JEAN-MARC FERRY
A cura di Diego Fusaro
Jean-Marc
Ferry, filosofo del diritto e docente in Canada, ha svolto importanti
riflessioni sui temi dell’etica pubblica e del diritto, ponendosi in continuità
con la riflessione della Scuola di Francoforte; tra i suoi scritti più
importanti ricordiamo L’etica ricostruttiva (1996), Les Puissances de l’expérience (1991), Philosophie
de la communication (1994), L’Allocation universelle (1995, 1996), La Question de l’Etat européen (2000), De la Civilisation (2001), Valeurs et normes. La question de
l’éthique (2002), L’Europe, l’Amérique et le monde (2004), Les
Grammaires de l’intelligence (2004), Europe, la voie kantienne (2005).
Filosofo del diritto con uno spiccato interesse per l’ambito normativo,
Ferry pone al cuore della sua riflessione la fondazione
dell’etica pubblica, nell’ambizioso tentativo di giustificare norme
sociali che possano valere in un contesto socialmente atomizzato e
multiculturale quale è quello delle società contemporanee. Grande influenza ha
esercitato su Ferry la “teoria critica” della Scuola di Francoforte, della cui
cosiddetta “terza generazione” egli stesso ha fatto parte: in particolare, il
nostro autore risulta influenzato dall’“etica del discorso” di Jürgen Habermas.
Con quest’ultimo pensatore, egli condivide l’esigenza di superare il
“formalismo astratto del diritto” e di rivolgersi a quel “mondo della vita” (Lebenswelt)
che tende sempre più ad essere soffocato dalle spire del “sistema”. Ferry
declina il tema dell’etica pubblica nei termini di un’etica
ricostruttiva della comunicazione, ossia di un’etica che ponga al centro
non tanto la validità degli argomenti o l’espressività delle esperienze
raccontate, bensì l’attenzione e il riconoscimento della vulnerabilità delle
persone implicate nella discussione. In particolare, è l’assoluta centralità
della persona a implicare una ricostruzione dei presupposti che rendono
possibile il rispetto e il riconoscimento reciproco attraverso l’assunzione di
ogni forma di violenza passata e presente. La
violenza, infatti, ha una portata devastante, tale da non poter mai essere
eliminata dal diritto, con la conseguenza fondamentale che, per poter
fronteggiare la violenza, occorre spingersi più in là del diritto; in
particolare, quest’ultimo non è in grado di considerare adeguatamente la vulnerabilità
delle persone, giacché si arresta sempre al mero formalismo. Rispetto a
Habermas, Ferry intende la comunicazione in senso etico e relazionale più che come
prestazione noetica. E il nostro autore cerca di andare al di là delle
posizioni dei “contestualisti” e dei “proceduralisti”, entrambe unilaterali e
incapaci di risolvere i problemi: i primi (“contestualisti”) credono in un bene
comune, a cui fare riferimento per fondare le norme; i secondi
(“proceduralisti”), invece, sono convinti che le norme debbano essere fondate
sul giusto, che è ben altra cosa rispetto al bene. La dicotomia tra
contestualisti e proceduralisti, nota Ferry, trova la sua massima espressione
nella polarità narrazione-argomentazione: la prima è tipica dei contestualisti,
la seconda dei proceduralisti. Ferry non fa certo mistero di provare una forte simpatia
per il proceduralismo, riconoscendo che il formalismo affonda le sue radici
nelle “guerre di religione” con le quali si apre la modernità, esattamente nel
tentativo hobbesiano di separare lo Stato dalla Chiesa. Tuttavia – nota Ferry –
il grande limite del proceduralismo sta nel non saper rendere conto di certi
fenomeni di richiesta normativa, come ad esempio i problemi di bioetica: di qui
l’esigenza di andare oltre il proceduralismo. Infatti, alla luce di questa
insufficienza congenita al formalismo, il nostro autore va sostenendo
l’esigenza di un costante riferimento alla sfera valoriale e al “mondo della
vita”. Sull’altro versante, i contestualisti fanno ricorso alla forma della narrazione, che è una forma primitiva di esprimere la
memoria: primitiva perché incapace di distinguere tra finzione e realtà, tra
interpretazioni e fatti; al contrario, l’argomentazione
– che è lo strumento dei proceduralisti – ha per obiettivo la validità degli
argomenti squadernati, ma ha il suo maggiore limite nel mancato riferimento al
mondo dei valori. È proprio alla luce di questa insufficienza sia del
proceduralismo sia del contestualismo che Ferry sostiene la necessità della
ricostruzione, di un’etica ricostruttiva, che si ponga appunto al di là del contestualismo e del
proceduralismo, pur accogliendo alcune istanze di essi: la ricostruzione
non narra né universalizza argomentativamente, piuttosto ripercorre a ritroso i
sentieri che hanno portato alla violenza, al fine di cercare di porre un
qualche riparo. Sicché la ricostruzione ha a che fare col passato (con la
violenza accaduta), nella misura in cui cerca di comprendere che cosa ha
portato una persona ad agire in un dato modo: in particolare, essa si configura
come un tentativo di porre in relazione gli interlocutori e di permettere
all’altro di dire ciò che ha da dire, a prescindere dalla validità o dalla
verità del suo discorso. La ricostruzione presenta dunque una grande capacità
di riconoscimento della vulnerabilità delle
persone e una forte responsabilità nei confronti del passato. Quando parla di
“ricostruzione”, Ferry si richiama espressamente a Hobbes (ad avviso del quale
il riconoscimento avviene sempre a partire dallo scontro violento delle
identità), a Fichte (per il quale il riconoscimento scaturisce dall’esigenza
del soggetto di relazionarsi all’altro) e a Hegel, che dei due autori
precedenti è, per così dire, il momento di sintesi: Hegel, infatti, intende il
riconoscimento come lotta contro l’altro e, al tempo stesso, come desiderio di
relazionarsi ad esso. Quando l’altro mi riconosce – nota Ferry – riconosce la
mia vulnerabilità, il mio essere esposto alla violenza. Sulle orme delle Tesi
sulla filosofia della storia di Walter Benjamin, Ferry ritiene che sia
necessario non soltanto un riconoscimento delle persone del presente, ma anche
di quelle del passato, le quali non vivono più se non nel nostro ricordo: ne
nasce un’utopia invertita, ossia giocata non sull’anticipazione, bensì sulla
restaurazione e sulla riparazione. Si tratta cioè – seguendo l’insegnamento di
Benjamin – redimere il presente attraverso una incursione del passato che non
ha avuto luogo, che è passato sotto silenzio e che è stato mistificato dal
racconto dei vincitori (che sono poi coloro che scrivono la storia).