ARISTOTELE
ETICA A NICOMACO

LIBRO I

 

 

1. [Il bene è lo scopo].

[1094a] Si ammette generalmente che ogni tecnica praticata metodicamente, e, ugualmente, ogni azione realizzata in base a una scelta, mirino ad un bene: perciò a ragione si è affermato che il bene è "ciò cui ogni cosa tende"1. Ma tra i fini c’è un’evidente differenza: alcuni infatti sono attività, altri sono opere che da esse derivano. [5] Quando ci sono dei fini al di là delle azioni, le opere sono per natura di maggior valore delle attività. E poiché molte sono le azioni, le arti e le scienze, molti sono anche i fini: infatti, mentre della medicina il fine è la salute, dell’arte di costruire navi il fine è la nave, della strategia la vittoria, dell’economia la ricchezza. [10] Tutte le attività di questo tipo sono subordinate ad un’unica, determinata capacità: come la fabbricazione delle briglie e di tutti gli altri strumenti che servono per i cavalli è subordinata all’equitazione, e quest’ultima e ogni azione militare sono subordinate alla strategia, così allo stesso modo, altre attività sono subordinate ad attività diverse. In tutte, però, i fini delle attività architettoniche [15] sono da anteporsi a quelli delle subordinate: i beni di queste ultime infatti sono perseguiti in vista di quei primi. E non c’è alcuna differenza se i fini delle azioni sono le attività in sé, oppure qualche altra cosa al di là di esse, come nel caso delle scienze suddette.

 

2. [Il bene per l’uomo è l’oggetto della politica].

Orbene, se vi è un fine delle azioni da noi compiute che vogliamo per se stesso, mentre vogliamo tutti gli altri in funzione di quello, e se noi non [20] scegliamo ogni cosa in vista di un’altra (così infatti si procederebbe all’infinito, cosicché la nostra tensione resterebbe priva di contenuto e di utilità), è evidente che questo fine deve essere il bene, anzi il bene supremo. E non è forse vero che anche per la vita la conoscenza del bene ha un grande peso, e che noi, se, come arcieri, abbiamo un bersaglio, siamo meglio in grado di raggiungere ciò che dobbiamo? Se è [25] così, bisogna cercare di determinare, almeno in abbozzo, che cosa mai esso sia e di quale delle scienze o delle capacità sia l’oggetto. Si ammetterà che appartiene alla scienza più importante, cioè a quella che è architettonica in massimo grado. Tale è, manifestamente, la politica. Infatti, è questa che stabilisce quali scienze è necessario coltivare nelle città, [1094b] e quali ciascuna classe di cittadini deve apprendere, e fino a che punto; e vediamo che anche le più apprezzate capacità, come, per esempio, la strategia, l’economia, la retorica, sono subordinate ad essa. E poiché è essa che si serve di tutte le altre scienze e che stabilisce, [5] inoltre, per legge che cosa si deve fare, e da quali azioni ci si deve astenere, il suo fine abbraccerà i fini delle altre, cosicché sarà questo il bene per l’uomo. Infatti, se anche il bene è il medesimo per il singolo e per la città, è manifestamente qualcosa di più grande e di più perfetto perseguire e salvaguardare quello della città: infatti, ci si può, sì, contentare anche del bene di un solo individuo, [10] ma è più bello e più divino il bene di un popolo, cioè di intere città. La nostra ricerca mira appunto a questo, dal momento che è una ricerca "politica".

 

3. [Limiti metodologici della scienza politica].

La trattazione sarà adeguata, se avrà tutta la chiarezza compatibile con la materia che ne è l’oggetto: non bisogna infatti ricercare la medesima precisione in tutte le opere di pensiero, così come non si deve ricercarla in tutte le opere manuali. Il moralmente bello e il giusto, [15] su cui verte la politica, presentano tante differenze e fluttuazioni, che è diffusa l’opinione che essi esistano solo per convenzione, e non per natura. Una tale fluttuazione hanno anche i beni, per il fatto che per molta gente essi vengono ad essere causa di danno: infatti, è già capitato che alcuni siano stati rovinati dalla ricchezza, altri dal coraggio. Bisogna contentarsi, quando si parla di tali argomenti [20] con tali premesse, di mostrare la verità in maniera grossolana e approssimativa, e, quando si parla di cose solo per lo più costanti e si parte da premesse dello stesso genere, di trarne conclusioni dello stesso tipo2. Allo stesso modo, quindi, è necessario che sia accolto ciascuno dei concetti qui espressi: è proprio dell’uomo colto, infatti, richiedere in ciascun campo tanta precisione [25] quanta ne permette la natura dell’oggetto, giacché è manifesto che sarebbe pressappoco la stessa cosa accettare che un matematico faccia dei ragionamenti solo probabili e richiedere dimostrazioni da un oratore. Ciascuno giudica bene ciò che conosce, e solo di questo è buon giudice. [1095a] Dunque, in ciascun campo giudica adeguatamente chi ha una preparazione specifica, ma è buon giudice in generale chi ha una preparazione globale. Perciò il giovane non è uditore adatto di una trattazione politica, giacché egli non ha esperienza delle azioni concretamente vissute, mentre è da queste che partono ed è su queste che vertono i presenti ragionamenti. Inoltre, essendo incline alle passioni, egli [5] ascolterà invano, cioè senza trarne giovamento, poiché il fine qui non è la conoscenza ma l’azione. Non fa alcuna differenza se egli è giovane per età o simile ad un giovane per carattere: la insufficienza non deriva dal tempo, ma dal vivere assecondando la passione e dal lasciarsi trascinare da qualsiasi tipo di attrazione. Per uomini simili la conoscenza risulta inutile, come per gli incontinenti; [10] per coloro invece che configurano razionalmente i propri desideri e le proprie azioni, la conoscenza di queste cose potrà essere ricca di vantaggi. Si consideri come introduzione ciò che abbiamo detto sull’uditore, sul come deve essere accolto ciò che diremo e su ciò che ci proponiamo di dire.

 

4. [Il fine della politica è la felicità].

Riprendendo il discorso, poiché ogni conoscenza ed ogni scelta [15] aspirano ad un bene, diciamo ora che cos’è, secondo noi, ciò cui tende la politica, cioè qual è il più alto di tutti i beni raggiungibili mediante l’azione. Orbene, quanto al nome la maggioranza degli uomini è pressoché d’accordo: sia la massa sia le persone distinte lo chiamano "felicità", e ritengono che "viver bene" e "riuscire" esprimano la stessa cosa [20] che "essere felici". Ma su che cosa sia la felicità sono in disaccordo, e la massa non la definisce allo stesso modo dei sapienti. Infatti, alcuni pensano che sia qualcosa di visibile e appariscente, come piacere o ricchezza o onore, altri altra cosa; anzi spesso è il medesimo uomo che l’intende diversamente: quando è ammalato, infatti, l’intende come salute; come ricchezza quando si trova povero. [25] Ma coloro che sono consapevoli della propria ignoranza ammirano quelli che fanno discorsi elevati ed a loro superiori. Alcuni3, poi, ritengono che oltre a questi molteplici beni ne esista un altro, il Bene in sé, che è pure la causa per cui tutti questi beni sono tali. Orbene, esaminare tutte le opinioni sarebbe, certo, piuttosto inutile; sarà sufficiente esaminare [30] quelle prevalenti o quelle che comunemente si ritiene che presentino qualche particolare aporia4. E non ci sfugga che c’è differenza tra i ragionamenti che partono dai principi e quelli che ad essi conducono. In effetti, anche Platone5 faceva bene a porre questa questione e a cercar di capire se la strada parte dai principi o ad essi conduce, come nello [1095b] stadio se il percorso va dai giudici di gara fino alla meta, oppure viceversa. Bisogna infatti cominciare da ciò che è noto. Ma "noto" si dice in due sensi: ciò che è noto a noi e ciò che è noto in senso assoluto. Orbene, senza dubbio, noi dobbiamo cominciare da ciò che è noto a noi. Perciò occorre che sia stato rettamente educato, mediante adeguate abitudini, colui [5] che intende ascoltare con profitto lezioni sul moralmente bello e sul giusto, cioè, in breve, sull’oggetto della politica. Infatti, il punto di partenza è il dato di fatto, e, se questo è messo in luce con sufficiente chiarezza, non ci sarà alcun bisogno del perché: chi è moralmente educato possiede i principi o li può afferrare facilmente. Ma chi non li possiede, né può afferrarli, ascolti le parole di Esiodo: [10]

"L’uomo assolutamente migliore è colui che tutto pensa da sé;

buono è pure quello che presta fede a chi ben lo consiglia:

ma chi non è in grado di pensare da sé, né ciò che sente da un altro

sa accogliere nel suo spirito, è un buon a nulla"6 .

 

5. [I tre principali tipi di vita].

Ma riprendiamo dal punto in cui abbiamo iniziato la digressione. Infatti, [15] si pensa, non a torto, che gli uomini ricavino dal loro modo di vivere la loro concezione del bene e della felicità. Gli uomini della massa, i più rozzi, l’identificano con il piacere e per questo amano la vita di godimento. Sono tre, infatti, i principali tipi di vita: quello or ora menzionato, la vita politica, e, terzo, la vita contemplativa. Orbene, gli uomini della massa [20] si rivelano veri e propri schiavi, scegliendosi una vita da bestie, e pur capita che se ne parli per il fatto che molti individui altolocati hanno le stesse passioni di Sardanapalo7. Le persone distinte e predisposte all’azione pongono il bene nell’onore: questo infatti, più o meno, è il fine della vita politica. Ma questo è evidentemente qualcosa di troppo superficiale rispetto a ciò che stiamo cercando: si riconosce infatti [25] che esso stia più in chi onora che in chi è onorato, mentre il bene, lo presentiamo, è qualcosa di intimamente proprio e di inalienabile. Inoltre, sembra che gli uomini aspirino all’onore per poter credere di essere essi stessi buoni: di fatto, cercano di essere onorati da uomini di senno, e da uomini da cui sono conosciuti, e in grazia della virtù: è dunque evidente che, almeno per loro, [30] la virtù è superiore; e si farebbe presto a pensare che è piuttosto la virtù il fine della vita politica. Ma anch’essa è troppo imperfetta: si ammette, infatti, che sia possibile che chi possiede la virtù si trovi in stato di sonno o di inattività per tutta la vita, e che per giunta patisca [1096a] i più grandi mali e le più grandi disgrazie: ma nessuno chiamerebbe felice uno che vivesse in questo modo, se non per difendere, ad ogni costo la propria tesi. E su questo argomento basta: se ne è parlato abbastanza nelle trattazioni correnti8. [5] Il terzo tipo di vita è quello contemplativo, sul quale svolgeremo la nostra indagine in seguito. La vita dedicata alla ricerca del guadagno, poi, è di un genere contro natura, ed è chiaro che non è la ricchezza il bene da noi cercato: essa, infatti, ha valore solo in quanto "utile", cioè in funzione di altro.

Perciò sarà meglio considerare come beni quelli menzionati prima, giacché sono amati per se stessi. Ma è manifesto che non sono fini ultimi neppure quelli: per la verità, molte argomentazioni [10] sono già state diffuse contro di loro. Lasciamo perdere, dunque, questi fini.

 

6. [Critica della concezione platonica del bene].

Forse è meglio fare oggetto d’indagine il bene universale e discutere a fondo quale significato abbia, anche se tale ricerca è sgradevole per il fatto che sono amici nostri gli uomini che hanno introdotto la dottrina delle Idee. Ma si può certamente ritenere più opportuno, anzi doveroso, almeno per la salvaguardia della [15] verità, lasciar perdere i sentimenti personali, soprattutto quando si è filosofi: infatti, pur essendoci cari entrambi, è sacro dovere onorare di più la verità. (1) Coloro che hanno introdotto questa dottrina non ponevano Idee nelle cose in cui ponevano il rapporto di successione, ragion per cui non costruirono un’Idea neppure dei numeri. Ma il termine "bene" si usa sia [20] nel senso della sostanza, sia in quello della qualità, sia in quello della relazione, e ciò che è per sé, cioè la sostanza, è per natura anteriore a ciò che è relativo (infatti questo è ritenuto accessorio e accidentale rispetto all’essere per sé); cosicché non ci potrà essere alcuna "Idea" comune a queste categorie. (2) Inoltre, poiché "bene" ha tanti significati quanti ne ha "essere"9 (infatti, si predica nella categoria della sostanza, come, per esempio, Dio [25] e intelletto; in quella della qualità: le virtù; in quella della quantità: la misura; in quella della relazione: l’utile; in quella del tempo: il momento opportuno; in quella del luogo: l’ambiente adatto; e così via), è chiaro che non può essere un che di comune, universale ed uno: non sarebbe, infatti, predicabile in tutte le categorie, ma solo in una. (3) Inoltre, poiché di ciò che è [30] conforme ad una sola Idea una sola è anche la scienza, anche di tutti i beni vi dovrebbe essere una scienza sola; ora, invece, anche delle cose che sono sussumibili sotto una sola categoria vi sono molte scienze: per esempio, scienza del momento opportuno in guerra è la strategia, nella malattia è la medicina, e scienza della giusta misura in fatto di alimentazione è la medicina, in fatto di esercizi fisici è la ginnastica. (4) Si potrebbe porre la questione di che cosa [35] mai essi vogliano dire con "cosa in sé", dal momento che in "uomo in sé" [1096b] e in "uomo" uno e identico è il significato, quello di uomo. Infatti, in quanto entrambe le espressioni indicano l’uomo, non c’è alcuna differenza tra di loro: se è così, non ci sarà differenza neppure nel caso del bene. (5) Ma neppure per il fatto di essere eterno il "Bene in sé" sarà certo più bene, se è vero che neppure il bianco che dura a lungo è più bianco di quello che dura [5] un sol giorno. In modo più persuasivo sembrano esprimersi sul bene i Pitagorici, che pongono nella lista dei beni l’uno10: per conseguenza, si ritiene che siano loro quelli che segue anche Speusippo11. Ma a questi argomenti si dedicherà un’altra trattazione12. (6) Un’obiezione, poi, alle cose dette sorge dal fatto che i ragionamenti espressi dai Platonici non riguardano ogni bene, [10] bensì i beni di una sola specie, quelli che sono perseguiti e amati per se stessi, mentre quelli che li producono o in qualche modo li custodiscono ovvero li preservano dai contrari, sono chiamati beni a causa di questi, e in un senso secondario. È dunque chiaro che si può parlare di beni in due sensi diversi: da una parte i beni per se stessi, dall’altra quelli che sono beni sul fondamento dei precedenti. Dopo aver distinto, [15] dunque, dai beni strumentali i beni per sé, cerchiamo di scoprire se questi ultimi vengono chiamati beni perché sono conformi ad una sola Idea. Con quali determinazioni bisognerà porre i beni per sé? Forse sono tali tutte quelle cose che sono perseguite anche da sole, come l’aver senno e il vedere, e certi piaceri e certi onori? Questi infatti anche se li perseguiamo in vista di qualcos’altro, tuttavia si potrebbero porre tra i beni per sé. Oppure non [20] vi possiamo porre nient’altro se non l’Idea? In tal caso la Forma sarà vuota. Ma se invece anche queste cose appartengono ai beni in sé, la definizione di bene dovrà rivelarsi identica in tutte loro, come la definizione di bianco nella neve e nella biacca. Eppure dell’onore, della saggezza e del piacere le definizioni sono diverse e differenti proprio in quanto sono beni. [25] Dunque il bene non sarà qualcosa di comune in conformità con una sola Idea. Ma allora in che senso si predica? Infatti non sembra appartenere alle cose che, per caso, almeno, sono omonime13. Ma forse i beni hanno lo stesso nome in quanto derivano da una sola realtà o perché tendono ad un unico bene, o piuttosto per analogia? Come infatti la vista è bene nel corpo, così l’intelletto è bene nell’anima, e un’altra cosa è bene in un’altra realtà. [30] Ma forse è meglio lasciar da parte questo problema per ora, giacché il suo esame rigoroso è più appropriato ad un’altra parte della filosofia14. Lo stesso vale anche per l’Idea del bene: se pure infatti il bene predicato in comune fosse una realtà unica o qualcosa che esiste separatamente di per sé, è chiaro che l’uomo non potrebbe né realizzarlo nell’azione né acquisirlo: ma ora [35] si sta cercando proprio questo tipo di bene. Forse si potrebbe opinare che sia meglio conoscere [1097a] il Bene in sé proprio in funzione dei beni che possono essere acquisiti e realizzati nell’azione: infatti, tenendo questo come modello, conosceremo meglio anche i beni per noi, e se li conosceremo, li conseguiremo. Questo argomento ha certo una qualche plausibilità, ma sembra essere in dissonanza con il comportamento delle scienze: [5] infatti, pur tendendo tutte ad un qualche bene e pur cercando ciò che ad esse manca, tralasciano la conoscenza del Bene in sé. Eppure non è ragionevole che tutti coloro che esercitano un’arte ignorino e non ricerchino un simile sussidio. D’altra parte è difficile vedere anche quale giovamento possa un tessitore o un carpentiere trarre per la propria arte dalla conoscenza di questo Bene in sé, [10] o come potrà diventare migliore medico o generale migliore chi avrà contemplato l’Idea in se stessa. È manifesto, infatti, che il medico non ha di mira la salute in sé, bensì quella dell’uomo, anzi, meglio, la salute di un uomo determinato, giacché è l’individuo che egli cura. E su questo argomento basti quanto si è detto fin qui.

 

7. [La felicità sta nell’esercizio della funzione specifica dell’uomo: la razionalità].

[15] Ma torniamo di nuovo al bene che stavamo cercando: che cos’è? È manifesto, infatti, che esso è diverso in un’azione e in un’arte diversa: è diverso nella medicina e nella strategia, come pure nelle altre arti. Che cosa è dunque il bene di ciascuna? Non è forse ciò in vista di cui si fa tutto il resto? E ciò in medicina è la salute, in strategia [20] la vittoria, in architettura la casa, una cosa in un’arte, un’altra in un’altra arte, ma in ogni azione e in ogni scelta è il fine: è in vista di questo che tutti fanno il resto. Cosicché, se c’è una cosa che è il fine di tutte le azioni che si compiono, questa sarà il bene realizzabile praticamente; se vi sono più fini, saranno essi il bene.

Pur procedendo per altra via il ragionamento è giunto allo stesso punto: [25] ma dobbiamo cercare di chiarirlo ancora meglio. Poiché i fini sono manifestamente molti, e poiché noi ne scegliamo alcuni in vista di altri (per esempio, la ricchezza, i flauti e in genere gli strumenti), è chiaro che non sono tutti perfetti: ma il Bene supremo è, manifestamente, un che di perfetto. Per conseguenza, se vi è una qualche cosa che sola è perfetta, questa deve essere il bene che stiamo cercando, [30] ma se ve ne sono più, lo sarà la più perfetta di esse. Diciamo, poi, "più perfetto" ciò che è perseguito per se stesso in confronto con ciò che è perseguito per altro, e ciò che non è mai scelto in vista di altro in confronto con quelle cose che sono scelte sia per se stesse sia per altro; quindi diciamo perfetto in senso assoluto ciò che è scelto sempre per sé e mai per altro. Di tale natura è, come comunemente si ammette, la felicità, [1097b] perché la scegliamo sempre per se stessa e mai in vista di altro, mentre onore e piacere e intelligenza e ogni virtù li scegliamo, sì, anche per se stessi (sceglieremmo infatti ciascuno di questi beni anche se non ne derivasse nient’altro), ma li scegliamo anche in vista della felicità, [5] perché è per loro mezzo che pensiamo di diventar felici. La felicità, invece, nessuno la sceglie in vista di queste cose, né in generale in vista di altro.

È manifesto che anche partendo dal punto di vista dell’autosufficienza si giunge allo stesso risultato: si ritiene infatti che il Bene perfetto sia autosufficiente. Ma intendiamo l’autosufficienza non in relazione ad un individuo nella sua singolarità, cioè a chi conduce una vita solitaria, ma in relazione anche ai genitori, [10] ai figli, alla moglie e, in generale, agli amici e ai concittadini, dal momento che l’uomo per natura è un essere che vive in comunità. A queste persone poi deve essere posto un limite. Se si estende questa considerazione agli antenati e ai discendenti e agli amici degli amici, si procede all’infinito. Ma questo va considerato in seguito. Per ora definiamo l’autosufficienza come ciò che, anche preso singolarmente, [15] rende la vita degna di essere scelta, senza che le manchi alcunché. Di tale natura noi pensiamo che sia la felicità. Inoltre pensiamo che la felicità sia il più degno di scelta tra tutti i beni, senza aggiunte (se fosse così, è chiaro che sarebbe più degna di scelta solo insieme con un altro bene, anche il più piccolo); infatti, quello che le fosse aggiunto sarebbe un sovrappiù di bene, e di due beni quello più grande è sempre più degno di scelta. [20] Per conseguenza la felicità è, manifestamente, qualcosa di perfetto e autosufficiente, in quanto è il fine delle azioni da noi compiute.

Ma, certo, dire che la felicità è il bene supremo è, manifestamente, un’affermazione su cui c’è completo accordo; d’altra parte si sente il desiderio che si dica ancora in modo più chiaro che cosa essa è. Forse ci si riuscirebbe se si cogliesse la funzione [25] dell’uomo. Come, infatti, per il flautista, per lo scultore e per chiunque eserciti un’arte, e in generale per tutte le cose che hanno una determinata funzione ed un determinato tipo di attività, si ritiene che il bene e la perfezione consistano appunto in questa funzione, così si potrebbe ritenere che sia anche per l’uomo, se pur c’è una sua funzione propria. Forse, dunque, ci sono funzioni ed azioni proprie del falegname e del calzolaio, [30] mentre non ce n’è alcuna propria dell’uomo, ma è nato senza alcuna funzione specifica? Oppure come c’è, manifestamente, una funzione determinata dell’occhio, della mano, del piede e in genere di ciascuna parte del corpo, così anche dell’uomo si deve ammettere che esista una determinata funzione oltre a tutte queste? Quale, dunque, potrebbe mai essere questa funzione? È manifesto infatti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si sta cercando ciò che è proprio dell’uomo. [1098a] Bisogna dunque escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita. Seguirebbe la vita dei sensi, ma anch’essa è, manifestamente, comune anche al cavallo, al bue e ad ogni altro animale. Dunque rimane la vita intesa come un certo tipo di attività della parte razionale dell’anima (e di essa una parte è razionale in quanto è obbediente alla ragione, mentre l’altra [5] lo è in quanto possiede la ragione, cioè pensa). Poiché anche questa ha due sensi, bisogna considerare quella che è in atto, perché è essa che sembra essere chiamata vita nel senso più proprio. Se è funzione dell’anima dell’uomo l’attività secondo ragione o, quanto meno, non senza ragione, e se diciamo che nell’ambito di un genere è identica la funzione di un individuo e quella di un individuo di valore, come del citaredo e [10] del citaredo di valore, questo vale, dunque, in senso assoluto anche in tutti i casi, rimanendo aggiunta alla funzione l’eccellenza dovuta alla virtù: infatti, è proprio del citaredo suonare la cetra, e del citaredo di valore suonarla bene. Se è così, se poniamo come funzione propria dell’uomo un certo tipo di vita (appunto questa attività dell’anima e le azioni accompagnate da ragione) e funzione propria dell’uomo di valore attuarle bene [15] e perfettamente (ciascuna cosa sarà compiuta perfettamente se lo sarà secondo la sua virtù propria)15; se è così, il bene dell’uomo consiste in un’attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta.

Ma bisogna aggiungere: in una vita compiuta. Infatti, una rondine non fa primavera, né un sol giorno: così [20] un sol giorno o poco tempo non fanno nessuno beato o felice. Il bene, dunque, resti delineato in questo modo: è certo infatti che bisogna prima buttar giù un abbozzo e poi, in seguito, svilupparlo. Si può ritenere che chiunque è in grado di portare avanti e di delineare nei particolari gli elementi che si trovano bene impostati nell’abbozzo, e che il tempo conduce a ritrovarli o comunque è un buon aiuto; di qui sono derivati anche [25] i progressi delle arti: chiunque infatti può aggiungere ciò che manca. Bisogna ricordarsi anche di quello che si è già detto, cioè di non cercare la precisione allo stesso modo in tutte le cose, ma di cercarla in ciascun caso particolare secondo la materia che ne è il soggetto e per quel tanto che è proprio di quella determinata ricerca. Infatti, il falegname e il geometra [30] ricercano entrambi l’angolo retto, ma in maniera diversa: il primo lo ricerca per quel tanto che è utile alla sua opera, il secondo ne ricerca l’essenza o la differenza specifica, poiché è un uomo che contempla la verità. Alla stessa maniera bisogna procedere anche negli altri casi, affinché gli elementi accessori non soverchino l’opera principale. E non bisogna ricercare [1098b] la causa in tutte le cose in modo uguale, ma in alcune è sufficiente che venga messo adeguatamente in luce il fatto, come, per esempio, anche nel caso dei principi: il dato di fatto è un che di originario, cioè è un principio. Alcuni dei principi si giunge a vederli per induzione, altri per sensazione, altri mediante una specie di abitudine, altri ancora diversamente. [5] Bisogna, dunque, sforzarsi di tener dietro a ciascun tipo di principio in conformità con la sua natura, e impegnarsi a definirlo adeguatamente. I principi, infatti, hanno un gran peso sugli sviluppi successivi: si ammette comunemente che il principio costituisce più che la metà del tutto, cioè che per suo mezzo diventano chiare molte delle cose che si vanno cercando.

 

8. [La felicità implica, oltre alla virtù, anche beni esteriori].

Dobbiamo dunque indagare sul principio non solo sulla base di una conclusione logica [10] dedotta da premesse, bensì partendo anche da ciò che su di esso comunemente si dice: tutti i fatti sono in armonia con la verità, e la verità mostra presto la sua discordanza col falso. Poiché i beni sono stati divisi in tre gruppi, e poiché gli uni sono stati chiamati beni esteriori, gli altri beni dell’anima e beni del corpo, noi affermiamo che quelli dell’anima sono beni nel senso più proprio [15] e nel grado più elevato, poniamo tra i beni dell’anima le sue specifiche azioni e attività. Perciò la nostra affermazione sarà giusta, almeno se si segue questa opinione, che è antica ed ha ricevuto il consenso dei filosofi. Ed è corretto anche dire che il fine è costituito da certe azioni e attività, poiché così esso viene a trovarsi tra i beni dell’anima [20] e non tra quelli esteriori. S’accorda poi con la nostra definizione l’opinione che l’uomo felice è quello che vive bene ed ha successo: infatti la felicità è stata definita, pressappoco, come una specie di vita buona e di successo. È manifesto che gli elementi della felicità di cui si va in cerca si ritrovano tutti in quanto abbiamo detto. Infatti, alcuni ritengono che la felicità consista nella virtù, altri nella saggezza, altri in un certo tipo di sapienza; [25] per altri, poi, essa è o tutte queste cose insieme o una di queste in unione col piacere, o comunque non senza piacere; altri, infine, vi aggiungono anche la disponibilità di beni esteriori. Di alcune di queste opinioni ci sono sostenitori numerosi e antichi, di altre pochi ma famosi: è ragionevole pensare che né gli uni né gli altri siano completamente in errore, ma che essi colgano nel segno almeno in un punto, o anche nella maggior parte dei punti. [30] La nostra definizione dunque è in accordo con coloro che identificano la felicità con la virtù o con una virtù particolare, poiché l’attività secondo virtù è propria di una determinata virtù. Certo non è piccola la differenza se si pensa che il sommo bene consista in un possesso oppure in un uso, cioè in una disposizione oppure in una attività. Può essere, infatti, che la disposizione ci sia, [1099a] ma non compia alcun bene, come in chi dorme o in qualche altro modo è inattivo; ma per l’attività ciò non è possibile, giacché essa necessariamente agirà ed avrà successo. Come nelle Olimpiadi non sono i più belli e i più forti ad essere incoronati, [5] ma quelli che partecipano alle gare (infatti i vincitori sono tra questi), così nella vita è giusto che conseguano ciò che è bello e buono coloro che agiscono. La loro vita poi è per se stessa piacevole. Infatti il godere è proprio dell’anima, e per ciascuno è piacevole ciò di cui si dice che è amante: per esempio, un cavallo per l’amante dei cavalli, uno spettacolo [10] per l’amante degli spettacoli; allo stesso modo le cose giuste per l’amante della giustizia, e, in genere, le azioni conformi alla virtù per l’amante della virtù. Insomma, per la massa degli uomini le cose piacevoli sono in conflitto perché non sono tali per natura, mentre per gli amanti del bello sono piacevoli le cose che per natura sono piacevoli: tali sono le azioni secondo virtù, cosicché esse sono piacevoli sia per questi uomini sia [15] per se stesse. La vita di costoro, dunque, non ha bisogno del piacere come di qualcosa di accessorio, ma ha il piacere in se stessa. Oltre a quanto s’è detto, infatti, non è buono chi non compie con piacere le azioni buone: infatti nessuno direbbe giusto chi non compie con piacere azioni giuste, né liberale [20] chi non compie con piacere azioni liberali: lo stesso vale per le altre azioni buone. E se è così, le azioni secondo virtù saranno piacevoli per se stesse. Ma saranno di certo anche buone e belle, e in massimo grado piacevoli buone e belle, se è vero che giudica bene di loro l’uomo di valore: ed egli giudica come abbiamo detto16. Dunque, la felicità è insieme la cosa più buona, la più bella e la più piacevole, [25] qualità queste, che non devono essere separate come fa l’iscrizione di Delo:

"La cosa più bella è la più grande giustizia;

la cosa più buona è la salute;

ma la cosa per natura più piacevole è raggiungere ciò che si desidera".

Infatti, tutte queste qualità appartengono alle migliori attività: e queste, [30] o una sola tra loro, la migliore, noi diciamo essere la felicità. È manifesto tuttavia che essa ha bisogno, in più, dei beni esteriori, come abbiamo detto: è impossibile, infatti, o non è facile, compiere le azioni belle se si è privi di risorse materiali. Infatti, molte azioni si compiono [1099b] per mezzo degli amici, della ricchezza, del potere politico, come per mezzo di strumenti. E coloro che sono privi di alcuni di questi beni si trovano guastata la felicità: per esempio, se mancano di nobiltà, di prospera figliolanza, di bellezza; non può essere del tutto felice chi è affatto brutto d’aspetto, chi è di oscuri natali, o chi è solo e senza figli; [5] e certo lo è meno ancora chi ha figli o amici irrimediabilmente malvagi, o chi, pur avendoli buoni, li ha visti morire. Come dunque abbiamo detto, la felicità sembra aver bisogno anche di una simile prosperità esteriore; ragion per cui alcuni identificano la felicità con la fortuna17, mentre altri l’identificano con la virtù.

 

9. [Come si acquista la felicità?].

Di qui nasce anche la questione se la felicità si acquista mediante studio o per consuetudine, o [10] con qualche altro tipo di esercizio, ovvero derivi da un dono divino o addirittura dal caso. Se dunque c’è qualche altra cosa che sia dono degli dèi agli uomini, è ragionevole che anche la felicità sia un dono divino, tanto più che essa è il più grande dei beni umani. Ma questo potrà essere argomento più appropriato di un’altra ricerca; d’altra parte è manifesto che, se [15] anche non è un dono inviato dagli dèi ma nasce dalla virtù e da un certo tipo di apprendimento o di esercizio, la felicità appartiene alle realtà più divine, giacché il premio ed il fine della virtù è, manifestamente, un bene altissimo, cioè una realtà divina e beata. E si può dire che sia accessibile a molti: infatti, con un po’ di studio e di applicazione, può appartenere a tutti coloro che non siano costituzionalmente inabili alla virtù. [20] Se è meglio essere felici in questo modo piuttosto che per caso, è ragionevole ammettere che (se è vero, come è vero, che le realtà secondo natura ricevono dalla natura stessa la maggior bellezza possibile) è così anche per le opere dell’arte e di ogni altra causa, e tanto più quanto migliore è la causa. Abbandonare al caso la cosa più grande e più bella sarebbe troppo sconveniente. [25] Ciò che andiamo cercando risulta chiaro anche dalla nostra definizione di felicità: si è detto18 infatti che essa è un certo tipo di attività dell’anima conforme a virtù. Di tutti gli altri beni alcuni le appartengono di necessità, altri invece hanno per natura un’utile funzione ausiliaria, a guisa di strumenti. E questo sarebbe in accordo anche con quello che abbiamo detto all’inizio19: abbiamo infatti posto come [30] sommo bene il fine della scienza politica, ed essa pone la sua massima cura nel formare in un certo modo i cittadini, cioè nel renderli buoni e impegnati a compere azioni belle. È naturale, dunque, che non diciamo felice né un bue né un cavallo né alcun altro animale: nessuno di loro, infatti, è [1100a] in grado di aver parte in una attività simile. E per questa ragione neppure un bambino è felice, giacché non può ancora compiere nessuna di queste azioni a causa dell’età; e i bambini che chiamiamo felici sono tali nella speranza. La felicità, infatti, come abbiamo detto20, richiede virtù perfetta [5] e vita compiuta, giacché nel corso della vita si verificano molti cambiamenti e casi d’ogni genere, e può succedere che chi gode della massima prosperità precipiti in grandi disgrazie nella vecchiaia, come si racconta di Priamo nei poemi troiani: ma chi è stato vittima di simili sventure ed è morto miserevolmente, nessuno può chiamarlo felice.

 

10. [La virtù autentica, e quindi la felicità, dura fino alla morte].

[10] Dunque non potrà essere chiamato felice neppure un altro uomo, finché vive, e si dovrà attendere di vederne la fine, come vuole Solone21? E se anche si deve accettare questa posizione, forse che un uomo sarà felice solo quando sarà morto? O non è questa affermazione affatto assurda, soprattutto per noi che diciamo che la felicità è un’attività? E se, d’altra parte, non diciamo che è [15] felice chi è morto, e se non è questo che Solone vuol dire, ma che si può con sicurezza ritenere felice un uomo solo quando egli è ormai fuori dai mali e dalle disgrazie, anche questa posizione presenta un motivo di discussione. È infatti opinione corrente che anche per il morto ci siano male e bene, come per il vivo che non [20] ne abbia coscienza: per esempio, onore e disonore e successi e disgrazie dei figli ed in genere dei discendenti. Ma anche questo porta con sé una difficoltà: a chi è vissuto felicemente fino alla vecchiaia ed è altrettanto felicemente morto possono ancora capitare molti cambiamenti relativi ai discendenti, alcuni dei quali possono [25] essere buoni ed avere in sorte la vita che così si meritano, ad altri invece può succedere il contrario. È chiaro che i discendenti, nel susseguirsi delle generazioni, possono anche essere quanto mai diversi rispetto ai progenitori. Certo sarebbe assurdo che cambiasse insieme con loro anche il morto e divenisse ora felice, ed ora di nuovo miserevole; ma assurdo sarebbe anche [30] che la sorte dei discendenti non toccasse mai, neppure per un istante, i progenitori. Ma dobbiamo ritornare al problema precedente: infatti, sulla base della sua risoluzione si potrà mettere in luce anche quello che stiamo cercando ora. Se dunque si deve aspettare di vederne la fine e se solo allora si può dichiarare beato un uomo (non perché lo sia in quel momento, ma perché lo era prima), come può non essere assurdo se, quando è felice, [35] non gli si può attribuire con verità ciò che gli compete, per il fatto che non [1100b] si vuol chiamare beati coloro che sono ancora in vita a causa di possibili cambiamenti di situazione, cioè per il fatto che si pensa la felicità come qualcosa di stabile e per niente facile a mutare, mentre le vicende della vita spesso girano come una ruota intorno agli uomini? È chiaro infatti che, se noi seguiamo [5] le vicende della sorte, dovremo chiamare la stessa persona ora felice ed ora infelice, più volte, facendo dell’uomo felice una specie di camaleonte e basato su fondamenta marce. O non è forse un procedimento per niente corretto quello di tener dietro alle vicende della sorte? Infatti, non è in esse che stanno il bene e il male, ma la vita umana ha bisogno di questi apporti, come abbiamo detto22, solo in via accessoria, [10] mentre essenziali per la felicità sono le attività conformi a virtù, e decisive per l’infelicità sono le attività contrarie alla virtù. Testimonia, poi, a favore della nostra definizione anche la difficoltà ora affrontata. Infatti, a nessuna delle funzioni umane appartiene la stabilità tanto quanto alle attività conformi a virtù si ritiene infatti che esse siano più persistenti persino delle scienze; [15] e di queste stesse quelle più pregevoli sono più stabili, per il fatto che le persone felici continuano a vivere in esse di preferenza e con la massima costanza. Questa, infatti, sembra essere la causa del fatto che della virtù non c’è oblio. La qualità cercata apparterrà dunque all’uomo felice, e questi sarà tale per tutta la vita, giacché sempre, o la maggior parte delle volte, egli farà o contemplerà [20] ciò che è conforme a virtù, sopporterà le vicende della sorte nel modo migliore, ed in ogni caso con la massima dignità, almeno chi è veramente buono, tetragono e senza fallo. Poiché molte cose avvengono per caso e differiscono per grandezza e piccolezza, i piccoli avvenimenti, sia quelli felici sia quelli disgraziati, è chiaro che non hanno [25] gran peso per la vita, mentre quelli grandi e numerosi, se sono favorevoli, renderanno la vita più felice (giacché per loro natura ne costituiscono un ornamento, ed il fruirne è cosa bella e di valore); se invece sono avversi angustiano e distruggono la beatitudine, giacché portano con sé sofferenze ed ostacolano molte attività. [30] Tuttavia anche in questi riluce la nobiltà, quando si sopportino di buon animo molte e grandi disgrazie, non già per insensibilità, ma perché si è generosi e magnanimi. D’altra parte, se sono le attività che determinano la vita, come abbiamo detto23, nessun uomo felice ha l’eventualità di diventare miserevole, [35] giacché egli non compirà mai azioni odiose e vili. [1101a] Noi pensiamo, infatti, che l’uomo veramente buono e saggio sopporta dignitosamente tutte le vicende della sorte e tra le azioni che gli si prospettano compie sempre quelle più belle, come anche il buon generale usa l’esercito di cui dispone nel modo più efficace in guerra, e il buon calzolaio col cuoio che gli viene dato [5] produce la calzatura più bella e allo stesso modo si comportano tutti gli altri artigiani. Ma se è così, l’uomo felice non potrà mai diventare miserevole, ma certo non potrà neppure essere pienamente felice se precipiterà in disgrazie simili a quelle di Priamo. E non sarà certo capriccioso e volubile: infatti, non si lascerà smuovere dalla felicità facilmente, [10] né da disavventure qualsiasi, ma da disgrazie grandi e numerose, tali per cui non può recuperare la felicità in breve tempo, ma, se mai, al compimento di un lungo periodo di tempo, durante il quale abbia ottenuto grandi successi. Che cosa dunque impedisce di definire felice chi è attivo secondo perfetta virtù [15] ed è sufficientemente provvisto di beni esteriori, e ciò non occasionalmente e temporaneamente, ma per tutta una vita? O non bisogna forse aggiungere anche "chi vivrà e morirà in modo corrispondente", dal momento che il futuro ci è nascosto, e che noi affermiamo che la felicità è un fine, e un fine sotto ogni aspetto assolutamente compiuto? Se è così, definiremo beati [20] quelli tra i viventi che sono e continueranno ad essere in possesso dei requisiti indicati; beati, s’intende, come possono esserlo gli uomini. A questo punto si consideri conclusa la nostra trattazione di questi argomenti.

 

11. [Il defunto non è toccato, sostanzialmente, né dal bene né dal male dei discendenti].

Che poi le sorti dei discendenti e di tutti gli amici non importino per nulla è, manifestamente, affermazione troppo estranea all’amicizia e contraria alle opinioni correnti. Ma poiché gli eventi sono molti e presentano differenze di ogni tipo, [25] e poiché alcuni ci toccano più da vicino, altri meno, sarebbe manifestamente troppo lungo, anzi interminabile, analizzarli singolarmente, mentre può ben essere sufficiente quanto è stato detto in generale e schematicamente. Se, dunque, come delle sventure che ci colpiscono direttamente alcune hanno qualche peso e influenza sulla nostra vita, [30] mentre altre sembrano più leggere, così, allo stesso modo, avviene per quelle che colpiscono tutti gli amici; e se la differenza tra una sventura che capiti a persone vive e una sventura che riguardi defunti è molto più grande di quella che c’è nelle tragedie tra le azioni delittuose e terribili che ne costituiscono l’antefatto e quelle che vengono compiute sulla scena, bisognerà allora tener conto anche di questa differenza, e, certo ancor più, [35] del problema se i morti partecipino di qualche bene o di qualche male, oppure no. [1101b] Da quanto abbiamo detto, infatti, sembra derivare che, se qualcosa giunge a riguardare ancora i morti, bene o male che sia, si tratta di qualche debole o piccola cosa, sia in senso assoluto, sia relativamente a loro; e se no, è comunque di grandezza e natura tali da non poter rendere felici coloro che non lo sono, [5] né da poter strappare la felicità a coloro che sono felici. È dunque manifesto che hanno sì qualche importanza per i morti le fortune degli amici, come pure le loro disgrazie, ma che queste sono di natura e di importanza tali da non poter rendere felici coloro che non lo sono, né da produrre alcun altro cambiamento del genere.

 

12. [La felicità è degna d’onore, come realtà assoluta e divina].

[10] Definito questo, volgiamoci ad esaminare, a proposito della felicità, se essa appartenga alle cose che sono degne di lode o piuttosto a quelle che meritano onore, poiché è evidente che non rientra certo tra le semplici potenzialità. Ogni cosa degna di lode, manifestamente, viene lodata per il fatto di avere una certa qualità o per essere in un determinato rapporto con qualcosa. Infatti noi lodiamo l’uomo giusto, il coraggioso e, in generale, [15] l’uomo buono e la virtù per le azioni e le opere, mentre lodiamo l’uomo forte, il corridore, e così via, per il fatto che per natura possiedono una certa qualità e perché sono in un determinato rapporto con qualcosa che è buono e di valore. Questo risulta chiaro anche dalle lodi rivolte agli dèi: esse infatti si rivelano ridicole perché si determinano in rapporto a noi uomini, [20] e questo succede per il fatto che le lodi si basano su un rapporto con qualcos’altro, come abbiamo detto. Se la lode si riferisce a ciò che è relativo, è chiaro che dei beni assoluti non vi può essere lode, ma qualcosa di più grande e di migliore, come anche risulta con evidenza: infatti, ciò che facciamo è di proclamare beati e felici gli dèi ed i più simili agli dèi tra gli uomini. [25] Lo stesso vale per i beni: nessuno infatti loda la felicità come la giustizia, ma la proclama beata, in quanto è qualcosa di più divino e di più nobile. Anche Eudosso24, sembra, ha ben condotto la difesa del primo premio per il piacere: egli infatti pensava che il fatto che esso non viene lodato, pur essendo uno dei beni, significa che è superiore a ciò che è [30] degno semplicemente di lode, e che tali sono Dio e il bene, giacché è a loro che vengono rapportate anche tutte le altre cose. La lode, infatti, spetta alla virtù, giacché è da essa che riceviamo la capacità di compiere le azioni moralmente belle; gli encomi invece sono appropriati alle opere, sia del corpo sia dell’anima, ugualmente. Ma distinguere con rigore questi generi è certo più tipico [35] di coloro che si occupano di encomi; per noi è chiaro da quanto si è detto [1102a] che la felicità rientra tra le cose degne di onore e perfette. Sembra che sia così anche per il fatto che essa è un principio: è in vista di essa, infatti, che tutti noi facciamo tutto il resto, e il principio e la causa dei beni noi riteniamo che sia una cosa degna d’onore e divina.

 

13. [L’anima umana e la distinzione tra virtù etiche e virtù dianoetiche].

[5] Poiché la felicità è una attività dell’anima secondo perfetta virtù, dobbiamo prendere in esame la virtù, giacché così, forse, potremo venire in chiaro anche di quanto riguarda la felicità. Si ritiene anche, poi, che l’uomo politico autentico debba aver dedicato ad essa moltissime delle sue fatiche: egli infatti vuole rendere i cittadini buoni [10] e ossequienti alle leggi. Come esempio di uomini politici autentici abbiamo i legislatori di Creta e di Sparta, e quanti altri ce ne possono essere stati del medesimo tipo. Se poi tale indagine è propria della scienza politica, è chiaro che la ricerca si potrà svolgere conformemente alla nostra intenzione iniziale.

La virtù su cui si deve indagare, è chiaro, è la virtù umana, giacché [15] è il bene umano e la felicità umana che stiamo cercando. Intendiamo poi per virtù umana non quella del corpo, bensì quella dell’anima: anche la felicità la definiamo attività dell’anima. Se le cose stanno così, è chiaro che l’uomo politico deve conoscere in qualche modo ciò che riguarda l’anima, come anche chi intende curare gli occhi [20] deve conoscere anche tutto il corpo, e tanto più in quanto la politica è più degna di onore e più nobile della medicina: i più valenti dei medici si danno molto da fare per conoscere il corpo. Anche l’uomo politico dunque deve cercar di conoscere l’anima, e cercare di conoscerla per le ragioni dette, e nella misura sufficiente per quello che stiamo cercando, [25] giacché indagare con maggior precisione è forse fatica sproporzionata a quanto ci siamo proposti. Si fanno alcune affermazioni sull’anima anche negli scritti essoterici25 in misura sufficiente, e possiamo servirci di quelli: per esempio, vi si dice che una parte di essa è irrazionale, e l’altra è fornita di ragione. Se esse poi siano distinte come le parti del corpo e come tutto [30] ciò che è divisibile in parti, o se invece le parti sono due solo idealmente, mentre per natura sono inseparabili, come nella circonferenza la parte convessa e la parte concava, non fa differenza per la presente argomentazione.

Di quella irrazionale, poi, una parte sembra essere comune anche ai vegetali (intendo quella che è causa della nutrizione e dell’accrescimento), giacché tale facoltà dell’anima [1102b] si può ammettere in tutti gli esseri che si nutrono, sia negli embrioni, sia, tal quale, negli esseri completamente sviluppati: è infatti più probabile che sia la stessa piuttosto che un’altra. Dunque la virtù di questa facoltà è, manifestamente, una virtù comune, e non propria dell’uomo: si ritiene infatti che questa parte, cioè questa facoltà, sia attiva soprattutto durante il sonno, [5] e il buono ed il cattivo si differenziano molto poco nel sonno (ragion per cui dicono che per metà della vita gli uomini felici non differiscono in nulla dagli infelici; che questo accada è naturale: il sonno è inattività dell’anima, per quella parte secondo cui essa può dirsi di valore o miserabile), a meno che, debolmente, pur le giungano alcuni movimenti, [10] e che sia per questo che i sogni degli uomini per bene sono migliori di quelli degli uomini qualsiasi. Ma di queste cose basta; e si può tralasciare la facoltà nutritiva, poiché per sua natura non ha alcuna partecipazione alla virtù umana. Sembra poi che ci sia anche un’altra facoltà naturale dell’anima, irrazionale, ma tuttavia in qualche modo partecipe di ragione. Infatti, noi lodiamo, sia dell’uomo continente sia di quello incontinente, [15] la ragione, cioè la parte razionale dell’anima, giacché è essa che li esorta alle azioni più nobili. È manifesto poi in essi anche un altro elemento, che, per natura, è estraneo alla ragione, e combatte e contrasta la ragione. Proprio come le membra paralizzate: quando uno si propone di muoverle a destra, si volgono, [20] al contrario, a sinistra; così avviene anche per l’anima: le inclinazioni degli incontinenti, infatti, si volgono in direzioni contrarie. Ma mentre nei corpi vediamo l’elemento deviante, nell’anima non lo vediamo. Nondimeno, certo, dobbiamo pensare che nell’anima ci sia qualcosa di estraneo alla ragione, che ad essa si oppone e resiste. [25] In che senso sia estraneo alla ragione non ha importanza. Anche questo elemento, poi, partecipa, manifestamente, della ragione, come abbiamo detto26: nell’uomo continente ubbidisce di certo alla ragione, e forse è ancor più docile nell’uomo temperante ed in quello coraggioso, giacché in essi tutto è in armonia con la ragione. Dunque, è manifesto che anche l’elemento irrazionale è duplice. La parte vegetativa non partecipa per niente [30] della ragione, mentre la facoltà del desiderio e, in generale, degli appetiti, ne partecipa in qualche modo, in quanto le dà ascolto e le ubbidisce. E questo nel senso in cui anche diciamo "accettare la ragione" del padre e degli amici, e non nel senso in cui diciamo "comprendere la ragione" delle dimostrazioni matematiche. E che l’elemento irrazionale in qualche modo si lasci determinare dalla ragione, lo mostrano gli ammonimenti, i rimproveri e tutti i tipi di esortazione. [1103a] Ma se è necessario dire che anche questo elemento partecipa della ragione, allora anche la parte che possiede la ragione sarà duplice: l’una la possederà in senso proprio e in se stessa, l’altra nel senso che le dà ascolto come ad un padre.

Anche la virtù, poi, si divide conformemente a questa divisione dell’anima. Infatti alcune le chiamiamo [5] virtù dianoetiche27 altre virtù etiche28: dianoetiche sapienza, giudizio e saggezza, etiche invece liberalità e temperanza. Infatti, quando parliamo del carattere di un uomo non diciamo che egli è sapiente o giudizioso, ma che è mite o temperante; però lodiamo anche il saggio per la sua disposizione: e le disposizioni che meritano lode [10] le denominiamo virtù.


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