L'estetica di Platone
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La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello. (Platone, Filebo, 65 a)



A cura di Claudia Bianco


Platone

 

 

La Repubblica di Platone, la cui data di composizione rappresenta per molti studiosi un problema insolubile, a causa dell’insostenibilità della tesi secondo cui un’opera antica è databile in un determinato anno e, questo, non soltanto per l’ampiezza e la complessità del testo, ma anche perché nulla sappiamo circa le sue modalità di diffusione e circolazione, è probabilmente il più importante fra i dialoghi del filosofo greco. Per cercare di stabilire con una certa sicurezza un termine cronologico, sono state percorse più strade tra cui il confronto dei dialoghi, la ricerca all’interno di essi di caratteristiche stilistiche comuni e le testimonianze del dibattito intellettuale della fine del V secolo, pervenuteci dalle commedie di Aristofane (450-388 a.C. circa). Nonostante la difficoltà posta dalla «data drammatica»[1], si tende ad indicare, approssimativamente, come periodo di composizione, gli anni tra il 386 e il 370 a.C., e a considerare, conseguentemente, La Repubblica come uno dei dialoghi della maturità insieme a testi come il Gorgia, il Menone, il Cratilo, il Fedone, il Simposio e il Fedro.
La natura profonda di quest’opera, ossia la sua intenzione dominante e il suo senso principale, è stata oggetto di numerose interpretazioni. Vi sono tendenze che hanno definito la Repubblica come un testo meramente politico; altre, come quella di Leo Strauss e della sua scuola, l’hanno, invece, concepita come una vera e propria «utopia autoconfutatoria», tale da mostrare i terribili danni che verrebbero provocati dai tentativi di applicare l’idealismo filosofico in campo storico-politico; altre ancora hanno individuato i problemi di etica individuale (qual è il rapporto fra felicità e virtù), a loro volta connessi con una teoria dell’anima, come il nucleo vivo dell’opera.
Il conflitto delle interpretazioni è, quindi, sufficiente a far comprendere come non sia possibile proporre una lettura della Repubblica che si pretenda «oggettiva» o neutrale: essa si presenta, infatti, come un complesso affresco in cui la teoria dello Stato viene edificata a partire da una serie di tesi riguardanti la natura dell’anima umana, della conoscenza, della virtù, dell’educazione. Rimettendo in discussione i princìpi fondanti della cultura del suo tempo, Platone presenta un modello di come potrebbe strutturarsi una giusta convivenza sociale in una società guidata dalla filosofia. Ed è proprio la questione inerente a che cosa sia la giustizia a porre l’inizio del dialogo, il quale presenta, oltretutto, la caratteristica di disegnare una sorta di enciclopedia, di sistema filosofico complesso al fine di rispondere a tale interrogativo. Per rispondere alla domanda «che cos’è la giustizia?», Platone sviluppa, quindi, temi di metafisica, di psicologia filosofica e avanza una teoria della conoscenza all’interno di un quadro di filosofia politica.
Se focalizziamo la nostra attenzione sulla filosofia estetica che può essere colta tra le righe della Repubblica, notiamo che la  domanda della metafisica (che cosa esiste?), la domanda della psicologia (com’è fatto l’uomo?) e la domanda della filosofia della conoscenza (in che modo noi conosciamo le cose?) vengono utilizzate da Platone per sviluppare la tesi circa il ruolo degli imitatori all’interno di uno stato ideale. In effetti, a Platone non soltanto risulterebbe impossibile parlare di «artisti» e in particolare di «arte» come viene intesa da noi oggi, data la comparsa piuttosto recente del termine (soprattutto nella nozione filosofica, esso nasce verso la fine del ‘700 e l’inizio dell’800), ma non gli interessa nemmeno affrontare di per sé il problema di chi siano, che cosa facciano e in che modo debbano essere valutati gli imitatori se non all’interno di un contesto politico, in cui il singolo viene considerato non solo in quanto tale ma anche, e soprattutto, in quanto cittadino e membro di una comunità. Ciò è ulteriormente dimostrato dalla prima apparizione della critica negativa agli imitatori, la quale si verifica nel II-III libro della Repubblica quando viene affrontato il problema dell’educazione dei guardiani, ossia all’interno di un contesto politico dove lo scopo prefissato è la realizzazione di uno stato ideale.
Ma chi sono gli imitatori? Platone, proprio nel II libro, li definisce come coloro che  «si occupano di figure e di colori o di musica,  poeti con i loro valletti, rapsodi, attori, coreuti, impresari, fabbricanti di  ogni sorta di suppellettili oggetti per diversi usi, soprattutto per la moda femminile»[2]. Gli imitatori, così come vengono concepiti da Platone, sono, quindi, una specie particolare di artigiani; essi fanno conseguentemente parte di una  di quelle tre classi (artigiani, guerrieri, governanti-filosofi) di cui una città, proprio in quanto ideale, deve comporsi.. Il ruolo degli artigiani è fondamentale per il fatto che essi sono incaricati di produrre i beni di consumo di prima necessità ed è proprio in quanto «produttori» che essi esercitano una teknè. Teknè, termine greco avente come equivalente successivo latino ars, è un’attività che ha come scopo quello di introdurre dei cambiamenti all’interno del mondo naturale, ovvero produrre oggetti che non si trovano in natura. Dopo aver affrontato questo problema, il nostro autore segnala due presupposti di senso comune: in primo luogo il pittore, lo scultore e il poeta non producono alcun oggetto utilitario: in secondo luogo, propone di procedere cercando ciò che accomuna queste attività; il comune denominatore da lui individuato è che il pittore, lo scultore, il poeta non conoscono direttamente gli oggetti, ma li imitano, ossia producono copie di oggetti veri. Il problema centrale del II-III libro della Repubblica consiste, quindi, nel capire se una simile attività vada ammessa all’interno dello Stato ideale, e la risposta a cui giunge Platone va ricondotta all’influenza pedagogica esercitata dal prodotto degli imitatori. Il punto di partenza risulta, inevitabilmente, essere la formazione dei cittadini, e ciò avviene in quanto l’edificazione di una città non può prescindere dall’individuazione delle condizioni che permettono di attingere una retta conoscenza e un retto sapere. Di qui la necessità di prendere in considerazione il problema dell’educazione (paideia) dei cittadini, ossia il modo in cui ciascun individuo e ciascun gruppo di individui viene avviato verso il perfetto svolgimento del proprio ruolo all’interno della società. Platone, per bocca di Socrate, arriva quindi a dire che  sarà necessario affidare ad un individuo «un compito solo, quello per cui aveva naturale disposizione e che poteva svolgere bene, attendendovi libero da altre preoccupazioni e svolgendolo per tutta la vita senza lasciarsi sfuggire le occasioni opportune»[3].
Come viene ribadito più volte all’interno della Repubblica, colui che dovrà difendere la città ideale sarà il guardiano, ossia un individuo che dovrà essere «per natura filosofo, animoso, veloce e vigoroso»[4], e per fare in modo che diventi tale sarà necessario educarlo, come detto precedentemente. «Ma come si alleveranno e si educheranno questi nostri uomini? E questo nostro esame non potrà tornarci di qualche utilità per scorgere la meta di tutte le nostre indagini, in che modo nascono in uno stato la giustizia e l’ingiustizia»[5]. Questo passo permette di fare due considerazioni: innanzitutto, è una delle testimonianze testuali in cui viene affermato il fatto, già esposto sopra, che le teorie enunciate nella Repubblica (teorie metafisiche, psicologiche e gnoseologiche) sono inserite all’interno di un quadro politico, in vista di finalità politiche; in secondo luogo, mette in luce  che è proprio a partire dalla necessità di una buona educazione che Platone pone l’inizio della questione circa l’utilità o nocività dell’opera degli imitatori.
Tramite la figura di Socrate, Platone sostiene sia l’efficacia prodotta dall’opera degli imitatori, in quanto legata alla loro propria capacità di persuasione, sia la dannosità di cui essi sono portatori. Le nutrici che raccontano le storie di Omero ai fanciulli hanno un ruolo pedagogico notevole, ma poiché «il giovane non è in grado di giudicare ciò che è allegoria e ciò che non lo è»[6] e poiché «tutte le impressioni che riceve a tale età divengono in genere incancellabili e immutabili»[7], ecco che diventa «assai importante che le prime cose udite dai giovani siano favole narrate nel miglior modo possibile con l’intento di incitare alla virtù»[8].  Socrate dichiara se stesso e il suo interlocutore Adimanto «fondatori di uno stato»[9], ed è proprio ai fondatori che «s’addice conoscere i modelli ai quali si debbono adeguare i poeti nella narrazione delle favole loro; e se i poeti non vi si attengono nella loro invenzione, non devono lasciarli fare»[10]. Raccontare i vizi degli Dei o le debolezze degli eroi può avere un effetto negativo sull’educazione dei guerrieri: infatti, prima di tutto «c’è pericolo che facciano sorgere nei nostri giovani grande facilità a commettere male»[11], data la tendenza a giustificare le proprie colpe facendo appello alla convinzione che anche gli dèi le commettono; c’è  poi il rischio che i guerrieri diventino timorosi ed emotivi. Tutto ciò vale anche per le rappresentazioni teatrali e per le «armonie languide»[12] in virtù del loro considerevole condizionamento. Dunque deve essere esercitato un controllo di tipo censorio rispetto all’attività degli imitatori; essi possono essere, infatti, accettati soltanto nella misura in cui non disturbano il processo di educazione ideale soprattutto delle classi guerriere e dei governatori, ossia di quelle classi che hanno il fondamentale compito di difendere e legiferare.
Apparentemente, sembra che Platone abbia detto tutto ciò che poteva dire circa il ruolo delle pseudo-arti dal punto di vista filosofico-politico, ma in realtà nel X libro della Repubblica avanza la tesi secondo cui nello Stato ideale gli imitatori devono essere espulsi anche nel caso di un possibile controllo censorio su ciò che essi trasmettono ai cittadini. La condanna delle arti imitative, in particolare della pittura e della poesia, svolta nel X libro, non si fonda su ragioni di tipo politico-pedagogico come nel II-III libro, ma viene valutata sulla base di argomenti di metafisica, psicologia e teoria della conoscenza. Se nel II libro la poesia viene condannata in relazione all’educazione dei guerrieri o custodi della città ideale, in quanto contenente raffigurazioni errate e moralmente fuorvianti, nel X libro essa, insieme alla pittura, viene segnata da una profonda svalutazione metafisico-gnoseologica. In questo testo Platone comincia con l’interrogarsi sul senso dell’imitazione (mimesis), e lo fa a partire da un celebre esempio in cui prende in considerazione un oggetto banale e ordinario, un «letto». Se ci chiediamo quanti tipi di letti possano esistere, siamo condotti a riconoscere che è possibile parlare di tre tipi diversi: l’idea di letto, che deve essere considerata come ciò che è più propriamente il letto; il letto che viene fabbricato da un artigiano sul modello dell’idea; il letto dipinto da un pittore che si dedica alla rappresentazione della realtà sensibile. Questo accade per il fatto che, come viene ampiamente spiegato dalla teoria delle idee, agli oggetti fisici, cioè agli enti sensibili esistenti nella realtà, corrispondono delle entità ideali nell’Iperuranio, cioè «oggetti» definiti dalle loro caratteristiche essenziali. Platone ipotizza che queste entità ideali sono state prodotte da un Demiurgo, cioè un Dio, un’entità divina che le produce così come gli artigiani producono gli oggetti fisici che vengono da noi utilizzati. Riprendendo la tripartizione dei «letti», secondo Platone, ad essi corrispondono tre artefici: l’idea del letto è creata da un dio che crea le idee secondo natura (Demiurgo); il letto «fabbricato» è prodotto da un artefice (artigiano) che rivolge il proprio sguardo all’idea soprasensibile; quello «dipinto» è creato da un pittore che non si rivolge all’idea, bensì al letto sensibile fabbricato dall’artigiano, e quindi non può essere definito propriamente un artefice bensì soltanto un «imitatore» (mimetes).
Il pittore non imita dunque la realtà e la verità delle idee, ma l’apparenza delle cose sensibili, che a loro volta non sono che imitazioni delle idee: la sua è perciò «copia di una copia», imitazione di un’imitazione,  ed per questo che si può affermare che egli produce «apparenze, non cose reali»[13] e che può essere definito «imitatore dell’oggetto di cui gli altri sono artigiani»[14]. In questo senso, in quanto lontano dall’idea, il pittore sarà il «terzo a partire dal re e dalla verità»[15], e lo stesso avverrà per il poeta. Pittori e poeti distano, secondo Platone, tre volte dalla vera realtà e le loro produzioni danno vita a pure parvenze e non a enti reali; per questo motivo, essi non sono altro che creatori di eidola, ossia di «immagini ingannevoli» perché non conformi all’idea. Quindi, se volessimo fare una sorta di equivalenza, potremmo dire che l’imitatore sta all’artigiano esattamente come l’artigiano sta all’imitatore e che, conseguentemente, il prodotto dell’imitatore sta al prodotto dell’artigiano come il prodotto dell’artigiano sta a quello del Demiurgo. Un letto dipinto o un letto descritto da un poeta somigliano semplicemente al letto fisico, non a quello ideale; infatti, in questo caso il rapporto di imitazione è radicalmente difettivo. Dal punto di vista della teoria della metafisica, la copia del letto che viene prodotta da un pittore non solo non è «vera» ma corrisponde a un «non-letto»; in sostanza, quest’imitazione è talmente imperfetta da fare di questo un «non-ente», una cosa inconsistente. Platone, per precisare meglio la sua argomentazione, dimostra che quando siamo di fronte a un letto dipinto, noi non vediamo le stesse cose che potremmo vedere dinanzi a un letto reale: cambia la forma, non è possibile toccarlo, non è possibile utilizzarlo. Ciò significa che le uniche proprietà che vengono ad essere condivise tra la copia del prodotto di imitazione e l’oggetto che viene imitato sono le «proprietà sensibili», ossia il mero aspetto sensibile: il colore, la forma e via discorrendo. Per Platone «l’arredo metafisico» dell’universo è quindi dato dalle entità ideali, dalle entità logico-matematiche, dagli «eidola». Il letto dipinto e qualsiasi altro prodotto dell’imitatore ricade nella classe delle entità metafisiche non reali, non consistenti; entità  che possono, però, essere anche naturali, non prodotte  dall’essere umano e conseguenti di per sé stesse in natura (riflessi, ombre…).
Riassumendo quanto finora detto, possiamo affermare che nel X libro è presente un doppio livello, ossia uno ontologico ed uno gnoseologico. Il livello ontologico è quello che è stato appena trattato, ossia quello relativo alle  cose «quali sono»;  in sostanza, esso prevede l’esistenza di tre entità: ideali, le cose che cadono sotto i nostri sensi (oggetti fisici) e le immagini. Per quanto riguarda, invece, il piano gnoseologico bisogna considerare i tre tipi di «soggetti» (artefici) capaci di conoscere i tre tipi di entità. Sia il Demiurgo sia gli artigiani possiedono un certo tipo di sapere: quello del Demiurgo è un sapere perfetto, in quanto egli è la causa stessa e origine delle idee; il sapere dell’artigiano, pur essendo un sapere imperfetto, è comunque classificabile come sapere; chi produce immagini, ossia copia gli oggetti fisici, non possiede una conoscenza degna di questo nome. Da questa premessa si sviluppano, poi, due tesi: innanzitutto le immagini non sono oggetti genuini; in secondo luogo, sia i soggetti che producono sia gli oggetti che vengono prodotti ingannano necessariamente e, questo, non poiché i «produttori di immagini» sono animati da cattiva volontà, ma è in virtù dell’«ontologia» degli oggetti da essi realizzati che ciò avviene. Il motivo di ciò va ricercato all’interno della teoria della conoscenza e della psicologia esposte sia nella Repubblica sia in altri dialoghi; il punto centrale risiede nel fatto che l’attività dell’imitare si basa unicamente sulla capacità di accedere mediante i sensi alle immagini presenti in natura. Nella Repubblica l’«argomento gnoseologico» su cui viene sviluppata la condanna alle arti imitative è esposto alla fine del VI libro, dove Platone inferisce la cosiddetta «teoria della linea», che a sua volta introduce il «mito della caverna», ossia la condizione dell’uomo raccontata attraverso il mùthos. Socrate chiede al suo interlocutore di paragonare la natura umana a ciò che avviene «dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna»[16]; gli chiede inoltre di «vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover stare fermi e da poter vedere soltanto avanti, incapaci, a causa della catena di volgere attorno il capo»[17]. Dietro questi uomini, che hanno lo sguardo rivolto alla parete della caverna, arde un fuoco, e tra essi e il fuoco scorre un muro, dietro il quale passano altri uomini che «portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figura di pietra e legno in qualunque modo lavorate»[18]. Essendo legati e costretti a guardare verso la parete, l’unica forma di conoscenza a loro possibile è quella che ha per oggetto immagini sbiadite, ossia «le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna»[19]. Se però fosse loro consentito liberarsi, alzarsi e uscire dalla caverna potrebbero vedere dapprima gli oggetti che proiettano le ombre al di là del «muricciolo» e poi, via via, la luce del sole, gli oggetti da esso resi visibili ed infine il sole stesso. Il mito platonico qui riportato può essere definito come una vera e propria metafora della vita umana e, in particolare, come l’immagine dell’ascesa dell’anima al mondo intelligibile. Infatti Platone imposta la sua teoria soffermandosi sull’esistenza di una piena corrispondenza tra grado e perfezione di essere degli oggetti conoscibili e grado o perfezione della conoscenza che li riguarda: è, in altri termini, la corrispondenza tra ontologia e gnoseologia. Platone innanzitutto distingue due grandi classi: gli oggetti sensibili e gli oggetti afferrabili soltanto con l’intelletto. Il primo dominio è suddivisibile in altre due sezioni: quella delle ombre o delle immagini generate dalla proiezioni su superfici riflettenti di oggetti sensibili (acqua, specchi…); e quella degli oggetti sensibili veri e propri (pietre, piante, animali…). Seguendo la corrispondenza gnoseologica, a questi due ambiti corrispondono due gradi inferiori di conoscenza, ossia rispettivamente, l’eikasia (percezione delle immagini) e la pistis (la credenza, che coglie gli oggetti che a tali immagini danno luogo).  Sempre sul piano gnoseologico, questi due tipi di conoscenza costituiscono il dominio dell’opinione (doxa), la quale è instabile e fluttuante come i suoi oggetti. La seconda classe, ossia quella degli oggetti che si possono cogliere solo attraverso l’uso dell’intelletto, è anch’essa suddivisibile in due sezioni: le entità matematiche e le idee. Di nuovo, sul piano gnoseologico, le prime vengono colte dalla dianoia (conoscenza che procede mediante ragionamenti), le seconde dalle noesis (conoscenza intellettuale vera e propria delle idee). In questo caso, diversamente dalle cose sensibili, i due gradi della conoscenza degli oggetti intelligibili costituiscono l’episteme, ossia la conoscenza, il cui accesso è reso possibile dalla filosofia. Il punto essenziale di questa argomentazione è che se delle entità ideali e degli oggetti fisici possiamo avere un certo tipo di conoscenza, per quanto concerne le immagini si può asserire che non possiamo averne alcuna. La ragione di ciò va ricercata nelle concezione platonica dell’aistesis (sensazione) che Platone distingue dalla doxa (opinione); Platone dimostra la veridicità della sua tesi confutando quella secondo cui la conoscenza consiste nel percepire le cose come sono con le loro caratteristiche. Egli, infatti, sostiene che se avere conoscenza significasse avere semplice «percezione» (aistesis), allora una medesima cosa apparirebbe diversa a seconda dal soggetto conoscente o a seconda delle possibili alterazioni degli organi di senso. Avere sensazione non significa né conoscere in modo perfetto né conoscere male; essa non è né giusta né sbagliata e, per tutti questi motivi, non può essere considerata conoscenza.
Cosa ben diversa è, per Platone, la formulazione di giudizi. Innanzitutto, per il filosofo greco, ci sono delle caratteristiche del mondo che sono proprie degli oggetti fisici, e tra queste caratteristiche rientra la somiglianza. Essere simile è qualcosa che noi non percepiamo mai, poiché la somiglianza di per sé stessa non cade sotto i nostri sensi. Sicché noi diciamo che due cose sono simili anche quando esse sono visibilmente diverse; ciò è possibile attraverso l’utilizzo di un’ulteriore «facoltà», il giudizio. Il giudicare, secondo Platone, è un criterio minimo di conoscenza e dove vi è traccia di giudizio non è possibile parlare di conoscenza bensì di opinione. Nel Teeteto, Platone prosegue elencando due ulteriori caratteristiche dell’opinione: in primo luogo, le opinioni esprimono qualcosa che può essere suscettibile di verità e falsità ma, per poter essere considerate conoscenza, devono poter esprimere unicamente qualcosa di vero; in secondo luogo, un’opinione deve essere anche giustificata. Tale concezione è inoltre rintracciabile nello Ione, in cui la condanna delle arti imitative trova il suo fondamento proprio; in questo dialogo, Platone, nel confrontarsi con la poesia, si misura con il prestigio che la tradizione poetica aveva acquisito nella società a lui contemporanea e con il primato ad essa attribuito dalla sofistica. Protagora di Abdera, Gorgia da Lentini, Prodico di Ceo o Ippia di Elide, attivi già prima della nascita di Platone, si presentavano in veste di educatori e di maestri di sapienza, quest’ultima attinta dalla tradizione culturale di Omero. Al mondo della poesia e della tradizione, alla cultura orale formatasi grazie all’insegnamento e alla recitazione dei rapsodi, Platone oppone invece una nuova forma di sapere, la dialettica, che è la vera e propria essenza della ricerca filosofica. La dialettica impone l’obiettivo di condurre chi vi partecipa al di là del mondo sensibile in direzione del mondo delle idee, attraverso due momenti: innanzitutto attraverso la riconduzione del molteplice sensibile all’unità dell’idea (synagoghe); poi, attraverso la divisione dell’idea stessa nelle sue articolazioni interne (diairesis). Secondo Platone, la forma letteraria che più si addice alla filosofia è quella dialogica, in quanto essa rispecchia nel miglior modo possibile tale procedimento. Come è stato detto precedentemente, la concezione dell’opinione trova all’interno dello Ione una ulteriore legittimazione. Socrate, infatti, interroga il rapsodo (Ione) circa il fondamento delle sue conoscenze, ed egli si appella all’ispirazione divina, all’estasi, all’invasamento. Da questa risposta, Socrate elabora la sua condanna, sostenendo quanto segue:

«tutti i bravi poeti epici non per capacità artistica ma in quanto ispirati e posseduti compongono tutti questi bei poemi, e la cosa vale anche per i bravi poeti melici; come i coribanti danzano solo quando sono fuori di senno, così anche i poeti melici compongono queste belle poesie solo quando sono fuori di senno. Ma una volta che siano entrati nella sfera dell'armonia e del ritmo, cadono in preda a furore bacchico e a invasamento, così come le baccanti che attingono miele e latte dai fiumi quando sono possedute, ma quando sono in sé non lo fanno; e l’anima dei poeti melici si comporta allo stesso modo,come appunto essi dicono. Infatti i poeti certo ci raccontano che, attingendo i loro versi da fontane di miele, da giardini e dalle valli boscose delle Muse, li portano a noi come le api, volando anche loro come esse, e dicono la verità, poiché il poeta è un essere etereo, alato e sacro e non è capace di comporre prima di essere ispirato e fuori di sé e prima che non vi sia più in lui il senno».[20]

Il concetto di
«ispirazione» poetica proveniente da dio ritorna nel Fedro, in cui Platone tenta di delineare un quadro sistematico delle forme di divina ispirazione, fra cui rientra anche la poesia. Si possono dunque trovare, all’interno di questo dialogo, quattro forme di «mania che proviene dagli dèi»[21], ossia quella profetica, quella rituale-telestica, quella erotica e quella poetica. La poetica, in particolare, viene descritta come un tipo di  «invasamento e di mania proveniente dalle Muse. Questa mania, dopo essersi impossessata di un' anima sensibile e pura, la risveglia suscitando in essa ispirazione bacchica per i canti e per gli altri generi di poesia e, attraverso la celebrazione di innumerevoli imprese degli antichi, educa i posteri. Invece, chiunque si presenti alle porte della poesia senza essere ispirato dalla mania delle Muse, convinto che gli basterà la tecnica per essere un bravo poeta, sarà un poeta mancato, perché la poesia di chi é in sé viene oscurata da quella di coloro che sono in preda a mania»[22].
Finora, ancorandoci a diverse fonti, abbiamo fatto prevalere la figura di un Platone che condanna e rifiuta nettamente e senza riserve l’opera degli imitatori, non cogliendo le proposte alternative alle forme di mimesis. All’interno del Sofista,  Platone presenta la distinzione tra una mimesis icastica, che produce un’immagine fedele al proprio modello, e una mimesis dell’apparenza, che invece produce un tipo di immagine che si allontana al modello di riferimento. In questo caso, Platone ammette l’imitazione, ma solo nel momento in cui essa rimanga fedele al primato dell’idea. In un altro dialogo dell’ultima fase, il Timeo, Platone ammette un tipo di imitazione che rispetta il primato del modello intelligibile. In quest’opera, Platone si occupa della creazione dell’uomo da parte di un Demiurgo, il quale dà vita al mondo sensibile tenendo lo sguardo rivolto al mondo delle idee in modo tale da creare il cosmo a immagine fedele dell’archetipo ideale. In questo caso, l’imitazione può assumere un duplice ruolo a seconda che rispetti o meno il primato dell’idea: da un lato, l’imitazione dà vita a un’immagine fedele ed è testimonianza del rapporto di partecipazione che lega il mondo delle idee a quello sensibile; dall’altro lato, l’imitazione produce un’immagine ingannevole che tralascia il riferimento all’idea, finendo per essere copia di una copia.
Nonostante la presenza di alcuni passi in cui  la condanna appare meno «aggressiva», in generale l’arte risulta essere la vittima,o meglio, il nemico contro cui Platone combatte al fine di estirpare dalla società tutti i possibili mali, proprio come, per riprendere la metafora della medicina più volta presente all’interno della Repubblica, un medico cerca di eliminare il morbo dal corpo malsano; l’obiettivo di Platone è quindi quello di realizzare uno Stato ideale in cui ogni singola parte segua l’ordine della filosofia e in cui gli individui vengano spogliati dal velo oscuro dell’illusione creato dalle arti imitative.



[1] M. Vegetti, Guida alla lettura della Repubblica di Platone,  Laterza, Roma–Bari 2004, p. 5.

[2] Platone, Repubblica, 373 c; tr. it. a cura di M. Vegetti, Laterza, Roma–Bari 2005, p. 81.

[3] Ivi, p. 82.

[4] Ivi, p. 84.

[5] Ivi, pp. 84-85.

[6] Ivi, p. 87.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10]Ibidem.

[11] Ivi, p. 102.

[12] Ivi, p. 110.

[13] Ivi, p. 319.

[14] Ivi, p. 318.

[15] Ibidem.

[16] Ivi, p. 229.

[17] Ibidem.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] Platone, Ione, 533 d ss.; tr. it. in Platone. Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000, a cura di G. Reale, p. 1027.

[21] Platone, Fedro, 245 b; tr. it. in Platone. Tutti gli scritti, cit., p. 554.

[22] Ibidem.






La filosofia e i suoi eroi