoltre anche quando la richiesta viene formulata con eccessiva
superbia, ad esempio con la formula: “Così disse vantandosi”, caso in
cui segue anche la dissociazione del narratore nei confronti dell’atteggiamento
del personaggio.
Il narratore, inoltre, proprio per
sottolineare la ristrettezza dell’ambito di conoscenza proprio del personaggio,
utilizza talvolta il termine nepios, che letteralmente significa
“bambino”, ma che appare più spesso impiegato nell’accezione di
“inconsapevole”. Fermo restando il significato di base, questo termine acquista
sfumature che necessitano di un chiarimento.
Quando è usato nel discorso diretto
ed è riferito all’interlocutore che il personaggio che parla ha davanti a sé,
il termine di nepios diviene allora uno strumento di aggressione
verbale, molto simile al nostro “stolto”. Più ampia è invece la gamma dei
significati quando il termine è impiegato dal narratore; a volte infatti l’uso
del termine rivela un intento polemico nei confronti del personaggio, ma a
volte viene introdotto per evidenziare il suo ristretto ambito di conoscenza,
senza tuttavia far trasparire nei suoi confronti un intento polemico
particolare. Tale accezione di significato viene usata, ad esempio, nei
confronti di Patroclo ed ha la funzione, oltre che di sottolinearne la scarsa
consapevolezza, di prendere da esso le distanze e di valutare la possibilità di
comportamenti diversi e più cauti. Ultima accezione, infine, del termine nepios
è quella impiegata nei confronti di Andromaca in relazione alla morte del
marito. In questi passi il termine, che si carica di un chiaro
significato patetico e delinea l’attesa vana di Andromaca, mette in evidenzia
ancora una volta la dissociazione del narratore nei confronti del comportamento
del personaggio, ma senza che emerga tuttavia un tono di riprovazione. Il fatto
che il narratore sappia di più del personaggio fa scattare, nel caso di
Andromaca, un processo di partecipazione alla sua sofferenza, che viene
valorizzata nella sua profonda umanità.
Il termine nepios viene infine
impiegato nell’Iliade per due volte in relazione al rapporto uomo/dio. In un
passo in particolare, nel libro XX, il narratore, riferendosi ad Achille che
temeva che la lancia scagliata da Enea potesse perforare il suo scudo
fabbricato da Efesto, usa il termine “stolto” per sottolineare l’errata
valutazione di Achille stesso di un dato, appunto la solidità dello scudo.
·
L’uso della
seconda persona
Altra particolarità che si rende
evidente nell’Iliade è l’uso, da parte del narratore, della seconda persona per
rivolgersi direttamente alle Muse, all’ascoltatore o al personaggio. Le
invocazioni alle Muse rientrano nell’ambito del rapporto che legava il poeta
all’attività che la musa stessa presiedeva e ad una specifica tradizione,
caratterizzata da un proprio sistema di regole e norme. Il rivolgersi
all’ascoltatore aveva invece la funzione di trasmettere le informazioni ad un destinatario,
con il quale il poeta sentiva il bisogno di stabilire un collegamento, in
particolare nella fase iniziale del suo racconto. Il rivolgersi ad uno dei suoi
personaggi è infine uno strumento privilegiato di cui il narratore si serve per
interrompere il flusso della narrazione nella sua apparente oggettività. Tale
procedimento, detto “apostrofe”, mentre nell’Odissea è attestato solo per il
personaggio di Eumeo, nell’Iliade è impiegato nei confronti di vari personaggi,
come Menelao, Apollo, Patroclo ed Achille. Nell’Iliade inoltre l’apostrofe
ricorre frequentemente dopo un paragone, che rappresenta una temporanea
lacerazione della compattezza del testo in conseguenza di un intervento più
diretto del narratore, ed è inoltre impiegata frequentemente in concomitanza
con la morte o il pericolo di morte di un personaggio e quindi di fronte a
circostanze cariche di grande intensità emotiva. Esiste pertanto una perfetta
corrispondenza biunivoca fra apostrofe ed emotività ed è evidente che
l’apostrofe veniva percepita dal poeta come uno strumento da impiegare in
occasione di una forte spinta di carattere emozionale, e ciò spiega anche
perché il personaggio per il quale tale procedimento narrativo viene
maggiormente impiegato è Patroclo. Patroclo è un personaggio tutto costruito in
chiave patetica e le apostrofi sottolineano i momenti più rilevanti della sua
vicenda, che si conclude con la morte. Il personaggio, dopo Patroclo, per il
quale vengono impiegate più apostrofi è Menelao e, in particolare, in circostanze
che presentano un pericolo di morte a suo carico.
·
La
formulazione di richieste e il resoconto di fatti
Altro procedimento messo in atto
nell’Iliade è l’enunciazione da parte del personaggio, attraverso il discorso
diretto, di una richiesta di cui poi il narratore riferisce l’esito. Il
rapporto che sussiste fra richiesta del personaggio e resoconto del narratore
non è di semplice ripetizione, ma si rendono evidenti dei cambiamenti
classificabili in:
-
variazioni
dovute allo sviluppo della vicenda nel tempo: un esempio lo possiamo individuare nel litigio fra
Achille ed Agamennone, in cui il narratore, in seguito alla rottura fra i due,
vuole evitare che le capacità decisionali ed operative di Agamennone possano
risultare compromesse dopo la rottura con Achille;
-
espressione,
da parte del narratore, di un punto di vista diverso da chi ha formulato la
richiesta: nel XIX
libro Zeus ordina ad Athena di instillare nel petto di Achille nettare ed
ambrosia perché non fosse raggiunto dalla fame e la dea, come racconta il
narratore, agì eseguendo le richieste di Zeus affinché la fame non raggiungesse
Achille “alle ginocchia”. Appare evidente che la frase di Zeus viene dilatata
ed amplificata e viene evidenziato l’aspetto sgradevole della fame;
-
ampliamento
con l’aggiunta di particolari dovuto al gusto di raccontare proprio del
narratore: il
narratore, nell’obbedire a sue particolari esigenze espressive, è portato a
raccontare i fatti con una ricchezza di particolari che non trova sempre
riscontro nel precedente discorso del personaggio. Il discorso del personaggio
può venire infatti arricchito con l’inserimento di nuovi dettagli, come accade,
ad esempio, nel libro VI in relazione alle istruzioni date da Elena ad Ettore e
ripetute da questo alla madre e il resoconto della messa in atto di queste
istruzioni realizzato dal narratore, resoconto che presenta sensibili
variazioni. Non è infatti Ecuba che aduna le donne troiane, come dovrebbe
avvenire secondo le istruzioni, ma tale operazione viene messa in atto dalle
serve per incarico della stessa Ecuba, sulla quale poi il narratore si sofferma
per descrivere con accuratezza sia l’operazione di donazione alla dea di un
peplo, sia le caratteristiche dello stesso peplo prodotto dalle donne che
Paride aveva portato a Troia, ritornando insieme ad Elena da Sparta. Anche il
personaggio, dal canto suo, ripropone fatti esposti dal narratore non sotto
forma di semplice ripetizione, bensì con l’introduzione di numerose variazioni
dovute al suo particolare punto di vista. Non si tratta solamente di
esposizione di particolari diversi, legati semplicemente ad una diversa
prospettiva nel valutare i fatti, ma anche di consapevole manipolazione degli
eventi da parte del personaggio, manipolazione che si spinge a volte al limite
della tendenziosità e del falso. Un esempio di tale strategia narrativa è
individuabile nel discorso che Licaone rivolge ad Achille nel libro XXI. Delle
vicende che riguardano Licaone compaiono infatti, a breve distanza, due diverse
versioni, una propria del narratore ed una seconda dello stesso Licaone. Il
narratore riporta infatti che Achille aveva condotto via Licaone per venderlo,
in seguito, al figlio di Giasone, che pagò il prezzo dovuto. In questo racconto
si mette in evidenza la figura di Achille che risulta essere per Licaone
l’origine di una sciagura inattesa. Licaone racconta invece di essersi posto
davanti ad Achille in posizione supplichevole ed appare quindi molto evidente
il suo atteggiamento umile con il quale cerca di indurre in Achille pietà. La
diversità di punti di vista emerge anche quando sono coinvolti due personaggi
diversi, che parlano in momenti diversi dello stesso evento. Un esempio di ciò
è individuabile nella preghiera che Theti, nella parte iniziale del poema,
rivolge a Zeus sull’Olimpo. Hera riferisce che la stessa Theti si sarebbe
seduta di buon mattino presso Zeus e gli avrebbe preso le ginocchia,
resoconto che presenta punti di contatto con la formulazione data dal
narratore, Athena invece, parlando dello stesso episodio, riferisce che Theti
baciò le ginocchia di Zeus, esagerando nella descrizione, in modo perfettamente
coerente con il suo stile animoso e polemico. Lo scarto fra i diversi punti di
vista dei due personaggi può essere ancora più rilevante quando fa riferimento
ad eventi estranei al poema. Può verificarsi cioè che si diano versioni
completamente differenti di uno stesso evento senza che l’ascoltatore sia in
grado di accertare o verificare quale versione sia vera. Nelle intenzioni di
Omero l’ascoltatore non doveva pensare che il personaggio inventasse cose non
accadute e le diverse versioni sono proposte come tutte vere, anche se non
congruenti fra loro; ciò che conta per il poeta è la salvaguardia della verità
del segmento narrativo che egli di volta in volta costruisce e di fronte a ciò
qualche incongruenza appare nel complesso secondaria.
·
L’uso di
strutture simmetriche
Nell’Iliade, così come nell’Odissea,
compaiono versi perfettamente simmetrici, cioè con una parte di distico
riservata ad un personaggio o ad una categoria di persone e l’altra parte di
distico riservata ad un secondo personaggio o ad un’altra categoria di persone.
Si presenta quindi, in alcune circostanze, una struttura ritmicamente
equilibrata analoga alla danza, mediante la quale Omero cerca di creare delle corrispondenze
fra i personaggi di volta in volta coinvolti. Tali strutture ritmiche parallele
coinvolgono anche il rapporto fra personaggi e narratore. Nel XVI libro, dove
viene presentato il contrasto fra Ettore e Patroclo intorno al cadavere di
Febrione, prima viene descritto il balzo compiuto da Ettore e subito dopo viene
descritto il balzo compiuto da Patroclo, mediante una ricerca di corrispondenza
fonica fra i versi ottenuta mediante una sorta di rima. Compaiono strutture
diadiche anche quando il contrasto coinvolge due interi eserciti: nel XV libro
vengono utilizzate espressioni diadiche che hanno la funzione di mettere in
evidenza le corrispondenze che sussistono fra le due parti in causa e che hanno
alla fine lo scopo di accomunare i due schieramenti in lotta in quanto
condividono lo stesso destino; il sangue che alla fine scorre sulla nera terra
è sangue di Greci e di Troiani. Anche nella parte finale del poema, dove viene
descritto l’incontro fra Achille e Priamo, il narratore impiega corrispondenze
simmetriche: i due piangono insieme e, grazie al sapiente impiego di rime e
parallelismi, viene resa al meglio la consonanza affettiva tra vinto e
vincitore.
·
La formularità
e la ripetizione
Relativamente alla questione dell’uso
delle formule e della tecnica della ripetizione è necessario premettere che il
pubblico di cui erano destinate Iliade ed Odissea era sicuramente molto
sensibile alla comunicazione orale e poteva da questa essere facilmente
raggiunto. Di ciò il poeta avrà sicuramente tenuto conto al momento della
composizione dell’opera ed avrà quindi fatto probabilmente ricorso, come tutti
coloro che a quel tempo si occupavano di poesia, ad un vasto patrimonio di
formule trasmesso oralmente e all’utilizzo della ripetizione, perché convinto
dell’efficacia delle formule ripetitive sul suo uditorio. Tutto ciò tuttavia,
che è sicuramente molto probabile, deve però essere tenuto distinto da quanto
concerne la scelta e l’impiego dei registri espressivi da parte dell’autore;
formularità e ripetizione devono pertanto essere analizzate in funzione dei
procedimenti inventivi frutto delle sue scelte creative o in rapporto alle
specifiche esigenze espressive delle varie parti del testo.
L’arte dei richiami e dell’uso delle
formule ripetitive appare quindi nell’Iliade e nell’Odissea un elemento degno
di considerazione, malgrado non sia, contrariamente a ciò che si potrebbe
pensare, così tanto impiegato. Quasi ogni segmento delle opere omeriche è
infatti un caso particolare ed unico nell’ambito dell’epica arcaica pervenuta
fino a noi ed appare evidente che determinate espressioni sono state coniate
autonomamente da Omero e da lui elevate a livello letterario; tanto per fare un
esempio, l’appellativo di “villoso” attribuito al petto di Achille non viene
usato per nessun altro personaggio dell’epica classica e deve essere inventato
dall’autore in funzione di una particolare esigenza espressiva.
Relativamente all’impiego di formule,
è necessario distinguere fra una formularità esterna, l’utilizzo cioè multiplo
di formule preesistenti ed appartenenti al patrimonio comune dei poeti, e
formularità interna, ripetizione cioè di espressioni già usate da Omero in
precedenza e probabilmente originali. Nell’Iliade si possono trovare non solo
espressioni per le quali è legittimo parlare di patrimonio tradizionale di
formule, quindi di formularità esterna, ma anche, e per una parte rilevante del
testo, ripetizioni che possono essere riferite solo alla formularità interna.
L’utilizzo inoltre di formule esterne
non inoltre costituiva un ostacolo o una limitazione alla capacità inventiva
del poeta poiché queste venivano comunque sottoposte ad un procedimento di
variazione, mediante:
-
parziale
sostituzione: la
formula tradizionale “dirò, e tu presta attenzione e ascoltami” diviene nel I
libro “dirò e tu presta attenzione e giurami”, in una circostanza in cui, data
la necessità da parte del personaggio coinvolto di prendere un impegno preciso,
non era sufficiente dire che egli ascoltasse, ma era necessario che
intervenisse prestando giuramento;
-
ampliamento: la formula “il padre e la veneranda
madre” diviene “il caro padre e la veneranda madre”, in cui l’aggettivo “caro”
sottolinea il tipo di rapporto padre/figlio che Omero ha creato in questo
episodio;
-
rovesciamento
di funzione: l’espressione
“pari a un dio” viene impiegata sia con connotazione positiva, per sottolineare
cioè le particolari qualità di un personaggio, ma anche con connotazione
negativa, per ammonire un personaggio per la sua eccessiva superbia;
-
discussione di
una formula: una
formula, impiegata per porre in rilievo particolari qualità di una persona,
viene citata con un intento espressivo tale da metterla in discussione e negare
di conseguenza le qualità che con essa potevano essere attestate.
Tali meccanismi di variazione,
impiegati molto di frequente, erano pertanto uno strumento privilegiato che il
poeta aveva a disposizione per creare, a partire da modalità espressive già
fissate dalla tradizione, delle espressioni nuove.
·
Gli epiteti
Interessante è anche l’analisi di
quanto e come venivano impiegati gli epiteti, particolari o generici, nei poemi
omerici. Analizzando in particolare la figura di Ettore, è possibile registrare
l’uso dell’appellativo di illustre, impiegato anche per Aiace Telamonio e
quindi non in modo specializzato, e quello di forte, che viene invece impiegato
esclusivamente per Ettore, segno questo di una accentuata specializzazione.
Altri epiteti specializzati utilizzati però non solo per Ettore, ma anche per
Aiace sono “scuotitore d’elmo”, “simile alla fiamma per valore” e “pari ad Ares
distruttore di uomini”, espressione quest’ultima considerata probabilmente dal
poeta come particolarmente forte ed utilizzata in poche occasioni. In generale,
relativamente all’uso degli epiteti, si osserva una specializzazione che
coinvolge e riguarda i grandi protagonisti del poema.
Numerosi sono però anche i casi in
cui il nome di un eroe non è legato o accompagnato da alcun epiteto, né
specifico né generico. L’alternanza fra presenza e assenza di epiteti
costituisce, nell’Iliade e nell’Odissea, uno strumento espressivo di vitale
importanza: si ha la presenza costante di epiteti quando l’attenzione
dell’autore si concentra su un determinato particolare, che viene messo
dall’epiteto in primo piano, si ha l’impiego di epiteti di carattere per lo più
di carattere elogiativo quando il poeta vuole metterne in evidenza l’eroismo e
dare l’idea di un mondo eroico lontano nel tempo, si ha infine l’alternanza di
epiteti generici e di epiteti specializzati quando si vuole far emergere il
valore di una singola personalità.
Un aspetto però che è necessario
prendere nella giusta considerazione è il rapporto fra l’epiteto e il contesto.
Se un epiteto è impiegato molto frequentemente appare evidente che il rapporto
con il contesto sarà labile; l’uso dell’appellativo “divino” per Ettore è
impiegato in molti momenti e quindi non ha senso chiedersi se la constatazione
della sua divinità dipenda dal particolare contesto in cui viene attestata; se
invece l’epiteto viene impiegato con minore frequenza, allora il rapporto con
il contesto appare più stretto; sempre in relazione ad Ettore, l’appellativo
“forte” è usato solo nelle circostanze in cui è necessario porne in rilievo la
forza, così come l’appellativo “audace” viene impiegato solo nei momenti in cui
Ettore, pur avendo ricevuto consigli assennati, si appresta a seguire una linea
di condotta spericolata.
·
I paragoni
L’uso dei paragoni nell’Iliade e
nell’Odissea non avviene in modo indiscriminato, ma si inquadra invece
all’interno di un preciso disegno compositivo, realizzato ed ottenuto mediante
i collegamenti fra un paragone e l’altro. A volte determinati paragoni si
sviluppano a distanza realizzando, al di là del racconto vero e proprio, una
seconda linea compositiva che il poeta sviluppa parallelamente alla trama
principale. Nel libro XVI, ad esempio, il paragone con cui Patroclo ed Ettore,
che si contendevano il corpo di Cebrione, vengono identificati con due leoni
affamati che si contendono una cerva uccisa, corrisponde, sempre nello stesso
libro, al paragone con cui Ettore viene assimilato ad un leone che uccide un
cinghiale. Un collegamento a distanza tra due paragoni può essere realizzato
anche attraverso ben isolabili procedimenti di ampliamento e accorciamento; una
breve similitudine può venir ripresa in un passo successivo o, al contrario,
può accadere che in un secondo passo una similitudine più articolata venga
ridotta ad una breve similitudine. Quando poi si ha una sequenza di tre
paragoni collegati fra loro, quello centrale viene ad assolvere una funzione di
cerniera. Nei libri V, XI e XIII viene proposta l’immagine di un fiume dalla
corrente invernale e impetuosa in riferimento a Diomede, Aiace ed Ettore. In
questa circostanza Omero propone, nel primo paragone, uno spunto linguistico
che viene poi sviluppato in seguito. Il primo fiume travolge argini e
recinzioni, nell’XI libro l’azione del fiume è invece molto più rovinosa e
trascina con sé molti alberi e molto fango, nel terzo paragone, quello del XIII
libro, Omero sviluppa una potenzialità già presente nel secondo, ma non nel
primo: in questa circostanza un macigno viene spinto a valle, così come nell’XI
libro venivano spinti a valle querce e pini, e alla fine del paragone compare
il riferimento ad Ettore, così come nell’XI libro appare il riferimento ad
Aiace.
Nell’Iliade inoltre vi sono cinque
casi in cui un paragone viene ripetuto. Tali ripetizioni, percentualmente
scarse rispetto al numero complessivo di paragoni del poema, vengono peraltro
accompagnate da procedimenti che compensano la ripetizione stessa, come, ad
esempio, processi di intensificazione, che consistono nell’introduzione, in una
catena di paragoni, di un paragone nuovo per accentuare determinati caratteri
di un personaggio o per metterne in rilievo le azioni. Anche quando i paragoni
vengono ripetuti senza apparenti modifiche esteriori, ad uno sguardo più
approfondito appare evidente che non si tratta mai di pura e semplice copia,
ma, al contrario, la ripetizione acquista una particolare significatività. Uno dei
paragoni più efficaci è quello del leone, che presenta uno sviluppo per tutto
il corso dell’opera con una svolta particolare nella parte conclusiva del
poema. Il paragone inizia infatti con la classica immagine del leone
sanguinario che uccide un toro nel XVI libro e prosegue, nel XVII libro, con
l’immagine di un leone, cui viene paragonato Aiace che si pone accanto al
cadavere di Patroclo, che, insieme ai suoi piccoli, incontra un cacciatore
nella foresta ed ostenta la sua forza aggrottando le sopracciglia. Qui
l’aggressività diviene marginale e il leone si caratterizza per il suo
atteggiamento di difesa del gruppo familiare, che lo conduce a proteggere i
suoi piccoli che sente minacciati dai cacciatori. Il paragone del leone
prosegue nel XVII e XX dove ricompare il particolare della foresta, che appare
infittita, e i piccoli, precedentemente solo minacciati, ora sono stati rapiti;
il leone, preso dal dolore e dall’ira, si aggira fra i monti senza tuttavia
trovare il rapitore, ma si tratta di un leone che non ha più i caratteri
dell’incondizionata aggressività. L’elemento di novità dei vari passi citati è
rappresentato quindi dalla peculiarità dei moduli espressivi impiegati, creati
allo scopo di produrre un’immagine del leone non caratterizzata unicamente e
specificamente da una sanguinaria aggressività.
·
Considerazioni
conclusive
Volendo quindi accettare
l’ipotesi dell’esistenza storica di Omero quale autore di Iliade ed Odissea, è
necessario ritornare agli interrogativi iniziali e verificare le risposte, più
o meno evidenti e chiare, che Omero ha fornito ad essi attraverso le sue opere:
-
da dove viene la poesia? A questa domanda Omero
risponde semplicemente che essa proviene dalle Muse o, con un termine più
chiaro e generale, dagli dei. Nell’Odissea infatti un aedo afferma che fu un
dio ad ispirare tutti i canti nel suo cuore, precisando però di aver appreso da
solo l’arte della poesia;
-
qual è il fine della poesia? Anche
in questo caso Omero risponde molto semplicemente: il fine della poesia è
procurare diletto (“Un dio donò il canto a darci diletto”). Omero aveva una
visione piuttosto pragmatica del diletto che la poesia procura agli uomini:
attribuisce ad esso una grande considerazione, ma non ritiene che debba
collocarsi al di sopra di quello che proviene dalle bevande o dal cibo. Egli
ritiene inoltre che il vero fine della poesia, secondo un modo di pensare
diffuso al suo tempo, risieda nell’essere ornamento alle feste: afferma infatti
che, in tali occasioni, nulla risulta più gradevole di quando i convitati,
seduti in fila, stanno assorti ad ascoltare il cantore;
-
quale effetto produce la poesia sugli uomini? Omero
ritiene che la poesia, oltre a procurare diletto, sia anche in grado di
affascinare gli animi; parla infatti di incanto quando parla del canto delle
sirene e da lui prende appunto origine l’idea della poesia come strumento in
grado di incantare chi la ascolta, concetto questo che avrebbe svolto una
funzione importantissima nell’estetica delle epoche successive;
-
quale deve essere l’argomento della poesia? La
poesia, secondo Omero, deve trattare di fatti memorabili e, dicendo ciò, aveva
in mente ovviamente le gesta degli eroi dell’epica classica;
-
in che cosa consiste il valore della poesia? Il
valore della poesia, secondo Omero, risiede nel fatto che essa è la voce degli
dei che parlano per bocca dei poeti, ma anche nel fatto che procura agli uomini
diletto, tramandando, nello stesso tempo, il ricordo di antiche imprese.
In
tutta l’opera di Omero non emergono affermazioni che facciano pensare alla
poesia come arte autonoma, anche se il valore che egli attribuisce a questo
dono degli dei e all’aedo che, ispirato da essi, lo esercita, è altissimo: tra
gli uomini utili al paese, accanto all’indovino, al medico e all’artigiano,
l’aedo viene posto fra coloro che, per la funzione esercitata, sono “cercati
fra gli uomini sulla terra infinita”. Dal suo punto di vista, inoltre,
l’abilità del poeta, che oltrepassava le reali capacità espressive dell’uomo
comune, doveva essere ritenuta un dono degli dei: se anche il poeta avesse
avuto dieci bocche e dieci lingue, una voce instancabile e un petto di bronzo,
senza l’aiuto degli dei, non avrebbe comunque mai potuto realizzare la sua
opera. Omero conclude infine la questione con un’affermazione ad effetto: pur
di perseverare nella poesia, val la pena di sopportare le peggiori sventure,
che gli dei impongono agli uomini proprio perché possano divenire materia di
canto per i futuri poeti;
- la
poesia è veritiera oppure inventa? Omero ritiene che la poesia
dica il vero e ne apprezza la piena aderenza alla realtà, così come apprezza lo
scultore che riesce a realizzare un oggetto che, pur essendo di un materiale
diverso dall’originale, assomiglia in tutto e per tutto al modello. Omero
tuttavia era perfettamente consapevole del fatto che la poesia richiede
libertà: quando Penelope chiede all’aedo di cantare nel modo convenuto, il
figlio intercede presso di lei affinché egli possa cantare seconda la sua
ispirazione.
Questi, in generale, sono i
problemi estetici più importanti affrontati da Omero; altri vengono appena
toccati, ma in molti casi sono analizzati con molta precisione ed acutezza,
come accade, ad esempio, quando considera la funzione e l’effetto determinato
dal “nuovo”: nell’Odissea si legge che, di tutti i canti, il più gradito e
maggiormente lodato è quello che risulta più nuovo alle orecchie
dell’ascoltatore.
Bibliografia di riferimento
Opere di Omero
Iliade, introduzione di
Giuseppe Zanetto ; traduzione di Giovanni Cerri ; commento di Antonietta
Gostoli. – Milano, Radici BUR, 2006;
Odissea, introduzione di Aldo Tagliaferri ; traduzione a
cura di Emilio Villa, Milano, Feltrinelli, 1994;
Manuali di storia della filosofia
N. Abbagnano, La filosofia antica : dalle
origini al Neoplatonismo, Milano, TEA, 1995;
G. Cambiano, Storia della filosofia antica, Roma/Bar,
Laterza, 2004
L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e
scientifico. L'antichità, il Medioevo, Milano, Garzanti, 1970;
G. Reale, D. Antiseri, Il pensiero occidentale
dalle origini ad oggi : corso di filosofia per i licei classici e scientifici, Brescia,
La scuola;
F. Restaino, Storia della filosofia. La
filosofia antica: India, Cina, Grecia, Torino, UTET, 1999
Monografie
V. Di Benedetto, Nel laboratorio di Omero,
Torino, Piccola biblioteca Einaudi, 1998;
B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia
antica : da Omero al 5. secolo, Roma, Laterza, 1995;
W. Jaeger, Paideia: la formazione dell'uomo
greco, introduzione di Giovanni Reale, traduzione di Luigi Emery e
Alessandro Setti, Milano, Bompiani, 2003
W. Tatarkiewicz, Storia dell'estetica a
cura di Giampiero Cavaglia, vol. I, Torino, Einaudi.
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