ARISTOTELE
ETICA A NICOMACO
LIBRO IX
1. [II valore di scambio delle amicizie e nei contratti].
E’ la proporzione che pareggia le parti e salva l’amicizia in tutte le amicizie di tipo eterogeneo, come s’è detto276; ad esempio, nell’amicizia politica il calzolaio riceve, in cambio delle scarpe, una remunerazione [35] adeguata al valore, e così pure il tessitore e tutti gli altri artigiani. [1164a] Ma, in quel caso, si è apprestata come misura comune la moneta277, e, per conseguenza, tutto viene ad essa rapportato e con essa misurato. Invece, nell’amicizia amorosa talora l’amante si lamenta che, pur amando moltissimo, non è riamato, perché, [5] in qualche caso, non ha nulla di amabile; ma spesso è l’amato a lamentarsi, perché l’amante prima gli ha promesso di tutto, ora non mantiene nulla. Ma tali cose succedono quando l’uno ama l’amato per il piacere, l’altro ama l’amante per l’utile, ma nessuno dei due ottiene ciò che desidera. Se l’amicizia si fonda su questi motivi, la sua dissoluzione avviene [10] quando non si producono gli effetti in vista dei quali i due prima si amavano: non era, infatti, l’amico per se stesso che essi amavano, ma le soddisfazioni che ne derivavano, e queste non sono permanenti; è per questo che non sono permanenti neanche le amicizie. Invece, l’amicizia fondata sui caratteri, poiché sussiste per se stessa, è permanente, come s’è detto278. Sorgono, poi, contrasti quando essi ottengono cose diverse e non quelle che desideravano: è come non ottenere niente, infatti, quando [15] non si ottiene ciò a cui si aspira, come è il caso di quel tale279 che promise ad un citaredo che la sua ricompensa sarebbe stata tanto maggiore quanto meglio avesse cantato: al mattino, quando il citaredo reclamò il mantenimento delle promesse, l’altro gli rispose di aver già dato piacere in cambio di piacere. Orbene, se fosse stato il piacere ciò che ciascuno dei due voleva, sarebbe stato sufficiente: ma se uno vuole un godimento, l’altro un guadagno, e l’uno l’ottiene [20] e l’altro no, le condizioni del loro reciproco accordo non saranno in tal modo soddisfatte, giacché ciò a cui si è interessati è ciò di cui ci si trova ad aver bisogno, ed è per ottenerlo che si dà ciò che si ha. Ma a chi spetta stabilire il valore, a chi dà o a chi riceve? In effetti, chi dà sembra che si rimetta a chi riceve. Il che, si dice, faceva anche Protagora280: [25] quando insegnava qualcosa, invitava il discepolo a fare una stima di quanto riteneva che valesse ciò che aveva imparato, e tanto prendeva. Ma in simili circostanze alcuni approvano il detto "mercede all’uomo"281.
Ma quelli che prima prendono il denaro, e poi non fanno nulla di ciò che hanno promesso, perché le loro promesse sono esagerate, è naturale [30] che incorrano in accuse, perché non portano a termine ciò che hanno concordato. Ma questo, forse, i Sofisti sono costretti a farlo, perché, se no, nessuno darebbe del denaro per quello che essi sanno. Costoro, dunque, se non fanno ciò di cui hanno ricevuto la mercede, incorrono in accuse. Ma nei casi in cui non c’è un accordo sulla remunerazione del servizio reso, coloro [35] che danno agli amici per loro stessi, come s’è detto282, sono irreprensibili (di tal natura è, infatti, l’amicizia secondo virtù), [1164b] e la ricompensa deve essere stabilita in conformità con la scelta283 (giacché è questa che è propria dell’amico e della virtù). E così sembra che ci si debba comportare anche nei rapporti con chi ci mette a parte della filosofia, giacché il suo valore non si misura in denaro, né vi può essere un onore che ne uguagli il valore, ma [5] forse è sufficiente rendere ciò che si può, come si fa nei riguardi degli dèi e dei genitori. Ma se il dono non ha questa natura, bensì ha uno scopo interessato, è certo che è assolutamente necessario che il contraccambio sia ritenuto da ambo le parti adeguato al valore del servizio reso; e se questo non avviene, non solo sarà ritenuto necessario che il valore lo stabilisca chi ha ricevuto per primo, [10] ma sarà anche giusto: se l’altro riceverà in compenso tanto quanto è stato l’utile o il piacere ottenuto da costui, avrà da lui ricevuto il giusto contraccambio. Infatti, anche nelle merci in vendita è manifesto che avviene così, anzi in certi luoghi vi sono delle leggi che proibiscono processi relativi a contratti volontari, giacché si pensa che con colui al quale si è fatto credito ci si debba riconciliare [15] nei termini con cui si era concluso il contratto. Si pensa, infatti, che sia più giusto che il valore lo stabilisca colui di cui ci si è fidati, che non colui che ha avuto fiducia. La maggior parte delle cose, infatti, non sono valutate allo stesso prezzo da chi le possiede e da chi vuole ottenerle: a ciascuno appaiono di grande valore le cose proprie e le cose che egli dà; ma, tuttavia, il contraccambio avviene al prezzo stabilito [20] da chi acquista. Ma certo bisogna valutare la cosa non al prezzo che appare adeguato quando la si ha, bensì al prezzo a cui la si valuta prima di possederla.
2. [II dovere nei vari tipi di amicizia].
Anche quanto segue comporta un’aporia: per esempio, è al proprio padre che bisogna attribuire tutto ed ubbidire in tutto, oppure, quando si è malati, è al medico che bisogna dar fiducia, e, quando c’è da eleggere un generale, è l’uomo abile in guerra che si deve eleggere? [25] Allo stesso modo, è all’amico, o piuttosto all’uomo di valore che si devono rendere servigi? Bisogna dimostrare riconoscenza al benefattore, o, piuttosto, fare un dono al camerata, quando non siano possibili insieme entrambe le cose? Non è forse vero che non è facile definire con precisione tutte le questioni di questo tipo? Esse, infatti, presentano molte e svariate differenze per grandezza, piccolezza, bellezza e [30] necessità. Ma che non dobbiamo concedere tutto alla medesima persona, è chiaro; e così pure che per lo più bisogna contraccambiare i benefici piuttosto che fare dei piaceri ai camerati, come pure restituire un prestito a un creditore piuttosto che fare un dono ad un camerata. Ma, certamente, neppure questo sempre. Per esempio: uno, che è stato liberato dietro riscatto dai rapitori, [35] deve a sua volta riscattare colui che l’ha liberato, chiunque egli sia, ovvero [1165a] deve restituirgli il prezzo del riscatto, se quello lo richiede anche senza essere stato rapito, oppure deve riscattare il proprio padre? Si riconoscerà, infatti, che si deve riscattare il proprio padre piuttosto che se stessi, perfino. Come, dunque, s’è detto284, in generale il debito va pagato, ma se il donare si presenta superiore per nobiltà o per necessità, è verso questo che bisogna propendere. [5] Talvolta, infatti, non è neppure equo ricambiare chi ha beneficato per primo: ciò avviene quando, da una parte, c’è uno che benefica chi egli sa che è uomo di valore, dall’altra, c’è uno il cui contraccambio andrebbe a chi egli ritiene che sia malvagio. Talvolta, poi, non si è tenuti a fare un prestito neppure per ricambiare chi ce ne ha fatto uno per primo: costui, infatti, ha fatto il prestito ad una persona onesta, nella convinzione di essere rimborsato, mentre l’altro non ha speranza di essere rimborsato [10] da un disonesto. Se, dunque, quello è veramente disonesto, la sua pretesa di un prestito non è equa; se, invece, non è disonesto ma è creduto tale, allora si riconoscerà che non si fa nulla di strano a rifiutare il prestito. Orbene, come s’è detto spesso285, le teorie sulle passioni e sulle azioni hanno la medesima determinatezza degli oggetti su cui vertono. Che, dunque, non si deve restituire a tutti le stesse cose, [15] che non si deve concedere tutto neppure al proprio padre, come neanche a Zeus si offrono tutti i sacrifici, è chiaro: ma, poiché diversi sono i servigi dovuti ai genitori, ai fratelli, ai camerati, ai benefattori, bisogna attribuire a ciascuno quelli che gli sono appropriati e confacenti. E così si fa, manifestamente: alle nozze si invitano i parenti, perché questi hanno in comune la stirpe [20] e, per conseguenza, tutte le azioni che la riguardano; anche ai funerali si pensa che siano soprattutto i parenti che devono intervenire, per la medesima ragione. Si riconoscerà che i figli devono soprattutto provvedere alla sussistenza dei genitori, poiché sono loro debitori, e perché è più bello in queste cose provvedere agli autori della propria esistenza che a se stessi. Ai genitori, poi, bisogna tributare onore come agli dèi, [25] ma non ogni tipo di onore: al padre, infatti, non si deve lo stesso onore che alla madre, né quello dovuto ad un sapiente o a un generale, bensì quello appropriato ad un padre, o, rispettivamente, ad una madre. E ad ogni anziano si deve rendere l’onore dovuto all’età, con l’alzarsi, il cedere il posto, e simili; ai camerati, invece, ed ai fratelli si deve concedere totale libertà di espressione e [30] comunanza di tutti i beni. Ai parenti, ai membri della stessa tribù, ai concittadini e a tutti gli altri bisogna sforzarsi di attribuire sempre ciò che è loro appropriato, e discernere ciò che si conviene a ciascuna categoria di persone a seconda del grado di parentela, della virtù o dell’utilità. Orbene, il giudizio è facile quando si tratta di persone della medesima categoria, ma è più laborioso quando si tratta di persone di categorie diverse. Ma non [35] per questo si deve rinunciarvi; bisogna, invece osservare le distinzioni quanto si può.
3. [Rottura dell’amicizia].
C’è, poi, anche un’aporia che riguarda lo sciogliersi o no dell’amicizia [1165b] verso persone che non restano le stesse. Non è forse vero che non è affatto strano che le amicizie fondate sull’utilità e sul piacere si sciolgano, quando non si hanno più questi vantaggi? È di quei vantaggi, infatti, che si era amici: venuti meno quelli, è naturale che non si ami più. Uno, poi, potrebbe lamentarsi, [5] se uno, amando per l’utilità o per il piacere, facesse finta di amare per il carattere. Come infatti abbiamo detto all’inizio286, la maggior parte dei contrasti tra gli amici nascono quando non sono amici nel modo in cui credono di esserlo. Orbene, quando uno si inganna e suppone di essere amato per il carattere, mentre l’altro non fa nulla di simile, [10] deve incolpare se stesso; quando, invece, resta ingannato dalla simulazione dell’altro, è giusto che accusi l’ingannatore, ancor più che se fosse un falsificatore di moneta, nella misura in cui l’oggetto della sua frode è più prezioso. Ma quando si accoglie nella propria amicizia uno che si ritiene buono, ma poi quello risulta malvagio e ce se ne accorge, si deve forse amarlo ancora? Non è forse vero che non è possibile, dal momento che non ogni cosa è amabile, [15] ma solo ciò che è buono? E, poi, l’uomo malvagio non è degno di essere amato, e non si deve amarlo. Infatti, non bisogna essere amanti del vizio, né rendersi simili al cattivo: si è poi detto287 che il simile è amico del simile. Bisogna, dunque, sciogliere l’amicizia subito? Non è forse vero che non bisogna farlo con tutti, ma solo con quelli la cui perversità sia incorreggibile, mentre quelli che hanno la possibilità di raddrizzarsi si deve aiutarli ad emendare il carattere, [20] più che non a ricostruire il patrimonio, tanto più quanto ciò è più nobile e più proprio dell’amicizia? Tuttavia, si ammetterà che chi scioglie l’amicizia in questo caso non fa nulla di strano; infatti, non è di un uomo di tal fatta che era amico; quindi, non essendogli possibile salvare l’amico che si è trasformato, se ne separa. E se, d’altra parte, rimane come è mentre l’altro diventa più virtuoso e cambia molto dal punto di vista della virtù, deve ancora trattare il primo come amico? Non bisogna forse riconoscere che è impossibile? [25] Quando la distanza tra i due diventa grande, questo risulta particolarmente evidente, come nel caso delle amicizie strette nell’infanzia: se, infatti, uno rimane fanciullo nel ragionamento mentre l’altro è già un uomo maturo, come potrebbero essere amici, dal momento che ad essi non piacciono più le stesse cose e non provano più le stesse gioie e gli stessi dolori? Infatti, non hanno più l’uno per l’altro questi sentimenti, [30] e senza di essi, come dicevamo288, non possono essere amici, giacché non è loro più possibile vivere insieme. Ma di questo si è già parlato289. Orbene, in tal caso, ci si deve comportare con l’altro non diversamente da come ci si comporterebbe se non fosse mai stato amico? Non si deve forse mantenere il ricordo della passata intimità, e, come pensiamo che si debba far piacere più agli amici che agli estranei, così [35] non si deve forse concedere qualche riguardo a coloro che amici sono stati, in ragione proprio della passata amicizia, quando la rottura non è risultata da un eccesso di perversità?
4. [I sentimenti dell’uomo verso se stesso e verso gli amici].
[1166a] I sentimenti di amicizia verso il prossimo, ed in base ai quali si definiscono le amicizie, sembrano derivare dai sentimenti che l’uomo ha verso se stesso. Infatti, definiscono amico chi vuole e fa il bene o ciò che gli appare tale per l’amico in se stesso, o chi vuole che l’amico esista e [5] viva per amore dell’amico stesso: è questo il sentimento che provano le madri per i figli, e gli amici che hanno avuto dei dissapori. Altri definiscono amico chi passa la sua vita con un altro ed ha i suoi stessi gusti, o chi prova dolori e gioie insieme con il suo amico: e questo succede soprattutto nel caso delle madri. Ed è con uno di questi elementi che [10] definiscono anche l’amicizia. Ciascuno di questi sentimenti l’uomo virtuoso lo prova verso se stesso (e anche gli altri in quanto suppongono di essere virtuosi: ma, come s’è detto290, misura di ciascun tipo d’uomo sembrano essere la virtù e l’uomo di valore). L’uomo virtuoso, infatti, concorda con se stesso, e desidera sempre le stesse cose con tutta l’anima. E, quindi, vuole [15] per se stesso ciò che è bene e tale gli appare, e lo fa (giacché è proprio dell’uomo buono praticare il bene in continuità) e a vantaggio di se stesso (a beneficio dell’elemento intellettivo291 che è in lui, elemento che si ritiene che costituisca ciascuno di noi): e vuole vivere e conservarsi, e che viva e si conservi soprattutto la parte con cui [20] pensa. Infatti, per l’uomo di valore è un bene esistere, e ciascuno vuole per sé il bene, ma nessuno sceglie di avere tutto a condizione di diventare un altro (giacché anche ora Dio possiede il bene292), ma rimanendo ciò che è: e si ammetterà che ciascuno è, o è soprattutto, la sua parte pensante. L’uomo virtuoso, inoltre, vuole passare la vita con se stesso, giacché ciò gli fa piacere: infatti, [25] il ricordo delle azioni che ha compiuto gli è gradito, e le sue aspettative per il futuro sono buone, e le buone aspettative sono piacevoli. E la sua mente abbonda di oggetti da meditare. Inoltre, egli prova dolori e gioie soprattutto con se stesso: ogni volta, infatti, è la stessa cosa che gli procura dolore e piacere, e non una volta l’una, una volta l’altra, perché, per così dire, non si pente mai. Quindi, è perché il virtuoso prova [30] verso se stesso ciascuno di questi sentimenti, e perché li prova verso l’amico come verso se stesso (l’amico, infatti, è un altro se stesso), che si pensa che l’amicizia sia un sentimento di questi, cioè che gli amici siano quelli che provano questi sentimenti. Si lasci perdere per il momento se è o non è possibile amicizia verso se stessi293; in base a quello che abbiamo detto, si ammetterà, d’altra parte, [35] che l’amicizia sussiste in quanto ci sono due o più termini, [1166b] e che il livello più alto dell’amicizia è simile all’amicizia verso se stessi.
Quello che abbiamo detto, poi, capita manifestamente anche alla massa degli uomini, anche se sono viziosi. Si può, quindi, dire che essi partecipano di questi sentimenti nella misura in cui compiacciono a se stessi e si ritengono virtuosi? [5] È certo che nessuno che sia completamente malvagio ed empio ne partecipa, neppure apparentemente. Quasi quasi, neppure negli uomini malvagi in generale si trovano tali sentimenti. Essi, infatti, sono discordi con se stessi, e desiderano cose diverse da quelle che in realtà vogliono, come gli incontinenti: scelgono, infatti, al posto delle cose che essi ritengono buone per loro, quelle piacevoli, che in realtà [10] sono dannose; altri, a loro volta, per viltà e pigrizia si astengono dal compiere le azioni che pur pensano essere le migliori per loro. Quelli, poi, che hanno compiuto molti terribili crimini e che sono odiati per la loro perversità, fuggono la vita e si uccidono. I malvagi cercano persone con cui passare il loro tempo, ma fuggono se stessi, [15] giacché si ricordano delle loro molte cattive azioni, anzi prevedono che ne commetteranno altre di simili, se rimangono soli con se stessi, ma se ne dimenticano se sono in compagnia d’altri. Non avendo nulla di amabile, non provano alcun sentimento amorevole verso se stessi. Uomini simili, poi, non provano gioie e dolori in unità con se stessi, perché nella loro anima c’è la guerra civile, [20] e una parte, per la sua perversità, soffre quando si astiene da certe azioni, mentre l’altra ne gode, e una parte tira in un senso, l’altra in un altro, come per farli a pezzi. E se non proprio nello stesso tempo, perché non è possibile soffrire e godere nello stesso tempo, ma almeno poco tempo dopo soffre perché ha goduto, e vorrebbe che non gli fossero risultate piacevoli le cose di cui ha goduto: [25] i malvagi, infatti, sono pieni di pentimento. L’uomo malvagio, quindi, manifestamente, non ha disposizioni amichevoli neppure verso se stesso, per il fatto che non ha nulla di amabile. Se, quindi, questo stato d’animo è troppo miserando, bisogna fuggire con tutte le proprie forze la malvagità e sforzarsi di essere virtuosi; così, infatti, si potrà essere amichevolmente disposti verso se stessi e diventare amici di altri.
5. [La benevolenza].
[30] La benevolenza assomiglia ad un sentimento di amicizia, ma non è amicizia: la benevolenza, infatti, può nascere anche verso chi non si conosce, e può rimanere nascosta, ma l’amicizia no. Questo si è detto anche prima294. Ma non è neppure una affezione. Infatti, non ha né tensione né desiderio, mentre l’affezione implica queste cose; e l’affezione si accompagna con l’intimità, [35] mentre la benevolenza nasce anche all’improvviso, come, per esempio, succede, anche nei riguardi degli atleti in gara: [1167a] si diventa, infatti, benevoli nei loro riguardi e si fanno propri i loro desideri, ma non si condivide con loro alcuna azione; come abbiamo detto, si diventa benevoli all’improvviso e si ama superficialmente. Quindi, la benevolenza sembra essere il principio dell’amicizia, come il principio dell’amore è il piacere derivante dalla vista: [5] nessuno ama, infatti, se prima non ha provato piacere per l’aspetto dell’altro, ma chi gode dell’aspetto di un altro non è detto che necessariamente ami; ciò avviene, invece, quando ne sente la mancanza, se è lontano, e ne desidera la presenza. Così pure, dunque, non è possibile essere amici se non si è cominciato a provare della benevolenza, mentre provare benevolenza non significa ancora amare, giacché si vuole soltanto il bene di coloro verso cui si è benevoli, ma non si agirebbe insieme con loro, [10] né ci si darebbe da fare per loro. Perciò, metaforicamente, si potrà dire che essa è una amicizia improduttiva, ma se dura nel tempo e giunge all’intimità diventa amicizia, ma non quella fondata sull’utilità né quella fondata sul piacere, giacché neppure la benevolenza si fonda su di essi. Infatti, colui che ha ricevuto un beneficio [15] offre la sua benevolenza in cambio di ciò che ha ricevuto, e fa ciò che è giusto; ma chi vuole la buona riuscita di un altro, nella speranza di ricavarne gran vantaggio, non sembra che abbia della benevolenza per quella persona, ma piuttosto per se stesso, come pure non è suo amico, se gli è devoto per qualche motivo interessato. Insomma, la benevolenza sorge per la virtù e per un certo valore, quando una persona appaia ad un’altra [20] nobile o coraggiosa o qualcosa di simile, come abbiamo detto anche a proposito degli atleti in gara.
6. [La concordia].
Anche la concordia è, manifestamente, un sentimento di amicizia. È per questo che la concordia non è identità di opinioni: questa, infatti, può esserci anche tra uomini che non si conoscono fra di loro. Né si dice che sono concordi uomini che la pensano alla stessa maniera su un argomento qualsiasi, [25] per esempio sui fenomeni celesti (giacché non è un fatto di amicizia l’essere concordi su queste cose), ma si dice che nelle città vi è concordia quando i cittadini la pensano alla stessa maniera a proposito dei loro interessi, e scelgono e mettono in pratica le stesse cose, quelle che hanno comunitariamente giudicate opportune. Sono concordi, quindi, sulle cose da farsi, almeno su quelle importanti e che possono soddisfare [30] le due parti o tutte le parti interessate. Per esempio, le città si dicono concordi quando tutti i cittadini ritengono opportuno che le cariche siano elettive, o che ci si allei con gli Spartani, o che Pittaco295 eserciti il potere per tutto il tempo che anch’egli lo voglia. Ma quando, di due rivali, ciascuno vuol essere lui ad esercitare il potere, come i due nelle Fenicie296, allora c’è la guerra civile: infatti, essere concordi non significa che l’uno e l’altro intendano la stessa cosa, qualunque essa sia; [35] si è bensì concordi quando l’uno e l’altro intendono che sia la stessa persona ad avere la stessa cosa, per esempio, quando sia il popolo [1167b] sia la classe dirigente vogliono che siano i migliori a detenere il potere: in questo modo, infatti, tutti ottengono quello cui aspirano. Quindi, la concordia è manifestamente un’amicizia politica, come pure si dice comunemente, giacché riguarda gli interessi e ciò che serve a vivere. Tale concordia si trova [5] nella classe dirigente: i suoi appartenenti, infatti, sono concordi sia ciascuno con se stesso, sia gli uni con gli altri, poiché, per così dire, si tengono sul medesimo terreno (le volontà di tali uomini sono stabili e non rifluiscono continuamente come l’Euripo297), vogliono le cose giuste e vantaggiose, e a queste tendono anche come comunità. Gli uomini cattivi non sono in grado di essere concordi, [10] come anche di essere amici, se non per poco, perché tendono a prendersi di più degli altri, quando si tratta di vantaggi, ma a tenersi indietro quando si tratta di fatiche e di servizi pubblici. Poiché ciascuno vuole per sé questi vantaggi, spia il prossimo e lo ostacola: e quando i cittadini non se ne curano, il bene comune va in rovina. Succede, quindi, che tra di loro nasce la guerra civile, [15] perché cercano di costringere gli uni gli altri a fare ciò che è giusto, mentre essi stessi non vogliono farlo.
7. [Benefattori e beneficati].
Si ritiene che i benefattori amino i beneficati più di quanto coloro che hanno ricevuto del bene amino coloro che l’hanno fatto, e, poiché, ciò accade contro ragione, se ne cerca il motivo. Orbene, per la maggior parte degli uomini è manifesto [20] che il motivo è che gli uni sono debitori e gli altri creditori: come, dunque, nel caso dei prestiti i debitori vorrebbero che non esistessero i creditori, mentre coloro che hanno concesso il prestito si preoccupano anche della sopravvivenza dei debitori, così anche i benefattori vogliono che esistano i loro beneficati per riceverne la riconoscenza, [25] mentre a questi non importa affatto pagare il proprio debito. Orbene, Epicarmo298, probabilmente, affermerebbe che essi dicono così "perché guardano le cose dal lato cattivo", ma ciò sembra umano, giacché i più hanno poca memoria e aspirano a ricevere benefici piuttosto che a farne. Ma si ammetterà che la causa di ciò si trova piuttosto a livello generale di natura, e che non è la stessa cosa che [30] nel caso del prestito. Nel caso loro, infatti, non c’è nessuna affezione, ma solo il desiderio che il debitore si conservi per recuperare il prestito. Invece, coloro che fanno del bene amano, anzi amano profondamente i loro beneficati, anche se questi non sono loro di alcuna utilità né potranno esserlo in futuro. E questo succede anche nel caso degli artisti: ognuno, infatti, ama profondamente la propria opera, [35] più di quanto sarebbe amato dall’opera stessa se questa diventasse un essere animato. [1168a] E questo succede soprattutto nel caso dei poeti: essi amano fin troppo profondamente le proprie composizioni, volendo loro bene come a dei figli. È quindi ad un caso simile che assomiglia quello dei benefattori: l’essere che ha ricevuto benefici da loro è una loro opera: per conseguenza, l’amano di più [5] di quanto l’opera non ami chi l’ha fatta. La causa di ciò sta nel fatto che l’esistere è per tutti meritevole di scelta e di amore, e noi esistiamo in virtù di un’attività (in virtù, cioè, del vivere e dell’agire), e chi ha fatto l’opera in certo qual modo esiste in virtù della sua attività: ama, quindi, la sua opera, perché ama la propria esistenza. E questo è naturale: infatti, ciò che è in potenza, l’opera lo rivela in atto. E, nello stesso tempo, [10] per il benefattore ciò che deriva dalla sua azione è bello, cosicché egli gode di colui in cui questa si compie, mentre per chi riceve non c’è nulla di bello in chi gli ha fatto il beneficio, ma, se mai, qualcosa di utile: e questo è meno piacevole ed amabile. E, poi, ciò che piace del presente è l’attività, del futuro la speranza, del passato il ricordo: ma ciò che piace di più [15] e di più si ama, è l’attività. Ora, per chi ha fatto del bene, l’opera rimane (giacché il bello dura molto tempo), ma per chi l’ha ricevuto, l’utilità passa. E il ricordo delle cose belle è piacevole, mentre quello delle cose utili non lo è affatto, o lo è meno; quanto all’attesa, sembra che avvenga il contrario. E l’amare assomiglia ad un fare, l’essere amati [20] ad un subire: per conseguenza299, a chi è superiore nell’azione si accompagnano naturalmente l’amore ed i sentimenti di amicizia. Inoltre, tutti gli uomini amano di più ciò che hanno ottenuto con fatica: per esempio, coloro che hanno personalmente conquistato la ricchezza l’amano di più di quelli che l’hanno ereditata; ma si riconosce che ricevere del bene non costa fatica, mentre farlo comporta uno sforzo. Per queste ragioni, [25] anche, sono le madri che amano di più i figli: la generazione, infatti, è per loro più faticosa e dolorosa, ed esse sanno meglio che i figli sono loro. Si ammetterà che questo sentimento è proprio anche dei benefattori.
8. [L’amore per se stessi].
C’è, poi, un’altra questione: si deve amare soprattutto se stessi o un’altra persona? Infatti, coloro che amano soprattutto se stessi sono biasimati [30] e sono chiamati, in senso dispregiativo, egoisti, e si ritiene comunemente che l’uomo malvagio faccia tutto nell’interesse di se stesso, e tanto più quanto più è perverso (e perciò lo accusano, per esempio, di non far nulla300 da sé). L’uomo virtuoso, invece, agisce per la bellezza morale, e tanto più per la bellezza quanto più è virtuoso, e a favore dell’amico, [35] mentre trascura il proprio interesse. Ma con queste teorie contrastano i fatti, [1168b] e non senza ragione. Dicono, infatti, che bisogna amare più di tutto chi è più di tutti amico, ed è amico più di tutti chi, quando vuole il bene di qualcuno, lo vuole proprio per lui, anche se nessuno lo verrà a sapere: ma questi sentimenti si incontrano soprattutto nel rapporto dell’uomo con se stesso, e, quindi, anche tutte le altre caratteristiche [5] in base alle quali si definisce l’amico. S’è già detto301, infatti, che tutti i sentimenti d’amicizia hanno origine dall’uomo e poi si estendono agli altri. Ma anche i proverbi sono tutti della stessa opinione: per esempio, "un’anima sola", "le cose degli amici sono comuni", "amicizia è uguaglianza", "il ginocchio è più vicino della gamba". Tutto questo, infatti, si applica soprattutto al rapporto con se stessi, giacché [10] si è amici soprattutto di se stessi: per conseguenza, si deve anche amare soprattutto se stessi. Sorge, quindi, naturalmente il problema di decidere quale delle due correnti bisogna seguire, dal momento che entrambe hanno qualcosa di plausibile.
Orbene, si devono certamente distinguere tali teorie le une dalle altre e determinare fino a che punto ed in che senso le une e le altre colgono la verità. Se, dunque, riusciamo ad afferrare in che senso gli uni e gli altri intendono il termine "egoista", forse ciò diventerebbe chiaro. [15] Orbene, quelli che usano il termine in senso ingiurioso chiamano egoisti coloro che attribuiscono a se stessi la parte maggiore in fatto di ricchezza, di onori e di piaceri corporali: queste sono, infatti, le cose che i più desiderano e per le quali si danno da fare, considerandole beni supremi, ragion per cui ci sono anche delle contese. Quindi, quelli che se ne prendono una parte più grande indulgono [20] ai desideri ed in genere alle passioni, cioè all’elemento irrazionale dell’anima. Tale è la maggior parte degli uomini; ed è per questo che l’appellativo di "egoista" deriva dalla massa, che è cattiva: è quindi giusto che quelli che sono egoisti in questo modo vengano biasimati. Che poi sia la massa che è solita chiamare egoisti quelli che attribuiscono le cose suddette a se stessi, è chiaro; [25] se, infatti, uno si sforza sempre di compiere azioni giuste, lui più di ogni altro, oppure azioni temperanti o qualunque altro tipo di azione conforme alle virtù, ed in genere riserva sempre a sé ciò che è bello, nessuno lo chiamerà egoista né lo biasimerà.
Ma si riconoscerà che un tale uomo è "egoista" più dell’altro: in ogni caso, attribuisce sempre a sé le cose più belle [30] e i beni più autentici, e compiace alla parte più autorevole di se stesso, e le ubbidisce in tutto: ma come anche una città, ed ogni altro organismo, si pensa che sia soprattutto la sua parte più autorevole, così anche l’uomo; e, quindi, è "egoista" soprattutto chi ama questa sua parte e le compiace. Ed il continente e l’incontinente prendono il nome [35] dal fatto che l’intelletto sia dominante oppure no, perché si intende che ciascuno è il suo intelletto302: [1169a] e si ritiene che siamo stati proprio noi a fare, cioè che abbiamo fatto volontariamente, soprattutto le azioni accompagnate da ragione. Che dunque ciascuno è, o è soprattutto, questa parte, è chiaro, ed è chiaro che l’uomo virtuoso ama soprattutto questa parte di sé. Perciò sarà lui l’autentico "egoista", ma di una specie diversa da quella di colui che viene biasimato, ed è tanto differente [5] da quello quanto il vivere secondo ragione lo è dal vivere secondo passione, e quanto desiderare ciò che è bello differisce dal desiderare ciò che si ritiene utile. Orbene, quelli che si danno particolarmente da fare per le azioni belle, tutti li approvano e li lodano: e se tutti gareggiassero per ciò che è moralmente bello e si sforzassero di compiere le azioni più belle, dal punto di vista della comunità, [10] tutto sarebbe come dovrebbe essere, e, dal punto di vista privato, ciascuno avrebbe i beni più grandi, se è vero, come è vero, che la virtù è un bene.
Cosicché l’uomo buono deve essere "egoista" (e, infatti, se compirà buone azioni, trarrà vantaggio lui stesso e gioverà agli altri); ma non deve esserlo il malvagio, giacché danneggerà se stesso ed il prossimo, perché segue passioni cattive. [15] Nell’uomo malvagio c’è dunque disaccordo tra ciò che deve fare e ciò che fa; l’uomo virtuoso, invece, fa quello che deve fare: ogni intelletto, infatti, sceglie ciò che per lui è la cosa migliore, e l’uomo virtuoso ubbidisce al suo intelletto. Ed è vero dell’uomo virtuoso che egli compie molte azioni in favore dei suoi amici e della patria, anche se dovesse [20] morire per loro: egli, infatti, lascerà ricchezza, onori ed in genere i beni che sono oggetto di contesa, riservando a se stesso ciò che è bello. Preferirà, infatti, godere intensamente per poco tempo piuttosto che debolmente per molto, e vivere in bellezza un solo anno piuttosto che molti anni in qualche modo, e compiere una sola grande e bella azione piuttosto che molte [25] piccole azioni. Certo, è questo risultato che ottengono coloro che sacrificano la propria vita: ciò che scelgono per sé è, quindi, qualcosa di grande e di bello. E darebbero la loro ricchezza purché gli amici ne acquistassero una più grande, giacché l’amico ottiene ricchezza, e lui ciò che è bello: per conseguenza, il bene più grande lo attribuisce a sé. E per quanto riguarda onori e cariche [30] è la stessa cosa: li lascerà, infatti, tutti all’amico; questo è bello per lui e degno di lode. Per conseguenza, è giusto che sia giudicato uomo di valore, dal momento che preferisce ciò che è bello ad ogni altra cosa. Ed è possibile che egli lasci all’amico anche le azioni, e può essere più bello per lui offrire all’amico l’occasione di agire, piuttosto che agire lui stesso. Quindi, in tutte le cose [35] degne di lode l’uomo di valore, manifestamente, attribuisce a se stesso la parte maggiore di ciò che è bello. [1169b] In questo modo, dunque, si deve essere "egoisti", come s’è detto: ma non bisogna esserlo come lo è la massa.
9. [Anche l’uomo felice ha bisogno di amici].
Si discute, poi, anche se l’uomo felice abbia bisogno di amici, oppure no. Si dice, infatti, che gli uomini felici [5] ed autosufficienti non hanno per niente bisogno di amici, perché essi possiedono il bene: essendo, quindi, autosufficienti, non hanno bisogno di nessuno, mentre l’amico, essendo un altro se stesso, fornisce ciò che un uomo non può ottenere da sé. Di qui il detto: "quando la fortuna è favorevole, che bisogno c’è di amici"303. D’altra parte, sembra assurdo attribuire all’uomo felice tutti i beni e non attribuirgli gli amici, il che [10] è generalmente ritenuto il più grande dei beni esteriori. Ma se è proprio dell’amico fare piuttosto che ricevere il bene, e se è proprio dell’uomo buono e della virtù il beneficare, ed è più bello fare del bene ad amici che ad estranei, l’uomo di valore avrà bisogno di persone che ricevono i suoi benefici. È per questo che ci si chiede anche se è nella buona o nella cattiva sorte che si ha più bisogno di amici, [15] perché si pensa che chi si trova in cattive acque ha bisogno di chi gli faccia del bene, e che coloro che sono nella prosperità hanno bisogno di persone cui fare del bene. Ma è certo assurdo fare dell’uomo felice un solitario: nessuno, infatti, sceglierebbe di possedere tutti i beni a costo di goderne da solo: l’uomo, infatti, è un essere sociale e portato per natura a vivere insieme con gli altri. Questa caratteristica, quindi, appartiene anche all’uomo felice: egli, infatti, [20] possiede le cose che sono buone per natura, ed è chiaro che è meglio passare le proprie giornate insieme con amici e con persone virtuose, piuttosto che con estranei e con i primi che capitano. L’uomo felice, dunque, ha bisogno di amici.
Che cosa, dunque, intendono dire i sostenitori della prima opinione ed in che modo colgono la verità? Non intendono forse dire che la massa considera amici quelli che sono utili? Orbene, l’uomo beato non avrà affatto bisogno di amici utili, [25] dal momento che i beni li ha già; per conseguenza, non avrà bisogno degli amici neppure per ricavarne piacere, oppure poco (essendo, infatti, la sua vita già piacevole, non ha affatto bisogno di un piacere aggiunto dall’esterno); ma poiché non ha bisogno di simili amici, si pensa che non abbia bisogno di amici affatto. Il che certamente non è vero. All’inizio, infatti, si è detto304 che la felicità consiste in un’attività, ma è chiaro che l’attività [30] è un divenire e non è come un possesso stabile. Ma se l’essere felici consiste nel vivere e nell’esercitare una certa attività, e l’attività dell’uomo buono ha valore ed è piacevole per se stessa, come s’è detto all’inizio305, se anche ciò che ci è proprio ci fa piacere306, e se noi possiamo contemplare coloro che ci stanno vicini meglio che noi stessi, e le loro azioni meglio [35] che non le nostre, se le azioni degli uomini di valore che ci sono amici [1170a] sono piacevoli per gli uomini buoni (giacché posseggono insieme entrambe le qualità307 che sono piacevoli per natura), allora l’uomo felice avrà bisogno di tali amici, se è vero che desidera più di tutto contemplare azioni virtuose e che gli sono proprie, e se e vero che tali sono le azioni dell’uomo buono che gli è amico.
Si pensa, inoltre, che l’uomo felice debba vivere piacevolmente. [5] Orbene, per l’uomo solitario la vita è difficile, perché non è facile esercitare un’attività in continuazione da soli, ma è più facile farlo in compagnia di altri ed in rapporto ad altri. L’attività sarà, dunque, più continua, essendo di per sé piacevole, come deve essere per l’uomo felice. L’uomo di valore, infatti, in quanto è uomo di valore, gode delle azioni conformi a virtù, mentre soffre per le azioni derivanti dal vizio, [10] come il musico gode delle belle melodie, ma prova pena per quelle cattive. E dalla vita in compagnia con gli uomini buoni può derivare pure un certo esercizio della virtù, come dice anche Teognide308. Se si guarda più a fondo nella natura, sembra proprio che l’amico di valore sia per natura desiderabile per un uomo di valore. [15] S’è detto309, infatti, che ciò che è buono per natura risulta per se stesso buono e piacevole all’uomo di valore. La vita310, poi, viene definita, nel caso degli animali, con la capacità della sensazione, nel caso degli uomini con quella della sensazione o del pensiero: ma la potenza si definisce in riferimento all’atto, e l’essenziale sta nell’atto: per conseguenza, il vivere sembra consistere essenzialmente nel sentire o nel pensare. Ma il vivere è [20] una cosa buona e piacevole per sé, perché è un che di determinato, e ciò che è determinato ha la stessa natura del bene: ma ciò che è buono per natura lo è anche per l’uomo virtuoso, e perciò sembra piacevole a tutti. Ma non si deve prendere in considerazione una vita perversa e corrotta, né una vita immersa nel dolore, giacché tale vita è indeterminata, come lo sono i suoi attributi. [25] Nella trattazione successiva si farà maggior chiarezza sulla natura del dolore311. Se l’atto stesso del vivere è buono e piacevole (sembra che sia così anche dal fatto che tutti lo desiderano, e soprattutto gli uomini virtuosi e beati; per questi, infatti, la vita è sommamente desiderabile, e la loro vita è la più beata); se chi vede ha coscienza di vedere e chi ode ha coscienza di udire, [30] e chi cammina di camminare, e se allo stesso modo negli altri casi c’è qualcosa che ha coscienza che noi siamo attivi, cosicché noi abbiamo coscienza di sentire, se sentiamo, e di pensare, se pensiamo, ed aver coscienza di sentire o di pensare significa aver coscienza di esistere (giacché l’esistere, come abbiamo detto, significa sentire o pensare); [1170b] se l’aver coscienza di vivere è piacevole per se stesso (la vita, infatti, è un bene per natura, ed avere coscienza del bene presente in noi è piacevole); se la vita è desiderabile, e lo è soprattutto per gli uomini buoni, perché per loro esistere è cosa buona e piacevole (giacché prendere coscienza [5] di ciò che è buono per sé dà loro godimento); se l’uomo di valore è disposto nei riguardi degli amici come verso se stesso (giacché l’amico è un altro se stesso): se è vero tutto questo, come la propria esistenza è per ciascuno desiderabile, cosi, o pressappoco, lo è anche quella dell’amico.
Dicevamo che l’esistere è desiderabile per il fatto che si ha coscienza di essere buoni, e tale [10] coscienza è piacevole per se stessa. Dunque, bisogna prendere coscienza, oltre che della nostra esistenza, anche di quella dell’amico, e questo può verificarsi se si vive insieme, cioè se si ha comunione di discorsi e di pensiero: in questo, infatti, si ammetterà che consiste il vivere insieme, nel caso degli uomini, e non, come nel caso delle bestie, nel prendere il cibo nello stesso luogo. Se, quindi, per l’uomo beato l’esistenza [15] è desiderabile per se stessa, in quanto è cosa buona e piacevole per natura, e se lo è in modo pressoché uguale anche quella dell’amico, anche l’amico sarà desiderabile. E ciò che per lui è desiderabile, bisogna che lo abbia, se no, da questo punto di vista, egli risulterà manchevole. Per essere felici, dunque, ci sarà bisogno di amici di valore.
10. [Il numero degli amici].
[20] In conclusione, dobbiamo farci il più gran numero possibile di amici, ovvero, come nel caso dell’ospitalità, si ritiene che sia stato giudiziosamente detto "non un uomo dai molti ospiti, né un uomo senza ospiti"312, e si adatterà anche al caso dell’amicizia il consiglio di non essere senza amici né averne in numero eccessivo? Si riconoscerà certo che questo detto si adatta molto bene a coloro che sono amici in vista di un’utilità, [25] giacché contraccambiare servigi a molti è assai faticoso, e per farlo non basta la vita intera. Quindi, amici in numero superiore a quanti bastano alla nostra vita sono superflui e sono d’ostacolo al viver bene: non c’è, dunque, alcun bisogno di loro. Anche di quelli che sono amici in vista del piacere ne bastano pochi, come il condimento nel cibo. Ma quanto agli amici di valore, bisogna averne [30] nel più gran numero possibile, o c’è una misura determinata anche per la quantità degli amici come per quella degli abitanti di una città?313 Infatti, non si potrà fare una città con dieci uomini, e con centomila non è più una città: ma certo la loro quantità non è data da un singolo numero determinato, bensì da un numero qualsiasi entro certi limiti. Anche il numero degli amici, [1171a] per conseguenza, è compreso entro certi limiti, e certamente saranno al massimo tanti con quanti è possibile vivere insieme (giacché questa, abbiamo detto, si ritiene la cosa più tipica dell’amicizia); ma è evidente che non è possibile vivere insieme con molti e dividersi tra di loro. Inoltre, anche quelli devono essere amici gli uni degli altri, se hanno intenzione [5] di trascorrere le loro giornate tutti insieme in compagnia: ed è laborioso realizzare ciò tra molte persone. Ma è difficile anche gioire e soffrire insieme con molte persone con familiarità, giacché è naturale che capiti nello stesso tempo di condividere la gioia dell’uno ed il cordoglio dell’altro. Dunque, è certo bene non cercare di avere un gran numero di amici, ma soltanto quanti [10] bastano per vivere insieme: si ammetterà, infatti, che non è possibile essere molto amici di numerose persone. È per questo che non è possibile amare più persone alla volta: l’amore, infatti, vuol essere una specie di amicizia portata all’eccesso, ma questo avviene nei riguardi di una sola persona: dunque, anche l’amicizia profonda può essere rivolta solo a poche persone. Sembra che le cose stiano così anche nei fatti, giacché non si diventa amici in molti, quando si tratta di un’amicizia tra camerati, [15] e le amicizie cantate dai poeti sono amicizie tra due persone. Ma coloro che hanno molti amici e trattano tutti con familiarità si ritiene che non siano amici di nessuno (a meno che non si tratti di amicizia tra concittadini), e ad essi si dà il nome di compiacenti. Se si tratta, dunque, di rapporti tra concittadini è possibile essere amici di molte persone, senza essere compiacenti, ma veramente virtuosi: ma un’amicizia che si fondi sulla virtù e sulle qualità della persona non è possibile che si rivolga [20] a molti, e bisogna contentarsi di trovarne anche pochi di amici simili.
11. [Gli amici sono desiderabili in tutte le circostanze].
C’è più bisogno di amici nella buona o nella cattiva sorte? Si ricercano amici, infatti, in entrambe le situazioni: coloro che si trovano nelle avversità hanno bisogno di aiuto, e gli uomini fortunati hanno bisogno di persone con cui vivere ed alle quali fare del bene, dal momento che essi vogliono fare del bene. Dunque, l’amicizia è più necessaria [25] nelle avversità, ed è perciò che si ha bisogno, allora, di amici utili, ma è più bella nella buona sorte, ed è perciò che allora si cercano amici virtuosi, giacché è preferibile beneficare uomini virtuosi e vivere in loro compagnia. Infatti, anche la presenza stessa degli amici è piacevole sia nella buona sia nella cattiva sorte. Infatti, quando si soffre, si resta sollevati [30] se gli amici soffrono con noi. Perciò, si potrebbe porre la questione se ciò accade perché, per così dire, gli amici prendono su di sé una parte del nostro fardello, oppure non per questo, ma perché la loro presenza, che è piacevole, ed il pensiero che soffrono con noi rendono minore il nostro dolore. Se, dunque, si resta sollevati per queste ragioni o per qualche altro motivo, lasciamo stare: in ogni caso è manifesto che accade quello che abbiamo detto. Ma sembra che [35] la loro presenza procuri un piacere misto. Da una parte, infatti, la vista stessa [1171b] degli amici è piacevole, specialmente per chi si trova nell’avversità, e ne deriva un aiuto contro il dolore (l’amico, infatti, è una consolazione sia col farsi vedere sia col parlarci, se è un uomo garbato: egli conosce il nostro carattere e sa ciò che ci fa piacere e ciò che ci addolora). D’altra parte, vedere che soffre [5] per le nostre disgrazie è penoso: ogni uomo, infatti, evita di essere causa di dolore agli amici. È per questo che chi ha natura virile si guarda bene dal far partecipare gli amici al proprio dolore, e, a meno che non superi ogni limite di sventura314, non sopporta di provocar loro una sofferenza, anzi, in generale, non tollera che altri lo compatisca, per il fatto che egli stesso non [10] è portato a compatire: sono le donnette, e gli uomini ad esse simili, che hanno piacere se altre persone si lamentano con loro, e le amano come amiche e come compagne nel dolore. Ma è chiaro che in tutte le cose bisogna imitare l’uomo migliore. La presenza degli amici nella buona sorte, invece, ci fa trascorrere piacevolmente il tempo, e ci dà il piacevole pensiero che essi godono dei nostri beni. [15] Perciò si può ritenere che noi dobbiamo sollecitamente invitare gli amici a partecipare alla nostra buona sorte (ché è bello comportarsi da benefattori), ma esitare a chiamarli nella cattiva: bisogna, infatti, farli partecipare il meno possibile ai nostri mali. Di qui il detto: "Basto io ad essere infelice!". Invece, bisogna fare appello a loro, soprattutto quando possono renderci un grande servigio senza grande molestia per loro. [20] Viceversa, conviene senza dubbio che noi andiamo a soccorrere gli amici sfortunati senza farci chiamare, e sollecitamente (giacché è proprio di un amico far il bene, e soprattutto a coloro che si trovano nel bisogno, anche se non pretendono nulla: per entrambi, infatti, è più bello e più piacevole). Quando sono nella prosperità, invece, bisogna andare da loro sollecitamente se si ha intenzione di collaborare alla loro attività (anche per questo, infatti, c’è bisogno di amici), ma senza fretta se si intende riceverne dei benefici: [25] non è bello, infatti, mostrarsi impazienti di ricevere dei servigi. Ma, senza dubbio, nel rifiutare, dobbiamo evitare di farci giudicare villani: talora succede. In conclusione, la presenza degli amici è manifestamente desiderabile in tutte le circostanze.
12. [L’amicizia è comunione di vita].
Non bisogna, dunque, dire che, come per gli innamorati la vista dell’amato è la cosa che amano di più, [30] e come essi preferiscono il senso della vista a tutti gli altri, perché è per questo senso soprattutto che l’amore sussiste e sorge, così anche per gli amici la cosa più desiderabile è il vivere insieme? L’amicizia, infatti, è una comunione, ed il sentimento che si ha per se stessi, si ha anche per l’amico: la coscienza della propria esistenza è desiderabile, e lo è, per conseguenza anche quella [35] dell’amico; ma questa coscienza è in atto nel vivere insieme, [1172a] cosicché è naturale che a questo si tenda. E per ciascun tipo di uomini, qualunque sia per loro il senso dell’esistenza, ovvero ciò per cui per loro la vita è desiderabile, è in questo che essi vogliono trascorrere il tempo in compagnia degli amici. E per questo che alcuni bevono insieme, altri giocano insieme ai dadi, altri fanno ginnastica e cacciano insieme [5] o fanno filosofia insieme, e che trascorrono insieme le giornate, ciascuno dedito a ciò che ama più di tutto nella vita: volendo, infatti, vivere insieme con gli amici, fanno e mettono in comune le cose in cui, secondo loro, consiste la vita. Quindi, l’amicizia dei cattivi risulta perversa (infatti, essendo instabili, mettono in comune cose cattive, e [10] diventano perversi rendendosi sempre più simili gli uni agli altri); l’amicizia, invece, degli uomini virtuosi è virtuosa, e cresce col loro frequentarsi. Si ritiene, poi, che diventino anche migliori col mettere in atto l’amicizia, cioè correggendosi a vicenda: essi, infatti, si modellano l’uno sull’altro, imitando le qualità che loro piacciono; di qui il detto: "Da uomini nobili, nobili azioni"315. Sull’amicizia, dunque, [15] basti quanto s’è fin qui detto. Il piacere sarà oggetto della trattazione seguente.