ARISTOTELE
ETICA A NICOMACO
LIBRO IV
1. [La liberalità].
Adesso trattiamo della liberalità. Generalmente si crede che essa sia la medietà concernente i beni materiali. Infatti, si loda l’uomo liberale non nelle azioni di guerra, né in quelle per cui viene lodato l’uomo temperante, né, inoltre, nelle decisioni giudiziali, [25] bensì in riferimento al dare e al ricevere beni materiali, e soprattutto in riferimento al dare. Denominiamo, poi, beni materiali tutte le cose il cui valore si misura in denaro. La prodigalità e l’avarizia sono eccessi e difetti che riguardano i beni materiali. E mentre attribuiamo il termine avarizia sempre a coloro che si preoccupano dei beni materiali più di quanto bisogna, [30] talora applichiamo il termine prodigalità comprendendo insieme più significati: chiamiamo, infatti, prodighi gli incontinenti e coloro che scialacquano per soddisfare la loro intemperanza. Perciò si ritiene comunemente che siano affatto miserabili, giacché hanno molti vizi insieme. Dunque, la loro denominazione non è appropriata: infatti "prodigo" vuol significare chi ha un vizio solo e determinato, quello di mandare in rovina il patrimonio. [1120a] Infatti, prodigo è chi si rovina da se stesso, e la distruzione del patrimonio si ritiene che sia una specie di rovina di se stessi, dal momento che è esso che rende possibile vivere. Per conseguenza, è in questo senso che prendiamo il termine "prodigalità". Delle cose, poi, che hanno un uso, si può usare sia bene sia male. Ora, [5] la ricchezza appartiene alle cose di cui si fa uso, e di ciascuna cosa fa l’uso migliore colui che ne ha la virtù relativa: dunque, anche della ricchezza farà il migliore uso possibile chi ha la virtù relativa ai beni materiali; e costui è l’uomo liberale. Ma l’uso dei beni materiali si ritiene che consista nello spendere e nel donare, mentre il prenderli e il custodirli sono piuttosto un possesso. [10] Perciò è più proprio dell’uomo liberale il donare a chi si deve che non il prendere di dove si deve, ovvero il non prendere di dove non si deve. È infatti caratteristico della virtù più fare il bene che non il riceverlo, e compiere belle azioni più che non compierne di cattive. E non è difficile vedere che il donare implica fare il bene e compiere belle azioni, il prendere implica [15] ricevere il bene e non comportarsi male. Inoltre la riconoscenza va a chi dona, non a chi prende, ed ancor più la lode. Ed è più facile non prendere che donare: si è meno disposti a cedere del proprio che a non prendere dall’altrui.
E liberali sono chiamati quelli che donano; quelli che non prendono ciò che non devono [20] non sono lodati dal punto di vista della liberalità, bensì dal punto di vista della giustizia, e quelli che prendono ciò che devono non sono lodati affatto. Gli uomini liberali, poi, sono amati quasi di più di tutti quelli che sono amati per la virtù, perché sono benefici, e l’essere benefici consiste nel donare. Le azioni virtuose sono belle ed hanno come fine il bello. E l’uomo liberale, dunque, donerà in vista del bello [25] ed in maniera corretta: donerà, cioè, a chi si deve e nella quantità e nel momento in cui si deve, ed osserverà tutte le altre condizioni che il donare rettamente implica; e lo farà con piacere, o almeno senza pena: infatti, ciò che è conforme a virtù è piacevole o senza pena, anzi non è affatto penoso. Colui che dona, invece, a chi non si deve, o dona non in vista del bello ma per qualche altro motivo, non potrà essere chiamato liberale, ma in qualche altro modo. Né [30] si potrà chiamare liberale chi dona con pena: egli, infatti, anteporrà i suoi beni alla bella azione, e questo non è da uomo liberale. Né prenderà di dove non si deve: un simile prendere non è, infatti, proprio di un uomo che non stima i beni materiali. Né sarà liberale chi sollecita beni per sé, giacché non è proprio di chi fa il bene il farsi beneficiare senza scrupoli. Invece prenderà di dove si deve, per esempio dalla sua proprietà privata, [1120b] non perché è bello, ma perché è necessario al fine di avere di che donare. Né trascurerà i suoi beni personali, se non altro perché vuole con essi provvedere agli altri. Né donerà a chi capita, per avere di che donare a chi si deve, nel tempo e nel luogo in cui è bello donare. È affatto [5] caratteristico dell’uomo liberale persino eccedere nel donare, in modo da lasciare a se stesso la parte minore dei suoi beni: infatti, è proprio del liberale non guardare a se stesso. La liberalità, poi, si determina a seconda del patrimonio: infatti, il carattere liberale del dono non sta nella quantità di ciò che è donato, ma nella disposizione d’animo di colui che dona, e questa spinge a donare in proporzione al patrimonio. Per conseguenza, nulla impedisce [10] che sia più liberale chi dona di meno, se per donare attinge da un patrimonio più piccolo. Si ritiene comunemente che siano più liberali coloro che non si sono procurati da sé il patrimonio, ma lo hanno ereditato: infatti, non hanno esperienza dell’indigenza ed inoltre tutti gli uomini amano di più ciò che è opera loro, come i genitori ed i poeti. D’altra parte, non è facile arricchirsi [15] per un uomo liberale, poiché non è portato a prendere né a conservare, ma a dar via, e non apprezza i beni materiali per se stessi, ma come mezzi per poter donare. Perciò si rimprovera la fortuna, perché coloro che ne sono più degni meno arricchiscono. Ma questo succede non senza ragione: non è possibile che possieda dei beni chi non si preoccupa di averne, come succede [20] anche in tutte le altre cose. Se non altro, il liberale non donerà a chi non si deve né quando non si deve, e così via; infatti non agirebbe più conformemente alla liberalità, e se spendesse per queste cose le sue sostanze, non ne avrebbe per spenderle per ciò che si deve. Come, infatti, si è detto, è liberale chi spende in proporzione al proprio patrimonio e per ciò che si deve: chi, invece, eccede, [25] è prodigo. Perciò non chiamiamo prodighi i tiranni: infatti, non sembra che sia facile che col donare e con lo spendere possano superare la grandezza della loro proprietà. Poiché, dunque, la liberalità è la medietà relativa al donare e al prendere beni materiali, l’uomo liberale donerà e spenderà per ciò che si deve e quanto si deve, allo stesso modo nelle piccole [30] che nelle grandi cose, e questo farà con piacere; e prenderà di dove si deve e quanto si deve. Poiché, infatti, la sua virtù è la medietà relativa al donare e al prendere, il liberale farà entrambe le cose come si deve: al donare in modo conveniente consegue anche un prendere convenientemente, mentre un prendere diversamente è il suo contrario. Ordunque, le proprietà che si implicano sono presenti insieme nello stesso uomo, mentre è chiaro che per quelle contrarie non è così. [1121a] D’altra parte, se gli accadrà di spendere più del dovuto o più di ciò che è bello, ne soffrirà, ma moderatamente e come si deve: è tipico della virtù, infatti, provar piacere e dolore per ciò che si deve e come si deve. Infine, l’uomo liberale è molto accomodante per quanto riguarda i beni materiali: [5] infatti, è capace di subire ingiustizia, se non altro perché non stima i beni materiali, e perché soffre di più se non dà qualcosa di dovuto di quanto non si addolori se dà qualcosa di non dovuto, anche se così dispiace a Simonide77. Il prodigo, invece, erra anche in queste cose: non prova, infatti, né piacere né dolore di ciò per cui si deve, né nel modo in cui si deve: ma sarà più chiaro per chi ci seguirà.
[10] Abbiamo dunque detto che la prodigalità e l’avarizia sono eccessi e difetti, ed in due cose, nel donare e nel prendere, giacché comprendiamo anche lo spendere nel donare. Orbene, la prodigalità eccede nel donare e nel non prendere, mentre difetta nel prendere; l’avarizia, invece, difetta nel donare, [15] ma eccede nel prendere, eccetto che nelle piccole cose. I due aspetti della prodigalità stanno raramente insieme: non è facile, infatti, per chi non prende da nessuna parte, donare a tutti, giacché le risorse vengono presto a mancare a coloro che donano, se sono dei privati, che sono i soli che comunemente si ritiene siano prodighi. Tuttavia, chi possedesse entrambi gli aspetti della prodigalità sarebbe ritenuto non poco migliore [20] dell’avaro. Egli, infatti, può essere guarito dall’età e dalla povertà, e può giungere alla medietà. Ha infatti i tratti dell’uomo liberale, giacché dona e non prende, ma nessuna delle due cose fa come si deve, cioè non le fa bene. Se, dunque, prendesse questa abitudine o comunque cambiasse comportamento, sarebbe un uomo liberale: allora donerà a chi si deve [25] e non prenderà di dove non si deve. Proprio per questo si ritiene che non sia cattivo di carattere: non è, infatti, da uomo perverso ed ignobile eccedere nel donare e nel non prendere, bensì da stupido. Chi è prodigo in questo modo si ritiene che sia molto migliore dell’avaro per le ragioni dette, e perché quello benefica molta gente, questo, invece, nessuno, [30] neppure se stesso. Ma la maggior parte dei prodighi, come si è detto, giungono al punto di prendere di dove non si deve e, da questo punto di vista, sono degli avari. Diventano molto disponibili a prendere per il fatto di voler spendere, ma di non poterlo fare facilmente, perché le sostanze vengono loro meno rapidamente. Sono quindi costretti a procacciarsele altrove. [1121b] Nello stesso tempo, è anche perché non si preoccupano per niente di ciò che è bello che prendono con noncuranza e da ogni parte: desiderano infatti donare, ma non ha alcuna importanza per loro il modo con cui attingono e la fonte da cui attingono. Perciò neppure le loro donazioni sono liberali: infatti, non sono moralmente belle, né hanno come scopo il bello, [5] né sono fatte come si deve ma, talvolta, rendono ricchi uomini che dovrebbero rimanere poveri, e, mentre non darebbero nulla a uomini di carattere misurato, agli adulatori, invece, o a chi procura loro qualche altro piacere, donano molto. Proprio per questo la maggior parte di loro sono anche intemperanti, giacché spendono facilmente e sono scialacquatori per soddisfare le loro intemperanze, e, poiché non vivono per [10] ciò che è moralmente bello, sono proclivi ai piaceri. Il prodigo, quindi, quando rimane senza guida, si rivolge all’avarizia ed alla intemperanza, mentre quando gli capita di trovare chi si prende cura di lui può giungere al giusto mezzo e al comportamento dovuto. L’avarizia, invece, è incorreggibile (si ritiene, infatti, che la vecchiaia ed ogni specie di impotenza rendano avari), ed è più connaturale agli uomini [15] che non la prodigalità: la gente, infatti, ama di più possedere beni materiali che non donarli. L’avarizia, inoltre, ha una grande estensione e presenta molti aspetti: si ritiene, infatti, che molti siano i modi di essere avari. Poiché consiste di due elementi, difetto nel dare ed eccesso nel prendere, non in tutti si realizza integralmente, ma talora si scinde, [20] e alcuni eccedono nel prendere, mentre altri difettano nel dare. Infatti, quelli che rientrano in queste denominazioni, per esempio, tirchi spilorci taccagni, tutti difettano nel dare, ma non aspirano ai beni altrui né vogliono prenderseli; gli uni per una certa onestà e per un certo ritegno di fronte alle brutte azioni [25] (si pensa infatti che alcuni, o almeno loro dicono così, custodiscano gelosamente i loro beni per non trovarsi mai costretti a compiere qualche brutta azione; e a questi appartiene pure chi risparmia anche un grano di comino ed ogni tipo del genere: e prende il nome dall’eccesso che consiste nel non donare nulla); gli altri, invece, si astengono dai beni altrui per paura, pensando che non è facile che uno si impadronisca dei beni degli altri [30] senza che gli altri si impadroniscano dei suoi: a loro, quindi, non piace né prendere né donare. Altri, al contrario, eccedono nel prendere, in quanto prendono tutto e da ogni parte, come, per esempio, coloro che esercitano mestieri sordidi: i ruffiani e tutti i loro simili, e gli usurai che prestano piccole somme a grande interesse. [1122a] Tutti costoro, infatti, prendono di dove non si deve e nella quantità che non si deve. Elemento comune a costoro è poi, manifestamente, la sordida cupidigia di guadagno: tutti, infatti, affrontano il disonore in vista di un guadagno, anche se piccolo. Coloro, infatti, che traggono grossi guadagni di dove non si deve, e non fanno ciò che si deve, non [5] li chiamiamo avari (per esempio, i tiranni che saccheggiano e spogliano i templi), ma, piuttosto, malvagi, empi, ingiusti. Tuttavia, il giocatore d’azzardo, il ladro e il pirata appartengono alla classe degli avari: sono, infatti, sordidamente cupidi di guadagno. È, infatti, in vista del guadagno che gli uni e gli altri si danno da fare ed affrontano il disonore, e, [10] mentre questi ultimi affrontano i più grossi rischi in vista del bottino, i primi traggono guadagni dagli amici, ai quali invece si dovrebbe donare. Gli uni e gli altri, dunque, in quanto vogliono trarre profitti di dove non si deve, sono sordidamente avidi di guadagno; e, per conseguenza, tutti questi modi di prendere sono propri dell’avarizia. A ragione, dunque, si dice che l’avarizia è il contrario della liberalità: infatti, è un male più grande [15] della prodigalità, e si pecca di più per avarizia che non per prodigalità, come noi l’abbiamo descritta. Orbene, tanto basti sull’argomento della liberalità e dei vizi a lei opposti.
2. [La magnificenza].
Si ammetterà che a questo deve seguire la trattazione della magnificenza. Si ritiene, infatti, che anch’essa sia una virtù in rapporto ai beni materiali, [20] ma non si estende come la liberalità a tutti i tipi di azione che hanno per oggetto beni materiali, bensì solo alle spese: in queste, però, supera la liberalità per grandezza. Infatti, come il nome stesso suggerisce, è una maniera conveniente di spendere in grande. Ma la grandezza è relativa: infatti, la spesa non è la stessa per chi è incaricato di armare una trireme [25] e per chi deve guidare una sacra legazione. La convenienza, dunque, è relativa a chi spende ed alle circostanze e all’oggetto della spesa. Chi, invece, spende in cose piccole o medie secondo che esse meritano non si chiama magnifico (come l’uomo del detto78 "spesso ho donato al vagabondo"), bensì solo colui che spende in grandi cose. Infatti, mentre l’uomo magnifico è liberale, l’uomo liberale non è necessariamente magnifico. [30] Il difetto di tale disposizione d’animo si chiama meschinità, l’eccesso volgarità, mancanza di gusto e simili, disposizioni, queste ultime, che non eccedono in grandezza in relazione a ciò che si deve, bensì che fanno sfoggio in cose per cui non si deve o in maniera in cui non si deve: di esse parleremo in seguito. Il magnifico è simile ad un conoscitore, perché [35] è in grado di vedere la convenienza e fare grandi spese con gusto. [1122b] Come, infatti, dicemmo all’inizio79, la disposizione viene definita dalle sue attività e dai suoi oggetti. Ora, le spese dell’uomo magnifico sono grandi e convenienti. Tali, dunque, saranno anche le sue opere: così, infatti, la spesa sarà grande e conveniente all’opera da compiere. Come l’opera [5] deve essere degna della spesa, così anche la spesa deve essere degna dell’opera, o perfino superarla. Il magnifico farà spese di tal genere in vista di ciò che è moralmente bello, perché questo è comune a tutte le virtù. Inoltre, le farà con piacere e con profusione di mezzi, giacché la minuziosità nei conti è qualcosa di meschino. E si porrà il problema di come ottenere il risultato più bello e più conveniente, piuttosto che di quanto costerà [10] e di come spendere il meno possibile. L’uomo magnifico è, dunque, necessariamente anche liberale. Infatti, anche l’uomo liberale spenderà ciò che si deve e come si deve; ma, in queste spese legittime, è la grandezza che è tipica dell’uomo magnifico, in quanto la magnificenza è appunto la grandezza della liberalità relativa a queste spese, e con una spesa uguale renderà l’opera più magnifica. Infatti, [15] il valore di ciò che si possiede e quello di un’opera non sono lo stesso. Il possesso più prezioso, infatti, è quello che ha il massimo valore commerciale, come, per esempio, l’oro, mentre l’opera più preziosa è quella che è grande e bella (la contemplazione di una simile opera, infatti, suscita ammirazione, ed è appunto ciò che è magnifico che suscita ammirazione): ora, il valore dell’opera, la sua magnificenza, sta nella sua grandezza. La magnificenza, poi, ha come oggetto le spese che noi chiamiamo spese onorevoli (per esempio, quelle che si fanno [20] per gli dèi, offerte votive, costruzione di templi, sacrifici, e similmente per ogni aspetto del culto religioso), e tutte quelle che si ha l’ambizione di fare per l’interesse comune (per esempio, secondo me, quando si pensa di dover allestire con splendore un coro o una trireme, oppure anche di offrire un banchetto pubblico). Ora, in tutti questi casi, come si è detto, la valutazione della spesa è rapportata a chi la fa ed è relativa alla persona che la fa [25] ed ai mezzi che questa ha: infatti, le spese devono essere degne dei suoi mezzi, e convenire non solo all’opera ma anche a chi la compie. Perciò un povero non potrà essere magnifico, perché non ha di che fare grandi spese in modo conveniente: e chi ci prova è sciocco, perché ciò va al di là delle sue possibilità finanziarie e del suo dovere, mentre conforme a virtù è solo ciò che viene compiuto rettamente. [30] Ora, tali spese convengono a coloro che possiedono adeguati mezzi, sia che li abbiano acquisiti personalmente, sia che li abbiano ricevuti in eredità dagli avi, sia che derivino loro da altre relazioni, e poi ai nobili, alle persone illustri e così via, perché tutte queste condizioni comportano grandezza e prestigio. Soprattutto di questa natura è dunque l’uomo magnifico, ed è in spese di questo genere che consiste la magnificenza, come [35] s’è detto: spese molto grandi e molto onorevoli. Nelle spese private, invece, la magnificenza si deve manifestare in quelle che [1123a] si fanno una volta sola, come, per esempio, un matrimonio o una situazione del genere, e in quelle che interessano tutta la città o le persone di rango, e quando si accolgono e si congedano ospiti stranieri, cioè quando si offrono e si contraccambiano doni. Infatti, non è per se stesso che spende l’uomo magnifico, bensì [5] per l’interesse comune, e i suoi doni hanno qualcosa di simile alle offerte votive. E caratteristico dell’uomo magnifico anche arredare la sua casa in modo conveniente alla propria ricchezza (anche una bella casa è un ornamento), e spendere soprattutto per opere durevoli (che sono le più belle), e, in ogni caso, spendere quanto conviene. Infatti, non sono le stesse cose che convengono [10] agli dèi ed agli uomini, per un tempio e per una tomba. E poiché ogni tipo di spesa può essere grande nel suo genere, e la più magnifica in generale è la grande spesa per una grande cosa, ma in circostanze determinate la grande spesa per oggetti determinati, c’è anche differenza tra la grandezza dell’opera e quella della spesa. Infatti, la più bella palla o il più bel secchiello [15] hanno il carattere della magnificenza come dono per un bambino, benché il loro prezzo sia piccolo e misero. Per questa ragione, caratteristico dell’uomo magnifico è che, qualunque sia il genere delle cose che fa, le fa con magnificenza (ché una simile azione non può essere facilmente superata) ed in modo adeguato al valore della spesa. Tale è, dunque, l’uomo magnifico. Chi, invece, eccede ed è volgare, [20] eccede in quanto spende più del dovuto, come s’è detto. Infatti, nelle piccole occasioni di spesa spende molto e fa uno sfarzo stonato, come, per esempio, quando fa di una colazione fra amici un banchetto di nozze, e quando deve allestire il coro per una commedia lo introduce nella pàrodo ornato di porpora, come fanno i Megaresi. E tutto questo farà non [25] in vista di ciò che è bello, ma per ostentare la sua ricchezza e perché crede con ciò di suscitare ammirazione, e dove si dovrebbe spendere molto spende poco, e spende molto dove si dovrebbe spendere poco. L’uomo meschino, invece, pecca in tutto per difetto, e, dopo aver speso le somme più grandi, per una piccola cosa rovinerà la bellezza del risultato, sia esitando in ciò che fa, [30] sia cercando il modo di spendere il meno possibile, sia rimpiangendo queste spese, sia credendo di fare sempre di più di quello che si deve. Queste disposizioni sono, quindi, dei vizi; tuttavia non portano con sé disonore, per il fatto che non sono dannose per il prossimo né troppo indecorose.
3. [La magnanimità].
Che la magnanimità abbia per oggetto grandi cose [35] sembra che si ricavi dal suo stesso nome, ma cerchiamo innanzi tutto di determinare di che natura sono queste grandi cose. [1123b] Non c’è alcuna differenza, se si esamina la disposizione in sé oppure l’uomo che vive conformemente ad essa. Si ritiene, dunque, che magnanimo sia colui che si stima degno di grandi cose e lo è veramente: infatti, chi si stima diversamente dal suo reale valore è sciocco, e nessuno di coloro che vivono secondo virtù è sciocco o scervellato. Il magnanimo, dunque, è quello che abbiamo detto. [5] Infatti, chi è degno di piccole cose e di piccole cose si stima degno è modesto, e non magnanimo: la magnanimità, infatti, implica grandezza, come anche la bellezza implica un corpo di grandi proporzioni, mentre gli uomini piccoli possono essere aggraziati e proporzionati, ma non belli. Colui che si stima degno di grandi cose, ma in realtà non lo è, è vanitoso (ma colui che si stima degno di cose più grandi di quanto non sia realmente degno non è sempre un vanitoso). Chi, invece, si ritiene inferiore [10] a quanto merita è pusillanime, se, per quanto egli sia degno di cose grandi o medie o anche piccole, egli si stima degno di cose ancor più piccole. E si riconoscerà che pusillanime nel più alto grado è colui che è degno di grandi cose: che farebbe, se non fosse degno di tanto? Il magnanimo, dunque, da una parte è un estremo per la grandezza di ciò di cui è degno, dall’altra è un medio, perché si stima come si deve: si stima, infatti, in conformità col suo autentico merito. [15] Gli altri, invece, eccedono o difettano. Se, dunque, il magnanimo è colui che si stima degno di cose grandi, e lo è veramente, e se l’uomo più magnanimo è quello che si stima degno delle cose più grandi, e lo è, il suo oggetto per eccellenza sarà una cosa sola. D’altra parte, "essere degno di" si dice in relazione ai beni esterni: il più grande di essi ammetteremo che è quello che offriamo in omaggio agli dèi, ed a cui soprattutto aspirano gli uomini di elevata dignità, e che è la ricompensa per le azioni più belle. [20] Ora, cosa di tale natura è l’onore, giacché questo è certamente il più grande dei beni esteriori. Dunque, è riguardo all’onore e al disonore che il magnanimo si comporta come si deve. Ma anche senza bisogno di ragionarci su è manifesto che i magnanimi hanno come oggetto l’onore, perché è dell’onore soprattutto che i grandi uomini si ritengono degni, ma secondo il loro merito reale. Il pusillanime, invece, difetta nello stimarsi, sia in rapporto a se stesso [25] sia in confronto con ciò di cui si ritiene degno il magnanimo. D’altra parte, il vanitoso eccede in rapporto a se stesso, ma certo non in confronto con il magnanimo. Il magnanimo, se è vero che è degno delle cose più grandi, dovrà essere l’uomo più perfetto: infatti, degno di cosa più grande è chi è più perfetto, e degno delle cose più grandi di tutte è il più perfetto di tutti. In conclusione, chi è veramente magnanimo deve essere buono. E [30] si dovrà pensare che appartiene al magnanimo ciò che è grande in ciascuna virtù. In ogni caso non si armonizza affatto col carattere del magnanimo fuggire a gambe levate, né commettere ingiustizia: a quale scopo commetterà cattive azioni uno che non fa gran conto di nulla? Se lo si esamina nei particolari, si potrà vedere che è affatto ridicolo il magnanimo che non sia buono. E non sarebbe neppure degno di onore [35] se fosse cattivo: l’onore, infatti, è ricompensa della virtù ed è tributato ai virtuosi. [1124a] Sembra, dunque, che la magnanimità sia come un ornamento delle virtù, giacché le rende più grandi, e non può nascere senza di quelle. Per questa ragione è difficile essere veramente un uomo magnanimo: infatti, non è possibile esserlo senza una virtù perfetta. La magnanimità, [5] dunque, ha come oggetto per eccellenza onore e disonore: e degli onori grandi e tributati dagli uomini di valore egli gioirà con misura, nella convinzione di ricevere ciò che gli spetta in proprio, o anche meno (giacché non può esserci un onore degno di una virtù perfetta), ma tuttavia lo accetterà, se non altro perché gli uomini non hanno niente di meglio da offrirgli. [10] Ma dell’onore tributato da gente qualsiasi e per piccole cose non si curerà assolutamente, perché non è di questi onori che è degno. E parimenti anche nel caso del disonore, perché nessun disonore può giustamente riguardarlo. Dunque, come s’è detto, il magnanimo ha come oggetto per eccellenza gli onori; ma, tuttavia, anche riguardo alla ricchezza, al potere, alla buona e cattiva fortuna [15] si comporterà con misura, comunque avvenga, e non sarà troppo lieto se avrà buona fortuna né troppo afflitto se l’avrà cattiva. E non proverà questi sentimenti neppure riguardo all’onore, che pure è il valore più grande. Il potere e la ricchezza, infatti, sono desiderabili a causa dell’onore; per lo meno, coloro che posseggono quelle cose vogliono essere, in virtù di esse, onorati: per colui per il quale anche l’onore è piccola cosa, saranno piccole cose anche tutte le altre. [20] Ed è per questo che si ritiene che i magnanimi siano uomini che guardano tutto dall’alto. D’altra parte, si ritiene che anche le occasioni favorevoli contribuiscano alla magnanimità. I nobili, infatti, e coloro che detengono il potere o la ricchezza, vengono stimati degni di onore perché occupano una posizione superiore, e tutto ciò che è superiore nel bene viene onorato di più. Perciò simili occasioni favorevoli rendono gli uomini più magnanimi, perché c’è gente che li onora. [25] Ma per la verità solo l’uomo buono è tale da essere onorato; se poi uno possiede entrambe le cose, fortuna e virtù, la gente lo stima ancor più degno di onore. D’altra parte, coloro che possiedono i beni dovuti alla fortuna senza la virtù non hanno il diritto di stimarsi degni di grandi cose, né è corretto chiamarli magnanimi: questo non è possibile senza una virtù perfetta. Coloro, poi, [30] che possiedono tali beni diventano sprezzanti e arroganti. Senza la virtù, infatti, non è facile reggere adeguatamente i doni della fortuna: ma non potendo reggerli e credendo di essere superiori agli altri, li disprezzano, mentre essi stessi, [1124b] poi, fanno tutto quello che passa loro per la testa. Infatti essi imitano il magnanimo pur non essendogli simili, e lo fanno in quello che possono: da una parte, dunque, non agiscono secondo virtù e dall’altra disprezzano [5] gli altri. Ma mentre il magnanimo, in effetti, disprezza a buon diritto poiché egli giudica secondo verità, la massa lo fa a caso. L’uomo magnanimo non ama i piccoli rischi né i rischi in genere, perché li stima poco, ma ama i grandi rischi, e, quando è in pericolo, non risparmia neppure la propria vita, perché pensa che non sempre la vita merita di essere vissuta. Ed è capace di beneficare, [10] ma si vergogna di essere beneficato, giacché la prima cosa è propria di chi è superiore, la seconda di chi è inferiore. Inoltre, è portato a rendere più di quanto riceve: in questo modo, infatti, chi ha preso l’iniziativa di beneficarlo contrarrà un debito con lui e si troverà ad essere beneficato. Si ritiene poi anche che i magnanimi si ricordino di chi hanno beneficato, ma non di coloro da cui hanno ricevuto benefici (infatti, chi riceve un beneficio è inferiore a chi lo fa, e invece l’uomo magnanimo vuole essere superiore), e [15] dei benefici fatti sente parlare con piacere, di quelli ricevuti, invece, con dispiacere. Questa è la ragione per cui Teti non ricorda a Zeus i benefici che gli ha reso80, come gli Spartani non li ricordano agli Ateniesi81, bensì ricordano i benefici che hanno ricevuto. Caratteristico, poi, del magnanimo è anche il non chiedere nulla a nessuno, o di farlo con ripugnanza, ma di rendersi utile con prontezza, e di fare il grande con gli uomini altolocati e fortunati, [20] e il modesto, invece, con quelli di medio livello. Essere superiore ai primi è difficile e glorioso, essere superiore ai secondi, invece, è facile, e menare vanto sui primi non è cosa priva di nobiltà, ma farlo a spese degli umili è volgare, come usare la forza contro i deboli. Inoltre, è proprio del magnanimo non mettersi al posto d’onore, né dove primeggiano altri, anzi essere schivo e temporeggiare, a meno che non sia in gioco [25] un grande onore o una grande opera, e compiere poche imprese, ma importanti e gloriose. Ed è necessario anche che egli mostri apertamente i suoi odi e le sue amicizie (infatti, è tipico di chi ha paura il nascondere i propri sentimenti, cioè preoccuparsi più di ciò che pensa la gente che della verità), e che parli ed agisca apertamente: deve essere uno che parla liberamente perché non fa conto dell’opinione altrui, [30] e perché dice la verità, a meno che non usi l’ironia con la massa. Inoltre, non può prendere la propria norma di vita da un altro, [1125a] a meno che non si tratti di un amico, ché sarebbe un comportamento servile. Questa è la ragione per cui tutti gli adulatori sono servili e i tapini sono adulatori. Non è facile all’ammirazione, perché per lui niente è grande. Né è incline al rancore: non è del magnanimo tenere a mente, specialmente i torti subiti, bensì [5] piuttosto sorvolare. E non è pettegolo: non parlerà né di se stesso né di altri, giacché non gli importa di essere lodato né che gli altri siano biasimati (né d’altra parte è proclive a lodare); perciò non parla mai male di nessuno, neppure dei nemici, se non per insolenza deliberata. Per quanto riguarda le cose necessarie o di poco conto, è quello che si lamenta [10] e che chiede di meno, giacché comportarsi così sarebbe da uomo che si preoccupa troppo di queste cose. Ed è disposto a possedere cose belle ed infruttuose, piuttosto che cose fruttuose ed utili: infatti, ciò è più consono ad un uomo autosufficiente. Infine, si ritiene comunemente che l’incedere tipico del magnanimo sia lento, la sua voce grave, e l’eloquio pacato; non è frettoloso, infatti, [15] chi si preoccupa solo di poche cose, né concitato chi non stima importante nessuna cosa: al contrario, alzare la voce e affrettare l’andatura derivano dalla concitazione e dalla fretta.
Tale è, dunque, il magnanimo, mentre chi difetta è pusillanime e chi eccede è vanitoso. Orbene, comunemente si ritiene che neppure costoro siano malvagi (infatti, non fanno del male), ma solo uomini che errano. Infatti, il pusillanime, [20] pur essendone degno, priva se stesso appunto dei beni di cui è degno, e sembra avere in sé qualcosa di malvagio per il fatto di non ritenersi degno dei beni e di non conoscere se stesso: se si conoscesse aspirerebbe alle cose di cui è degno, perché, se non altro, sono dei beni. Tuttavia, uomini di questo tipo non sono ritenuti sciocchi, ma, piuttosto, timidi. Tale opinione di sé, poi, sembra che li renda anche peggiori: [25] ciascuna categoria di uomini, infatti, tende ai beni corrispondenti al proprio valore, mentre i pusillanimi si astengono anche dalle azioni e dalle occupazioni belle, nella convinzione di non esserne degni, ed allo stesso modo si comportano di fronte ai beni esterni. I vanitosi, invece, sono sciocchi e non conoscono se stessi, e ciò è evidente. Infatti, pur non essendone degni, si impegnano in imprese onorevoli, ma poi vengono smentiti dai fatti. [30] Essi si adornano nell’abito, nell’aspetto esteriore e così via, e vogliono che le loro fortune siano anche note a tutti, e ne parlano come se avessero l’intenzione di farsi tributare onori in considerazione di esse. Alla magnanimità si contrappone di più la pusillanimità che non la vanità: quella, infatti, è più comune e peggiore. La magnanimità, dunque, [35] riguarda l’onore, un onore grande, come s’è detto82.
4. [Il giusto amore per gli onori].
[1125b] Ma sembra che anche riguardo all’onore ci sia una virtù, come abbiamo detto nella prima trattazione83, che ha, si ammetterà, uno strettissimo rapporto con la magnanimità, come anche la liberalità ce l’ha con la magnificenza. Quest’altra virtù e la liberalità, infatti, non hanno a che fare con ciò che è grande, [5] ma ci pongono nella dovuta disposizione verso le cose misurate e piccole. Come nel prendere e nel donare beni materiali esiste una medietà e un eccesso e un difetto, così anche nel desiderio di onore c’è un più e un meno di ciò che si deve, e c’è una fonte da cui si deve e un modo in cui si deve. Infatti, biasimiamo l’ambizioso perché aspira all’onore più di quanto si deve e da fonte da cui non si deve, [10] ma anche il non ambizioso in quanto preferisce non essere onorato neppure per le belle azioni. Ci sono delle volte in cui lodiamo l’ambizioso perché virile ed amante del bello, e il non ambizioso perché misurato e moderato, come abbiamo detto anche nella prima trattazione. Ma è chiaro che, poiché "essere amante di questo o di quello" si dice in molti sensi, noi non [15] sempre riferiamo alla stessa cosa l’espressione "amante degli onori" (ambizioso), ma quando lo lodiamo lo riferiamo all’amare l’onore più che non faccia la massa, quando lo biasimiamo lo riferiamo all’amare l’onore più di quanto si deve. Ma poiché questa medietà non ha nome, i due estremi sembra che se ne disputino il posto come se fosse vacante. Ma nelle cose in cui c’è eccesso e difetto c’è anche il mezzo: ora, si desidera l’onore sia di più sia di meno di quanto [20] si deve; dunque, è possibile desiderarlo anche come si deve: e quindi viene lodata questa disposizione, che è una medietà senza nome relativa all’onore. Confrontata con l’ambizione, appare mancanza di ambizione; ma, confrontata con la mancanza di ambizione, appare ambizione; confrontata con entrambe, sembra essere in certo qual modo sia l’una sia l’altra. E sembra che questo avvenga anche nel caso delle altre virtù. Ma qui la contrapposizione [25] appare tra gli estremi per il fatto che il mezzo non ha un proprio nome.
5. [La bonarietà].
La bonarietà è la medietà riguardo ai sentimenti d’ira; ma, poiché il mezzo è senza nome e quasi senza nome sono anche gli estremi, noi attribuiamo al mezzo il nome di "bonarietà", benché essa inclini verso il difetto, che non ha nome. Ma l’eccesso si potrebbe chiamare irascibilità. [30] Infatti, qui la passione è l’ira, e le cause che la producono sono molte e diverse. Orbene, colui che si adira per ciò che si deve e con chi si deve, ed inoltre come e quando e per quanto tempo si deve, viene lodato: costui, dunque, sarà un uomo bonario, se è vero che la bonarietà viene lodata. Il bonario, infatti, vuole essere imperturbabile, cioè non lasciarsi trascinare dalla passione, [35] bensì adirarsi nel modo, per i motivi e per il tempo che la ragione prescrive. [1126a] Ora, comunemente si ritiene che egli pecchi piuttosto per difetto: l’uomo bonario infatti non è vendicativo, ma piuttosto portato al perdono. Il difetto, invece, che sia una specie di indifferenza all’ira o quello che vi pare, viene biasimato. Infatti, quelli che non si adirano per i motivi per cui [5] si deve passano per sciocchi, e anche quelli che non si adirano nel modo in cui si deve, né quando né con chi si deve. Si ritiene allora che un tale uomo non sia sensibile né provi dolore, e, poiché non si adira, che non sia capace di difendersi. D’altra parte, sopportare di essere trascinato nel fango e sorvolare se vi sono trascinati gli amici, è atteggiamento da schiavi. L’eccesso, poi, si verifica in tutti i modi (ci si può adirare, infatti, con chi non si deve, [10] per motivi per cui non si deve, di più, più rapidamente e per più tempo di quanto si deve); tuttavia, se non altro, non tutti questi eccessi si presentano nella medesima persona. Non sarebbe, infatti, possibile, giacché il male distrugge anche se stesso, e quando è totale diventa insopportabile. Orbene, gli irascibili si adirano rapidamente e con chi non si deve e per motivi per cui non si deve, e più di quanto [15] si deve, ma la loro ira rapidamente anche cessa: e questo è il lato più bello del loro carattere. Questo, poi, accade loro perché non trattengono l’ira, ma per la loro vivacità reagiscono in modo che sia chiaro, e poi la loro ira cessa. I collerici, poi, sono eccessivamente vivaci e si adirano contro tutto ed in ogni occasione: di qui il loro nome. I rancorosi [20] sono difficili da riconciliare e restano adirati per molto tempo, giacché trattengono l’impulso. Ma la quiete in loro ritorna quando abbiano reso la pariglia: la vendetta, infatti, fa cessare l’ira, producendo in loro un piacere al posto del dolore precedente. Se questo, invece, non avviene, sentono il peso del loro risentimento, perché, non essendo esso manifesto, nessuno cerca di persuaderli a calmarsi, e d’altra parte digerire [25] l’ira in se stessi richiede tempo. Tali uomini sono molto molesti a se stessi e agli amici più stretti. Chiamiamo poi "difficili" quelli che si inquietano per motivi per cui non si deve, di più e per più tempo di quanto si deve, e non cambiano sentimento senza aver vendicato o punito l’offesa ricevuta. Alla bonarietà, poi, contrapponiamo soprattutto l’eccesso, [30] perché è più frequente: il desiderio di vendetta è più umano, e gli uomini difficili sono quelli che si adattano peggio alla vita sociale. Ciò che abbiamo detto in precedenza84 risulta chiaro anche da ciò che diciamo ora. Non è facile, in effetti, determinare come, con chi, per quali motivi e per quanto tempo ci si debba adirare e fino a che punto si fa bene o si sbaglia. [35] Chi, infatti, devia di poco, sia nel senso del più sia nel senso del meno, non viene biasimato; talora, infatti, coloro che difettano li lodiamo [1126b] e li diciamo bonari, e diciamo virili quelli che si adirano, intendendo che essi sono capaci di comandare. Per conseguenza, quanto e come uno debba trasgredire per dover essere biasimato non è facile stabilire col ragionamento: son cose che rientrano nell’ambito dei fatti particolari, ed il giudizio su di esse spetta alla sensazione. Ma almeno questo [5] è chiaro, che lodevole è la disposizione di mezzo, secondo la quale ci adiriamo con chi si deve, per i motivi per cui si deve, come si deve e così via, mentre gli eccessi e i difetti sono biasimevoli, e poco se sono piccoli, di più se sono più grandi, e molto se sono molto grandi. È chiaro, quindi, che bisogna attenersi alla disposizione di mezzo. [10] Si consideri concluso il discorso sulle disposizioni relative all’ira.
6. [L’affabilità].
Nelle compagnie, nel vivere insieme, nei rapporti reciproci attraverso le parole e le azioni, alcuni sono ritenuti compiacenti, cioè quelli che per far piacere lodano tutto e non contraddicono in nulla, ma pensano loro dovere non procurare alcuna molestia a quelli che incontrano; altri che, al contrario dai precedenti, [15] contraddicono in tutto e non si rendono conto per niente di procurare molestia, sono chiamati scorbutici e litigiosi. Che, dunque, le suddette disposizioni sono da biasimare è chiaro; ed è chiaro che è da lodare quella di mezzo, in conformità con la quale si accetterà ciò che si deve e come si deve, e ci si inquieterà allo stesso modo. Ad essa non è stato dato un nome, [20] ma ciò a cui somiglia di più è l’amicizia. Infatti, colui che si conforma a questa disposizione mediana è quel tipo di uomo che noi vogliamo intendere quando diciamo "buon amico", se si aggiunge l’affetto. Essa, poi, differisce dall’amicizia, perché è priva di sentimento e di affetto per coloro con cui è in relazione: infatti, non è per l’amore o per l’odio che si accetta come si deve ciascun tipo di comportamento, ma per il fatto di avere questa disposizione. [25] Ci si comporterà allo stesso modo, infatti, con sconosciuti e con conoscenti, con familiari e con estranei, salvo a comportarsi in ciascun tipo di relazione come a questa si conviene: non è conveniente, infatti, avere la stessa cura o la stessa preoccupazione per familiari e per forestieri. In generale, dunque, si è detto che quest’uomo si comporterà in compagnia come si deve, ma sarà riferendosi al bello e all’utile che egli mirerà [30] a non dare molestia o a rendersi gradevole agli altri. Sembra, infatti, che tale virtù riguardi i piaceri e i dolori che si producono nelle compagnie: prova repulsione per tutte quelle compagnie in cui per lui non è bello o è dannoso rendersi gradevole, e preferisce riuscire molesto. Se, invece, a chi la compie l’azione porta vergogna, e vergogna non piccola, oppure danno, mentre il contrastarla porta [35] solo un piccolo dolore, non vi acconsentirà, ma vi si opporrà. Avrà, poi, rapporti differenti con persone di rango elevato e con gente qualsiasi, [1127a] con le persone più note e con quelle meno note, e così via, a seconda delle altre distinzioni, attribuendo a ciascuna categoria di persone ciò che si conviene. Ritiene preferibile in sé rendersi gradevole e stare attento a non risultare molesto, tenendo come guida le conseguenze, quando queste sono più importanti del piacere e del dolore, [5] cioè il bello e l’utile. Inoltre, in vista di un grande piacere futuro saprà arrecare anche piccole molestie. Tale è, dunque, l’uomo che qui occupa la posizione di mezzo, la quale però non ha nome. Di coloro che si rendono gradevoli agli altri, quello che mira ad essere piacevole senz’altro scopo è un uomo compiacente, ma quello che lo fa per procurarsi qualche vantaggio, sia in denaro sia in beni acquistabili col denaro, [10] è un adulatore. Chi, invece, è sgradevole in tutti i casi si è detto che è scorbutico e litigioso. Gli estremi, infine, sembrano a prima vista contrapposti tra di loro, per il fatto che il mezzo non ha un proprio nome.
7. [La sincerità].
Pressappoco nel medesimo campo sta anche la medietà tra millanteria e ironia: ma anche questa è anonima. Non è poi tanto male esaminare anche [15] tali disposizioni: anzi, conosceremo meglio ciò che riguarda il carattere, conducendo un esame particolareggiato, e saremo più persuasi che le virtù sono delle medietà, vedendo con uno sguardo d’insieme che è così in tutti i casi. Di coloro che nella vita di relazione impostano i loro rapporti in funzione del piacere e del dolore si è già parlato85. Parliamo ora di coloro che sono veraci o mentitori [20] allo stesso modo sia nelle parole sia nelle azioni, sia in ciò che pretendono di essere. Come si ritiene comunemente, dunque, il millantatore è uno che fa mostra di titoli di merito che non possiede o di più grandi di quelli che possiede; l’ironico, al contrario, nega i titoli di merito che ha o li attenua: infine, chi sta nel mezzo, schietto com’è, è sincero sia nella vita sia nelle parole, [25] riconoscendo i titoli di merito che possiede, senza aumentarli né diminuirli. Ma in ciascuna di queste disposizioni è possibile agire sia per qualche scopo sia per nessuno scopo. Quale ciascun uomo è, tali sono le cose che dice e fa, cioè tale è il modo in cui vive, a meno che non agisca in vista di un qualche fine particolare. Per se stessa, poi, la falsità è cattiva e biasimevole, mentre la verità è per se stessa bella e [30] lodevole. Così anche l’uomo sincero, poiché sta nel mezzo, è lodevole, mentre gli uomini falsi, in entrambi i sensi suddetti, sono biasimevoli, ma è più biasimevole il millantatore. Parliamo ora dell’uno e dell’altro, e per primo dell’uomo sincero. Non parliamo, infatti, di chi è sincero nei rapporti d’affari, né nelle situazioni pertinenti all’ingiustizia o alla giustizia (questo infatti riguarderà un’altra virtù), [1127b] ma di chi è sincero nelle cose in cui, non avendovi lui alcun interesse, è sincero sia nelle parole sia nella vita, solo perché per intrinseca disposizione è fatto così. Si riconoscerà, poi, che un uomo simile è virtuoso. Infatti, colui che ama la verità ed è sincero in ciò che non ha importanza, sarà ancor più sincero [5] in ciò che ha importanza: si guarderà infatti come da qualcosa di brutto dalla menzogna, che egli eviterebbe d’altra parte anche per se stessa: ed un uomo simile è lodevole. Egli, poi, inclina piuttosto verso l’attenuazione che non verso l’esagerazione della verità: questo, infatti, è più conveniente, per il fatto che gli eccessi sono spiacevoli. Colui, poi, che pretende di avere meriti più grandi di quelli che gli competono, [10] senza avere alcun fine in vista, è simile ad un uomo dappoco (altrimenti non godrebbe del falso), ed è manifestamente più fatuo che cattivo: se invece ha in vista un fine particolare, chi lo fa in vista della gloria o dell’onore non è troppo biasimevole (è il caso del millantatore), ma chi lo fa per denaro o per ciò che procura denaro, è più vergognoso (d’altra parte il millantatore è tale non sulla base di una potenzialità, ma sulla base di una scelta: [15] egli, infatti, è millantatore come conseguenza di una sua disposizione, cioè perché è fatto così). Così anche il mentitore: uno è tale perché gli piace la menzogna in sé, l’altro perché desidera fama o guadagno. Coloro che si vantano per desiderio di gloria fingono di avere meriti tali da suscitare lodi o felicitazioni, quelli invece che lo fanno per desiderio di guadagno fingono di avere meriti da cui il prossimo può trarre vantaggio e [20] di cui è possibile tenere nascosta la mancanza; per esempio, l’essere indovino, sapiente, medico. Per questa ragione i più simulano tali cose e se ne vantano, perché in loro ci sono le caratteristiche suddette. Gli ironici, invece, poiché dicono meno della realtà, sono manifestamente più raffinati nei loro costumi: si ritiene, infatti, che non parlino in vista di un guadagno, bensì per evitare l’ostentazione. [25] E, soprattutto, costoro negano di possedere titoli di merito, come faceva, per esempio, anche Socrate. Coloro, poi, che negano di possedere anche meriti piccoli ed evidenti sono chiamati impostori e sono più spregevoli. E talora si tratta manifestamente di millanteria, come, per esempio, nel caso dell’abbigliamento degli Spartani, giacché sia l’eccesso sia l’esagerato difetto sono segni di millanteria. Coloro, invece, [30] che usano l’ironia con misura e che dissimulano meriti che non sono troppo comuni ed evidenti, sono manifestamente dei raffinati. Infine, è il millantatore che manifestamente si contrappone all’uomo sincero, perché è peggiore dell’ironico.
8. [Il garbo].
Nella vita, poi, c’è anche il riposo, ed in questo c’è posto per la distrazione accompagnata da divertimento: si ritiene comunemente che anche qui ci sia [1128a] un modo conveniente di stare in compagnia, e cose da dire, ma anche cose da ascoltare, come si deve. È evidente che anche in questo campo ci sono eccesso e difetto rispetto ad un giusto mezzo. Coloro, dunque, che esagerano nel far ridere sono ritenuti [5] buffoni e volgari, perché si affaticano a far ridere ad ogni costo, e cercano più di far ridere che di dire cose decorose e di non offendere colui che viene preso in giro. D’altra parte, quelli che non dicono essi stessi nulla che faccia ridere ma si irritano con coloro che lo fanno, sono stimati rozzi e duri. Infine, quelli [10] che scherzano con gusto sono chiamati spiritosi, in quanto sono versatili86, giacché le facezie, si pensa, sono dei movimenti del carattere, e, come si giudicano i corpi dai loro movimenti, così si giudicano anche i caratteri. E siccome il piacere di ridere è diffuso, e la maggior parte della gente si diverte a scherzare e a motteggiare più che non si debba, anche i buffoni [15] vengono chiamati spiritosi, perché sono divertenti: ma che questi differiscono, e non poco, dagli spiritosi veri, è chiaro da quanto abbiamo detto. Alla disposizione di mezzo appartiene anche il garbo: è proprio dell’uomo garbato dire e ascoltare solo le cose che si intonano al carattere di un uomo virtuoso e libero. Ci sono, infatti, cose che un tale uomo può convenientemente dire [20] o ascoltare a mo’ di scherzo, e lo scherzo dell’uomo libero differisce da quello dell’uomo servile, come pure lo scherzo dell’uomo bene educato differisce da quello dell’uomo privo di educazione. Questa differenza si può vedere anche dal confronto delle commedie antiche con le moderne: per gli autori antichi era divertente la battuta oscena, per i moderni piuttosto il sottinteso: e non è piccola la differenza tra questi due atteggiamenti [25] dal punto di vista del decoro. Dobbiamo, dunque, definire il buon motteggiatore col fatto che dice cose non sconvenienti ad un uomo libero, o col fatto che non affligge, anzi rallegra chi l’ascolta? O anche tale caratteristica rimane indeterminata? Infatti, per uno è odiosa o piacevole una cosa, per un altro un’altra. Ma le cose che dice accetterà anche di ascoltarle, giacché si ritiene che ciò che tollera di ascoltare egli possa anche farlo. Ma non per questo scherzerà sempre, [30] perché il motteggio è una specie di oltraggio, ed alcune forme di oltraggio sono proibite dai legislatori; forse si sarebbe dovuto proibire anche il motteggiare. Per conseguenza, l’uomo raffinato e libero avrà questa disposizione, perché egli è legge a se stesso. Tale è dunque l’uomo del giusto mezzo, uomo di garbo o uomo di spirito che dir si voglia. Il buffone, invece, è schiavo del suo desiderio di far ridere, e non risparmia né se stesso [35] né gli altri pur di suscitare il riso, [1128b] e dice cose, nessuna delle quali l’uomo raffinato direbbe; anzi, alcune di esse non le ascolterebbe neppure. Il rustico, poi, è inadatto a tali compagnie: non vi contribuisce in niente ed è sgradevole a tutti. Il riposo, poi, ed il divertimento si ritiene che siano necessari nella vita. [5] Nella vita corrente, dunque, tre sono le medietà di cui abbiamo parlato, e tutte riguardano i rapporti reciproci fatti di parole e di azioni. Ma differiscono perché una riguarda la verità, le altre due il piacere. Di quelle che riguardano il piacere, infine, una si manifesta nei divertimenti, l’altra nelle compagnie che si costituiscono nelle altre occasioni della vita.
9. [Il pudore].
[10] Per quanto riguarda il pudore, non conviene parlarne come di una virtù, giacché assomiglia ad una passione più che ad una disposizione morale. Viene definito, comunque, come una specie di paura del disonore, e produce effetti molto simili a quelli della paura di fronte ai pericoli: infatti, coloro che si vergognano arrossiscono, mentre quelli che temono la morte impallidiscono. Dunque, [15] entrambi hanno manifestamente carattere fisico, in qualche modo; il che, si pensa, è tipico più della passione che non della disposizione morale. Questa passione, d’altra parte, non si addice ad ogni età, ma solo alla giovinezza. Noi pensiamo infatti che i giovani debbano essere pudichi per il fatto che, vivendo di passione, commettono molti errori, ma che ne sarebbero trattenuti dal pudore. E noi lodiamo i giovani pudichi, mentre [20] nessuno loderebbe un uomo maturo per il fatto che è sensibile alla vergogna: noi pensiamo, infatti, che un uomo maturo non dovrebbe fare nulla di cui si debba vergognare. Infatti, la vergogna non è tipica dell’uomo virtuoso, se è vero che essa nasce per effetto delle cattive azioni (tali azioni non si devono commettere; se poi alcune azioni sono brutte veramente ed altre lo sono solo secondo l’opinione della gente, non fa alcuna differenza: non si devono commettere né le une né le altre, [25] in modo da non dover provar vergogna). Invece è proprio dell’uomo dappoco avere una natura tale da commettere qualche azione vergognosa. Ed avere una disposizione di carattere per cui si prova vergogna se si è commessa un’azione vergognosa, e pensare che per questo si è un uomo virtuoso, è assurdo: il pudore, infatti, si riferisce ad atti volontari, e l’uomo virtuoso non commetterà mai cattive azioni volontariamente. Solo per un’ipotesi [30] il pudore potrebbe essere virtuoso: nel caso in cui uno si vergogni delle proprie azioni; ma questo non può verificarsi nel campo delle virtù. Infine, se l’impudenza, cioè il non vergognarsi di commettere azioni brutte, è una cosa miserabile, non per questo sarà virtuoso il vergognarsi di commettere azioni simili. Anche la continenza non è una virtù, bensì una specie di mescolanza di virtù e di vizio: [35] ma di lei si darà spiegazione in seguito87. La giustizia sarà ora il tema della nostra trattazione.