Il Fedone è un dialogo giovanile di Platone , in
cui si affronta la ricerca della vera causa : Platone si rende conto che i
sofisti e Anassagora avevano torto e si imbatte così nella dottrina delle idee .
E' un'opera che si può in qualche misura affiancare al Menone
perchè Platone anche qui si sofferma a lungo sull'anamnesis , la reminescenza
.Anche nel "Fedone" , dialogo ambientato nel periodo dopo la condanna e prima
della sua morte , Socrate parla con due Pitagorici
( Fedone e Echecrate ) a riguardo della preesistenza dell'anima:egli li porta a
capire la questione servendosi di esempi:tira in ballo la scienza dell'uomo e
quella della lira,che sono evidentemente diverse tra loro; Socrate
afferma che agli innamorati,nel momento in cui vedono una lira o un vestito che
il loro amato è solito usare,succede quanto segue:riconoscono la lira e nel
pensiero colgono l'idea del ragazzo a cui appartiene la lira:la reminescenza
consiste proprio in questo,riuscire a ricordarsi cose tramite vari
"agganci",aspetti che stimolano il ricordo. Nel "Menone" Socrate
parla con uno schiavo privo di cultura e gli pone una serie di domande mirate e
legate al teorema di Pitagora;chiaramente lo schiavo non lo conosce,ma Socrate
ponendogli solo domande specifiche lo porta alla soluzione:è un tipico caso di
maieutica.L'unica spiegazione possibile è che lo schiavo si ricordi di un
qualcosa che già conosceva,ma aveva dimenticato:dato che non l'ha conosciuto
nell'attuale vita significa che l'ha conosciuto in un'altra
dimensione(l'altopiano dell'iperuranio).Tale dimenticanza è legata al momento
dell'incarnazione:nella sua vita terrena l'uomo può avere momenti in cui
ricorda.L'apprendimento è quindi interpretato come il recupero di conoscenze
acquisite dall'anima prima di incarnarsi in un corpo,ma dimenticate al momento
della nascita e rimaste latenti in essa.Si definisce giustamente Platone
"INNATISTA",perchè sostiene che quando nasciamo sono già presenti in noi alcuni
elementi di conoscenza.Lo schiavo il teorema ce l'aveva già nella sua mente,si
trattava solo di ricordarglielo.Quali sono dunque le vie per ricordare?Un
modo,come nel Menone,è avere qualcuno che ci aiuti(Socrate),un
altro(più impegnativo)è usare bene la propria esperienza(come nel caso di Pitagora
,che per primo si ricordò con la sua esperienza del teorema che gli viene
attribuito:in realtà lui non l'ha inventato,se l'è solo ricordato per
primo).Oltre a sostenere la preesistenza dell'anima,Platone era anche convinto
della sua immortalità e della sua eternità:l'anima è viva per definizione e un
corpo è vivo o morto a seconda che abbia o meno un'anima;l'anima,quindi,dà e
toglie la vita.E' un qualcosa che partecipa all'idea di vita e che di
conseguenza non può partecipare a quella di morte,come il numero 3 partecipa
all'idea di dispari e non può partecipare a quella di pari.Per Platone ciò che
può corrompere l'anima è l'ingiustizia;essa però non può distruggerla:se
l'ingiustizia,che è il suo male peggiore,non è in grado di annientarla,è chiaro
che neanche i mali minori ce la faranno.L'anima,essendo increata,è anche eterna
ed immutabile.Per Platone vivere significa prepararsi alla morte perchè il
distacco dell'anima dal corpo va preparato moralmente:bisogna liberarsi dalle
passioni legate al corpo superandole (un pò come era per i Pitagorici
e per gli Orfici
:occorreva purificarsi).Dal punto di visto gnosologico,l'anima disincarnata
coglie facilmente le idee nell'Iperuranio perchè in fin dei conti per Platone é
solo in assenza del corpo che essa é veramente libera e da sola corrisponde all'
essere intellegibile ( é costituita dallo stesso materiale di cui son fatte le
idee ) ; il corpo invece corrisponde all' essere sensibile , tant' é che é
corruttibile ed impedisce all' anima di cogliere il vero essere , che non é il
nostro mondo , bensì quello delle idee ( di cui il nostro é solo una pallida
copia ) . In Platone compare la frase "omoiosis teo",che significa ottenere un
tale perfezionamento da diventare tutt'uno con la divinità ed é ovvio che non lo
si può diventare con il corpo , ma solo con l' anima . Una differenza
interessante tra l' anima intesa da Platone e l' anima intesa dai cristiani é
che per Platone l' anima é eterna , é sempre esistita e sempre esisterà , per i
cristiani é perenne , ossia viene creata e poi esisterà per sempre , ma non é
sempre esistita . Va poi ricordato che Platone aveva identificato diversi
livelli di conoscenza,i cui 2 più importanti sono quello della conoscenza
sensibile (doxa),basato su un sapere sensibile,instabile e dettato dalle
opinioni,e della conoscenza intellegibile (episteme),sicura,certa e basata su
cause vere e proprie.A noi viene da pensare che la differenza tra la doxa e
l'episteme ad esempio quando osserviamo un libro consista nel conoscerlo meglio
o peggio;pensiamo che guardandolo si abbia una conoscenza sensibile e
superficiale,mentre esaminandolo da un punto di vista geometrico se ne abbia una
intellettuale.Platone invece è convinto che ad ogni livello di conoscenza
corrisponda un oggetto preciso:non è che cogliamo il libro prima con i sensi e
poi con l'intelletto.Per Platone dopo che esaminiamo attentamente il libro in
modo sensibile,esso ci rievoca con le sue forme geometriche l'idea di
parallelepipedo,che è totalmente differente dal libro stesso.Infatti il libro
partecipa all'idea di parallelepipedo,cioè la imita,ma non lo è:quando in
matematica si dimostra su un parallelepipedo disegnato,in realtà si dimostra
sull'idea stessa di parallelepipedo:le regole di dimostrazione valgono per tutti
i parallelepipedi perchè in realtà vanno riferite solo all'idea del
parallelepipedo;d'altronde le misure che risultano dalla dimostrazione non
potranno mai essere esattamente compatibili con quelle del nostro disegno:lo
sono esclusivamente con quelle dell'idea (quando noi diciamo di disegnare un
triangolo rettangolo,diciamo un'assurdità perchè è impossibile che un angolo
risulti esattamente di 90°:in realtà esiste solo l'idea di triangolo
rettangolo).Di conseguenza ci sono anche 2 soggetti conoscitivi:a conoscere il
libro è la sfera del sensibile(il corpo),mentre a conoscere il parallelepipedo è
la sfera dell' intellegibile(l'anima).Tutto questo dimostra che vi è una stretta
parentela tra l'anima e le idee,che non a caso Platone dice essere costituite
dello stesso materiale metafisico ed entrambe eterne:vale a dire che sono
immutabili.Che cos'è la dottrina delle idee?La parola "idea",innanzitutto,deriva
dalla radice greca "id-"che è a sua volta riconducibile al verbo "orao",vedere:è
quindi qualcosa che si può vedere ma non con gli occhi,bensi' con
l'intelletto;la percezione degli oggetti sensibili risveglia il ricordo delle
idee dell'iperuranio,le quali permettono di misurare l'inferiorità e la
deficienza degli oggetti sensibili rispetto ad esse.Cosi' qualunque oggetto
sensibile possa essere detto bello, non coincide mai con l'idea della bellezza
nella sua perfezione ed immutabilità.L'idea di bellezza,per esempio, è il
modello ed il criterio in base al quale possiamo denominare belli determinati
oggetti:infatti è perchè già possediamo l'idea di bellezza che possiamo
designare belli questi altri oggetti.Nei primi dialoghi Platone aveva presentato
l'indagine di Socrate
proiettata alla ricerca di definizioni,ossia di risposte corrette alla
domanda:"Che cos'è x ?"(dove x sta per bello,giusto...).Per Platone la risposta
a questa domanda consiste nel rintracciare l'idea in questione(per esempio
l'idea di bellezza,di giustizia...).L'idea è dunque un "universale":ciò
significa che i molteplici oggetti sensibili,dei quali l'idea si
predica,dicendoli per esempio belli o giusti,sono casi o esempi particolari
rispetto all'idea:una bella persona o una bella pentola sono casi particolari di
bellezza,non sono la bellezza.Mentre gli oggetti sensibili sono caratterizzati
dal divenire e dal mutamento,soltanto delle idee si può propriamente dire che
sono stabilmente se stesse;proprio questa differenza di livelli ontologici,ossia
di consistenza di essere,qualifica le idee come modelli rispetto agli oggetti
sensibili corrispondenti.L'attività di un artigiano,per esempio di un
costruttore di letti,è descrivibile da parte di Platone come un insieme di
operazioni che mirano a foggiare un determinato materiale (in questo caso il
legno) secondo il modello dell' idea del letto,alla quale egli si riferisce
costantemente con il suo pensiero.L'idea è quindi dotata di esistenza
autonoma,nè dipende per la sua esistenza dal fatto di poter essere pensata;essa
è ciò di cui gli oggetti sensibili partecipano.La partecipazione all'idea,per
esempio,di bellezza rende un determinato oggetto sensibile bello.Si usa
solitamente dire che le idee abbiano una triplice valenza:1)Ontologica (dal
participio del verbo essere greco):due cavalli,per esempio,si assomigliano
perchè compartecipano all'idea.L'idea rende conto di ciò che una cosa è.Le cose
sono infatti quel che sono perchè imitano le idee.2)Gnosologica (dal verbo greco
"gignosco",conoscere):noi conosciamo le cose perchè facciamo riferimento
all'idea di uguaglianza:nella realtà empirica l'uguaglianza non esiste;essa
esiste in un'altra dimensione.Due uomini si assomigliano perchè partecipano
entrambe all'idea di uomo.3)Assiologica (da "axiologia",la scienza che studia i
valori):l'idea è il modello (in Greco "paradigma") imitando il quale ogni cosa
tende al bene,che è lo scopo di ogni cosa:per un cavallo il bene sarà correre
veloce.Ovviamente le imitazioni non potranno mai essere uguali al modello;questo
avviene per diversi motivi:uno che merita di essere ricordato è che le idee
nell'iperuranio non avevano nè forma,nè colore,nè dimensioni...quindi se
disegnamo un triangolo bianco è già diverso dal modello che non aveva alcun
colore e che paradossalmente li aveva tutti.Platone sostiene quindi la causa
finale:secondo lui la causa il motivo per cui avviene una cosa è il suo fine
stesso;la causa finale di una casa è farvi abitare della gente:ci sono però
anche delle "concause"(che noi definiremmo "la condizione senza la quale..."),in
questo caso i mattoni,il cemento...la vera causa finale però è l'idea stessa,sul
modello della quale la casa viene costruita:il fine della casa infatti è essere
fatta sul modello dell'idea di casa,cioè nel migliore dei modi:il meglio di ogni
categoria corrisponde infatti alla sua idea.I sofisti avevano individuato solo
una causa riferita alla materia;Platone non accetta questo e dice,servendosi di
una metafora legata alla tecnica della navigazione,che la loro "prima
navigazione" era fallita,e che quindi lui si serve della "seconda
navigazione",quella che si usa quando non c'è vento e ci si serve dei remi:è
una navigazione più faticosa,ma più sicura.Della "seconda
navigazione" Platone ce ne parla nel "Fedone" ( anzi é proprio in questo
dialogo che la introduce per la prima volta ) :Socrate
racconta che in gioventù era stato attratto dalla scienza naturale,che era
tipica dei sofisti (non a caso Aristofane nelle sue commedie ce lo presenta come
un sofista con la testa fra le nuvole)ma poi se ne era allontanato per dedicarsi
alla vera filisofia e aveva così effettuato la seconda navigazione. Anassagora
, fra i filosofi naturalisti, sembrava, con la sua dottrina del “Nous”,
aver trovato la vera causa delle cose. Ma a questa affermazione, di per sé
eccellente, Anassagora non seppe dare adeguato fondamento. Infatti, il
“Nous” avrebbe dovuto spiegare come tutti i fenomeni siano strutturati in
funzione del meglio, presupponendo quindi una precisa conoscenza, da parte del
“Nous”, del Bene e del Male. Ma Anassagora
non ha saputo fare questo e ha continuato ad assegnare agli elementi fisici - le
“omeomerìe” - un ruolo di causa determinante. Gli elementi fisici sono
solo una causa ausiliare, non la vera causa. Ma se vogliamo spiegare la
«vera causa» noi non possiamo riferirci a cause fisiche; la vera causa, ossia la
causa reale, è l’Intelligenza che opera in funzione del meglio. Occorre
guadagnare quel «meglio», ossia quel «Bene», in funzione di cui opera
l’intelligenza, il quale sta al di là del fisico e del sensibile; occorre quindi
guadagnare il piano dell’essere intelligibile, metasensibile, ovvero l’essere
«metafisico». La verità delle cose sta appunto nelle realtà intelligibili, che
Platone ha chiamato “Idee”, pure forme, eterni modelli delle cose, rispetto alle
quali le cose sensibili sono un mezzo o strumento di realizzazione, non quindi
l’essenza delle cose, ma ciò mediante cui l’essenza si realizza nella sfera del
sensibile . Questa scoperta delle Idee come vero essere, intelligibile,
incorporeo, immutabile, in sé e per sé esistente, è stato in passato considerato
il vertice speculativo del pensiero platonico (oggi noi sappiamo che Platone,
nelle «Dottrine non scritte», si è spinto ancora oltre con la teoria dei
Principi primi e supremi.). Hegel scriveva addirittura che proprio nella
formulazione della dottrina delle Idee sta «la vera grandezza speculativa» di
Platone, «grazie alla quale egli segna una pietra miliare nella storia della
filosofia e quindi nella storia universale» . Platone quindi introduce nel
Fedone il mondo delle idee , ossia il vero mondo , quello del pieno essere , di
cui il nostro é solo una copia mal riuscita ; comunque visto che ogni idea
rappresenta il bene per la sua categoria e il nostro mondo é proprio una copia
di tutti questi " archetipi " , allora se ne può dedurre che per Platone " il
nostro é il migliore dei mondi possibili " , come diranno gli stoici
. Da notare che Platone per delineare questi due mondi paralleli e tra loro
antitetici ( il mondo delle idee e quello delle cose sensibili ) non fa altro
che mettere insieme ( se così si può dire ) due filosofi a lui antecedenti e tra
loro contrapposti , Eraclito
( il filosofo del divenire ) e Parmenide
( il filosofo dell' essere ) : il nostro mondo infatti é in perenne divenire (
le cose cambiano , gli esseri viventi muoiono ) , mentre quello delle idee é l'
essere pieno , immutabile ed eterno ( le idee sono sempre state e sempre saranno
quelle che sono ) .
RIASSUNTO DELL'OPERA
A cura di Daniele Lo Giudice
Fedone, uno dei più giovani amici di Socrate, è di
passaggio a Fliunte pochi mesi dopo la morte del maestro. Trovandosi tra persone
che avevano conosciuto Socrate ed altri personaggi interessati a questioni
filosofiche, Fedone si incarica innanzitutto di offrire un racconto del
processo, della carcerazione e della morte di Socrate. Fedone rammenta che,
andato in carcere di buon ora, aveva trovato il maestro libero dai ceppi ed in
compagnia della moglie, Xantippe, insieme al più giovane tra i suoi figli,
attorniato da diversi amici. Dopo la partenza della moglie e del figlioletto,
Socrate, che era seduto sul letto, si stropicciò una gamba indolenzita,
traendone piacere. E, subito, trasse spunto da questa sensazione, per avviare un
ragionamento: " che strana cosa, amici, par che sia quello che che la gente
chiama piacere, e che meraviglioso rapporto per natura con quello che sembra il
suo contrario, il dolore! E pensare che entrambi insieme non vogliono mai
trovarsi nell'uomo; ma quando qualcuno insegua uno, e lo prenda, costui si trova
in certo modo costretto a prendere sempre anche l'altro, quasi che sebbene siano
due, pure si trovino legati allo stesso capo." Se Esopo, il grande scrittore di
favole, ne avesse avuto sentore, certamente avrebbe composto una nuova. Al che
Cebete, uno dei presenti, si rammentò che il poeta Eueno gli aveva chiesto con
quale intento Socrate avesse cominciato a scrivere versi e comporre musica sulle
favole d'Esopo e in onore al dio Apollo. " E tu digli la verità, Cebete -
rispose Socrate - che li ho fatti non certo per competere con lui e con i suoi
poemi - sapendo bene che non era facile - ma solo per rendermi conto del del
significato di taluni miei sogni, e mettere in pace la mia coscienza, se mai
fosse questa appunto la musica a cui spesso questi sogni m'ordinavano di
attendere. Ed ecco quali erano. Spesso nella mia vita passata m'era apparso il
medesimo sogno, ora in una forma, ora in un'altra; ma per ripetermi sempre la
stessa cosa: « Socrate - mi diceva - fa e coltiva musica.» Ed io allora quello
che facevo, questo precisamente credevo: ch'esso mi esortasse e m'incitasse a
fare, come si suole in quelli che gareggiano nella corsa; e così il sogno
m'incitasse a fare ciò che già facevo: a coltivare musica, convinto, com'ero,
che la filosofia fosse la più alta musica ed io non coltivassi che musica. Ora,
però, dopo il giudizio, poichè la festa del dio ritardava la mia morte, mi parve
che, se dunque il sogno insisteva ancora sull'impormi di fare questa specie
popolare di musica, io non dovessi disobbedirgli, ma farla, e fosse più sicuro
per me di non andarmene da questo mondo prima d'aver messo a posto la mia
coscienza col comporre dei versi, in obbedienza al sogno." A questo punto
Socrate se ne uscì con qualcosa di molto strano e sconcertante, ovvero di
mandare a dire a Eueno che non mancasse di seguirlo al più presto nell'altro
mondo. Lo stranezza colpì non poco Simmia, un altro dei presenti, il quale si
disse convinto che Eueno non aveva alcun desiderio di morire. Al che Socrate
chiese se Eueno fosse o meno da considerarsi filosofo. Quando Simmia rispose
affermativamente, egli dichiarò che non solo Eueno, ma tutti i filosofi non
avrebbero accolto male il suo consiglio, giacchè il vero filosofo desidera di
morire, quantunque nessuno abbia il diritto di suicidarsi. Al che Cebete
osservò: - ma se la morte è un bene, perchè mai uno non dovrebbe suicidarsi?
Socrate ammise che a prima vista il divieto di procurarsi la morte pare assurdo;
eppure non è irragionevole. "Quella massima che a questo riguardo s'ode in certi
misteri: che noi uomini siamo qui come in una prigione, e non ci sia perciò
lecito di liberarcene da noi stessi e tanto meno scapparcene, è qualcosa di
troppo alto ed insieme non chiaro. Ma, a buon conto, ciò che a me almeno, mi
pare ben detto, Cebete, è questo: che sono dei quelli che hanno cura di noi, e
noi, gli uomini, siamo una delle cose di proprietà degli dei. O a te non pare?"
"A me sì" - rispose Cebete. "Orbene - riprese Socrate - anche tu, se qualcuno
dei tuoi servi s'uccidesse, senza che tu gli avessi dato segno di volere che
morisse, non ti adireresti con lui e non lo puniresti, se ne avessi il modo?"
Cebete ne convenne. Ma questo consenso evidenziava che c'era una contraddizione
nel comportamento di Socrate, ed anche nel ragionamento. Se siamo proprietà
degli dei, perchè mai un filosofo dovrebbe desiderare di morire, sottraendosi ai
migliori padroni che si possano trovare? Simmia aggiunse che le parole di Cebete
suonavano come un rimprovero allo stesso Socrate. A questo punto il maestro
dovette rispondere. Affermò di credere che non tutto finisse con la vita, che
anche per i morti ci fosse qualcosa, e di meglio per i buoni che per i cattivi.
Aveva la certezza di trovarsi nell'al di là in presenza di divinità non meno
buone e nutriva la speranza di incontrare uomini eccellenti. Simmia lo invitò a
spiegare le ragioni della sua fiducia. Ma prima, Socrate disse di voler
ascoltare quello che aveva da dire Critone. Ed è qualcosa che rende ancora più
drammatico il dialogo. "E che altro, Socrate - fece Critone - se non che
quest'uomo incaricato di darti il farmaco (cioè la cicuta ndr) insiste da un
pezzo perchè io ti raccomandi di parlare il meno possibile? Costui dice che chi
parla troppo, si riscalda, e questo non va bene; chi fa così sarà poi costretto
a prendere una doppia o tripla dose." "E tu lascialo dire - rispose Socrate -
... ma a voi, miei giudici, desidero subito rendere conto delle ragioni per le
quali ritengo credibile che un uomo, il quale abbia realmente speso la vita
intera nello studio della filosofia, debba sentirsi di buon animo dinnanzi alla
morte, ed avere fiducia di trovare lì, dopo che sia finito, i maggiori beni. E
che sia così, come lo dico, Simmia e Cebete, proverò ad esporlo." "Tutti quelli
che sul serio attendono alla filosofia - proseguì Socrate - corrono il rischio
che agli altri sfugga com'essi non tendano ad altro se non a morire ed ad essere
morti. Se dunque è così, sarebbe davvero assurdo che uno in tutta la vita non
pensasse se non a questo, e poi, proprio quando giunga il momento, s'affliggesse
di ciò a cui aveva pensato e s'era preparato da tanto tempo." Simmia disse
ridente: "Per Zeus, Socrate, m'hai fatto ridere senza che ne avessi alcuna
voglia. E credo che a sentirti parlare così dei filosofi la gente troverebbe che
si ha ben ragione dire - e ti farebbero coro i miei compaesani, e con che gusto!
- che realmente quelli che fanno professione di filosofia sono come persone che
aspettano di morire; e del resto essa, quanto a sé, ha già mostrato di non
ignorare che i filosofi sono degni d'una morte siffatta." Che cos'è la morte se
non la separazione dell'anima dal corpo? - proseguì Socrate. Il filosofo
disprezza i paiceri del corpo e sa che i sensi sono fallaci. Sa che non deve e
non può fidarsi se non della sola anima, quando si proponga di conoscere ed
indagare l'essere. Desidera la morte perchè spera che soltanto allora la sua
anima, purificata e sciolta da ogni contatto materiale potrà godere della piena
conoscenza del vero, che era stata lo scopo di tutta la sua vita. Chi non è
sorretto da tale speranza, non è filosofo, ma un semplice amante del corpo. Qui
abbiamo l'obiezione di Cebete. Il ragionamento sarebbe giusto a patto che si
potesse dimostrare che l'anima sopravvive al corpo, conservando potere ed
intelligenza. Ma questo è proprio ciò di cui tanti dubitano e che necessita di
dimostrazione. Socrate risponde partendo da lontano, in particolare dagli
insegnamenti di Pitagora. L'antica credenza nella metempsicosi, ovvero la
trasmigrazione delle anime, presuppone l'esistenza precedente dell'anima nella
dimensione ultraterrena. Il principio di questa credenza è universalmente
osservabile in natura, dove ogni contrario si genera dal suo contrario: vita e
morte sono contrari; il trapasso dalla prima alla seconda è evidente; ora, se la
non vuole essere manchevole da un lato, bisogna anche ammettere il ritorno da
morte a vita, per quanto sfugga ai nostri sensi. E non può mancare, perchè
altrimenti la vita finirebbe per estinguersi del tutto. Se dunque le anime, dopo
la morte, si rigenerano in nuovi esseri, bisogna ammettere che esse continuano
ad esistere in qualche luogo. Cebete suggerì allora che la preesistenza
dell'anima risultava anche dalla dottrina cara a Socrate, ovvero che la vera
scienza non fosse altro che reminiscenza. Ma Simmia dichiarò di non
rammentarsene, e Cebete fu stimolato a darne un riassunto. Poi Socrate la
espose. Muovendo dalla natura della memoria, e ricavandone la conseguenza che,
se dalla osservazione degli oggetti sensibili noi possiamo sollevarci alla
cognizione delle idee, è chiaro che queste idee dobbiamo averle conosciute tutte
prima di nascere. Secondo Socrate, dunque, la medesima necessità logica legava
la preesistenza delle idee e quella delle anime. Ma, Simmia e Cebete avanzarono
un'obiezione: pur concedendo la preesistenza dell'anima, non abbiamo alcuna
prova che essa non si dissolva con la morte. Cebete disse che c'era in loro un
bambino che aveva tuttora paura della morte. Socrate risponde che solo ciò che è
composto si può dissolvere, e l'anima è certamente una sostanza semplice che
rimane sempre identica a se stessa. Solo il composto può divenire. L'anima è
come le idee, specie d'essere incorruttibile. Si può conoscere solo con
l'intelletto e non con i sensi. Come tutti gli immutabili non appartiene all
sfera del visibile e del tangibile ma all'invisibile e all'intangibile. E quanto
più si rifletta sul fatto che l'anima è fatta per comandare ed il corpo per
servire, non si può non credere alla sua natura eterna in quanto partecipa del
divino. Richiamandosi ancora alla dottrina pitagorica della metempsicosi,
Socrate accenna al destino dell'anima. Quelle che avranno vissuto in temperanza
e coltivato le virtù civili potrebbero reincarnarsi a livelli dell'essere più
vicini al divino, quelle possedute dai desideri carnali non potrebbero che
rinascere nei corpi di animali selvaggi e feroci. A queste affermazioni segue il
silenzio. Simmia e Cebete si scambiano commenti a bassa voce. Indovinando che
erano ancora in dubbio, Socrate li invita a vincere qualsiasi scrupolo. Così
Simmia si decide: non potendo avere il conforto di una divina parola capace di
portare la certezza definitiva, bisogna accontentarsi di un ragionamento umano.
Osserva allora che anche l'armonia prodotta da una lira può definirsi qualcosa
d'incorporeo, mentre la lira che la produce ha statuto fisico, caduco e
visibile. L'armonia non sopravvive al logorio dello strumento. Pertanto, anche
l'anima potrebbe essere il risultato di una miscela degli elementi corporei
(dottrine in qualche modo riconducibili a Democrito e ad Anassagora ndr) e
cessare di esistere con il suo spegnimento. Cebete, dal canto suo, avanza
un'obiezione ancora più profonda e radicale: nulla vieta di credere che l'anima
preesista e sopravviva, ma, ancora nulla vieta di credere che, dopo molteplici
reincarnazioni, l'anima finisca con l'estinguersi. Evidentemente non crede
all'eternità dell'essere. Molti dei presenti sono turbati da queste
osservazioni. Ma non Socrate. Fedone ricorda, innanzitutto, che Socrate ammonì a
guardarsi dal perdere la fiducia nei ragionamenti, dopo aver perso quella negli
uomini. Perchè si diventa misantropi? Perchè si ripone la propria fede nei primi
che si incontrano, e quando ci si avvede che costoro sono tutt'altro da come li
abbiamo immaginati, si finisce per credere che tutto il genere umano è cattivo.
La stessa cosa avviene per i ragionamenti. Chi se ne serve con leggerezza,
finisce col rigettarli tutti. In realtà, come nel caso del misantropo, anche il
misologo generalizza troppo velocemente. Andando al cuore del problema, Socrate
chiede a Simmia e Cebete, se rigettino tutti i ragionamenti o solo alcuni. Avuta
conferma che entrambi continuano ad accettare la dottrina della reminiscenza,
Socrate dice a Simmia che essa non s'accorda per nulla con la considerazione
dell'anima come armonia. Se essa fosse armonia, sarebbe un composto di elementi
corporei, e non una realtà spirituale. Simmia riconosce l'errore. Ma Socrate non
è soddisfatto. Se l'anima - continua - fosse armonia, non potrebbe avere natura
diversa dagli elementi che la compongono. Non potrebbe guidarli, ma seguirli. E
poi: visto che è innegabile che esistano anime viziose, mentre altre sono
virtuose, e considerato che anche la virtù andrebbe considerata come accordo, ed
il vizio come disaccordo, avremmo che chi pensa che l'anima sia armonia,
dovrebbe ammettere che l'anima sia un'armonia che accoglie in se un'altra
armonia, e dovremmo anche ammettere che l'anima viziosa sia un'armonia
disarmonica, il che è assurdo. Tornando al concetto iniziale, Socrate conclude
che l'anima come armonia non potrebbe contrastare i desideri del corpo, perchè
così si troverebbe in disarmonia con esso. L'esperienza di ogni giorno,
pertanto, smentisce questa dottrina. L'obiezione di Cebete è più grave. Per fare
i conti con essa, Socrate la ricapitola, poi, per far vedere come fosse giunto
alle sue convinzioni, riassume la storia del suo sviluppo intellettuale e
spirituale. Da giovane fu ammiratore della filosofia della natura e come gli
ionici confidò di trovare in essa la spiegazione di tutti i fenomeni. Ma, presto
vennero anche i dubbi. Dopo la lettura del libro di Anassagora che poneva il
Nous, cioè la mente, come sovrano dell'universo, egli ritrovò alcune speranze.
Gli sembrò ovvio, insomma, che se la mente divina ordinava tutto nel miglior
modo possibile, tutte le cose avrebbero dovuto essere disposte per il meglio.
Però Anassagora, deluse Socrate perchè, invece di riportare tutto alla mente,
cercava di spiegare le cause dei fenomeni ricorrendo a principi meccanici e
materiali, gli stessi, grosso modo, dei filosofi ionici. Socrate decise così di
battere un sentiero del tutto nuovo. Non guardare più le cose in modo immediato,
nel loro aspetto sensibile, ma ad esse nel modo della vera realtà, quella
sovrasensibile, nella loro ragione d'essere, quindi nella loro idea originaria.
Così facendo, pervenne ad alcune acquisizioni: una cosa è bella perchè partecipa
all'idea del bello. Un'altra è grande perchè partecipa all'idea del grande, e
così via. Ma, così - proseguì Socrate - può sembrare che in un medesimo oggetto
coesistano idee contrarie. Un uomo può dirsi sia grande che piccolo, in rapporto
dipendente dalla cosa con la quale lo si confronta. Trattasi, insomma di giudizi
relativi, non assoluti. Questo significa che noi possiamo trovare tracce delle
idee nella realtà, ma sarà assai difficile poter trovare traccia
dell'imperfezione della realtà nelle idee. L'idea - dice Socrate - non può
accogliere in sè il suo contrario. La grandezza non accoglie la piccolezza, e
mai l'accoglierà. «Al che uno dei presenti - non ricordo bene quale (disse): "
Oh! In nome degli dei, nei nostri discorsi precedenti non s'era ammesso proprio
il contrario di ciò che sento ora: che cioè dal più piccolo si genera il più
grande, e dal più grande il più piccolo, e che, insomma, i contrari si generano
dai contrari? Ed ora mi si dice, mi pare, che questo non può mai avvenire."
Socrate, che aveva sporto un po' il busto per sentire (rispose): " Bravo, hai
fatto bene a ricordarlo. Però non rifletti sulla differenza tra ciò che stiamo
dicendo ora, e quel che si diceva prima. Allora si diceva che da cosa contraria
si genera cosa contraria; ora, invece, si dice che il contrario in sé non può
mai divenire contrario a sé stesso, né quello che è in noi, né quello che è in
natura. Allora noi parlavamo delle cose che hanno in sé i contrari, e le
indicavamo col nome di questi; ora (parliamo) di questi in sé..."» Così, non
solo il caldo non può accogliere il freddo, né il dispari il pari; ma neppure il
fuoco, di cui il caldo è predicato essenziale, potrà mai accogliere il freddo,
né il tre che è dispari, diventare pari, rimanendo tre. Da qui, il dialogo si
avvia alla conclusione. Che cosa rende un corpo vivo? Invece di rispondere la
vita, rispondo: l'anima. Poichè il predicato essenziale dell'anima è l'essere
viva, essa non può accogliere in sè il suo contrario, che è la morte. Dunque
l'anima è immortale, pertanto indistruttibile. La conclusione è accettata da
Cebete, ma non da Simmia, che avanza qualche riserva: "In verità neppure io -
disse Simmia - so come confutare le ragioni addotte.Tuttavia, il problema di cui
ci stiamo occupando è così arduo, e la nostra natura mi ispira così poca
fiducia, che io mi sento di diffidare ancora delle cose dette." "Non solo -
commenta Socrate - è giusto quel che hai detto, ma anche le ipotesi da cui siamo
partiti, per sicure che possano sembrare, meritano di essere meglio esaminate.
Allorchè le avrete analizzate a fondo, credo che terrete dietro al ragionamento
quanto più è possibile ad un uomo, e se esso vi parrà chiaro, non cercherete più
in là." Nel finale, Socrate, su sollecitazione di Simmia, espone come potrebbero
stare le cose nell'al di là. Nel racconto paiono fondersi persuasioni personali
di Socrate e comuni credenze derivanti da Omero e dalla mitologia greca. Da
questo racconto si comprende come molte delle credenze comuni alle religioni,
compresa quella cristiana, derivino da questa ripresa del pitagorismo. Socrate
disegna un purgatorio, un paradiso ed un inferno. I più puri vanno in questo
paradiso, e i filosofi veri avranno persino dimore più belle e soavi. Tuttavia,
conclude Socrate, nessun uomo di senno potrebbe giurare che le cose stiano
davvero così. Epperò è meglio incantare sé medesimi con queste convinzioni.
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