Ludwig Feuerbach

L’essenza della religione

 

Di  Matteo Alesina

 

 

 

Lo scritto L’Essenza della religione è steso sotto forma di un percorso unitario articolato in differenti pensieri. Le tappe più rilevanti dello sviluppo del pensiero feuerbachiano possono essere sintetizzate come di seguito:

 

La religione è la manifestazione di una dipendenza nei confronti della natura (§ 1/4)

Scrive Feuerbach: “Il sentimento di dipendenza dell’uomo è il fondamento della religione; l’oggetto di questo sentimento di dipendenza […] non è però altro, originariamente, che la natura”. Notiamo che il termine “natura” assume in Feuerbach il significato generale di un raggruppamento di oggetti e cose reali che l’uomo differenzia da sé e dai propri prodotti, e non un ente universale, astratto, “personificato e mistificato”.

Scrive Feuerbach: “…io sono soprattutto un ente che non esiste senza luce, senza aria, senza acqua, senza terra, senza cibo, un ente dipendente dalla natura”. Conscio del suo stato di subordinazione rispetto alla natura, l’uomo celebra questa sua dipendenza; tuttavia, in origine, egli celebra solamente la natura che gli è familiare e nella quale egli vive: così ogni stirpe antica ha glorificato solamente la regione che ha abitato o il fiume da cui ha tratto il proprio sostentamento.  

 

L’analisi della causalità: perché l’uomo è ciò che è (§ 5/7)

Gli uomini non possono essersi elevati al di sopra dello stato bestiale grazie alla forza di geni, spiriti o angeli: Feuerbach definisce quest’ipotesi come una “idea fantastica”; al contrario, secondo il nostro filosofo, gli enti che hanno portato al passaggio alla civiltà sono stati gli animali. Nell’asserire ciò, Feuerbach cita un’analoga dottrina dello zoroastrismo, secondo cui la civiltà umana è stata resa possibile solo dalla fedeltà del cane, che tenendo alla larga i ladroni e i lupi ha permesso l’instaurarsi della proprietà privata.

Il cristianesimo, invece, venera un ente indipendente che è responsabile della creazione dell’uomo: nel culto professato dal cristiano è quindi evidente un culto dell’uomo, risultato della creazione. E Feuerbach scrive: “I cristiani si allietano della vita tanto quanto i pagani, ma le loro preghiere di gratitudine per i piaceri della vita sono dirette in alto, al padre celeste; essi muovono ai pagani il rimprovero di idolatria proprio per il fatto che questi ultimi si arrestano, nel loro rendimento di grazie […], alla creatura, senza innalzarsi alla causa prima, all’unica autentica causa di tutti i benefici”. Proprio per contrastare questa tendenza, Feuerbach scrive con sarcasmo: “Io ho tutte le ragioni di fare oggetto di devozione religiosa […] soltanto gli enti a me più prossimi, [ossia] i miei genitori”.

 

L’essenza divina della natura (§ 8/10)    

L’essenza divina che si manifesta nella natura non è altro che la natura stessa che si manifesta, si mostra e si impone all’uomo come un ente divino”. Trova quindi ragion d’essere l’ipostatizzazione dell’utile fatta propria dai popoli antichi, come per esempio i messicani dell’età precolombiana, i quali adoravano anche un dio del sale. E tuttavia “l’esistenza della natura non si fonda, come si illude il teismo, sull’esistenza di Dio – nemmeno per sogno, è proprio il contrario: l’esistenza di Dio, o piuttosto la fede nella sua esistenza, ha il suo unico fondamento nell’esistenza della natura. Tu sei costretto a pensare Dio come un ente esistente soltanto perché sei costretto dalla natura a presupporre alla tua esistenza e alla tua coscienza l’esistenza di essa – e il primo concetto base di Dio non è appunto nient’altro che questo, che esso è l’esistenza che precede la tua…”.

 

L’uomo erra attribuendo a Dio la potenza della natura (§ 11/16)

Feuerbach introduce la scena biblica di Giobbe al cospetto di Dio: in tale frangente, Dio ricorda all’uomo la sua impotenza e la sua limitazione (“«Puoi tu forse – dice Iddio a Giobbe – stringere insieme il gruppo delle Pleiadi, oppure disperdere il giro di Orione?»”). Ovviamente, il nostro filosofo è pronto ad accettare di asserire che l’uomo è finito e limitato, tuttavia egli pronuncia un veemente attacco contro chi attribuisce a Dio quella potenza che è proprietà della natura: “ma qual è la potenza che si manifesta nella violenza del tuono, nella forza del cavallo, nel volo dello sparviero, nel corso inarrestabile delle Pleiadi? La forza della natura”. E ancora, Feuerbach dimostra che la sovrapposizione tra Dio e natura è decisamente errata, anche se sembra evidente a tutti gli uomini: “Dio è l’ente infinitamente buono «perché egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti»; ma l’ente che non fa differenza tra buoni e cattivi, giusti e ingiusti, che non distribuisce i beni della vita sulla base dei meriti morali, e che, in generale, dà all’uomo l’impressione di essere un ente buono proprio perché le sue virtù, come per esempio la luce del sole o l’acqua piovana, apportatrici di ristoro, sono le fonti delle più benefiche sensazioni, questo ente è appunto la natura”. Infine, Feuerbach dimostra che la concezione che l’uomo ha di Dio si avvicina molto a quella che l’uomo ha della potenza della natura: Dio infatti appare misterioso ai credenti perché spesso la natura (alla quale Egli viene erroneamente sovrapposto) ci sembra misteriosa; infatti, nel racconto biblico, Dio chiede a Giobbe: “«Sai in qual modo si diffondono le nubi? […] Sei mai andato nel fondo del mare? Ti sei reso conto di quanto è vasta la terra? Hai visto di dove viene la grandine?»”.  

L’ovvia conclusione è che “un culto che fosse rivolto a Dio inteso soltanto come artefice della natura, senza collegarvi determinazioni di altro genere, derivate dall’uomo, e senza che egli venga contemporaneamente pensato come legislatore politico e morale, cioè umano, un tale culto sarebbe rivolto esclusivamente alla natura”. E qundi, in definitiva, bisogna separare in maniera ferma e netta Dio e la natura, perché quest’ultima si può spiegare alla luce esclusiva della fisica e della meccanica: “è vero che l’artefice della natura viene dotato di intelletto e di volontà; ma ciò che questa volontà vuole […] è proprio ciò per cui non servono né volontà né intelletto, ciò per cui sono sufficienti forze e impulsi meramente meccanici, fisici, chimici, vegetali ed animali”. Con tono sprezzante, Feuerbach si accanisce fino all’estremo contro il cristianesimo (e in definitiva contro quello che egli denomina “manicomio della teologia”), dicendo che “derivare la natura dalla volontà e dall’intelletto, o genericamente dallo spirito, significa fare i conti senza l’oste, significa far nascere il salvatore del mondo, per opera solo dello spirito santo, da una vergine che non conosce l’uomo, significa trasformare l’acqua in vino, scongiurare le tempeste con le parole, spostare con le parole le montagne…”. Sembra ulteriormente ridicolo il fatto che i cristiani abbiano trasformato il loro Dio in “causa prima” capace di convivere con le infinite “cause intermedie”: il Dio dei cristiani quindi non è in grado di scagliare fulmini né di castigare gli empi con le piogge di fuoco, in quanto “è stato escluso dal regno delle cause intermedie, è soltanto una causa nominale, un innocuo e poco pretenzioso parto della nostra mente”.

 

Il senso della creazione è immanente al mondo (§ 17/23)

Feuerbach sposa la tendenza all’immanentismo diffusasi nell’Ottocento circa le caratteristiche del mondo fisico: la natura crea il mondo senza alcun concorso esterno, ed anzi essa stessa dimostra oscillazioni nelle sue condizioni di stabilità generale che favoriscono ora questa ora quella forma di vita: ne sono un esempio gli animali preistorici, che si sono estinti allorché le loro condizioni di vita si sono scontrate con le evoluzioni degli habitat naturali. Feuerbach rigetta pure la dottrina cristiana della creazione:“ingenerata è [solo] la materia”, infatti “niente è più contraddittorio, strampalato ed assurdo che far creare gli enti naturali da un ente spirituale supremo e perfettissimo”: tale ente avrebbe dovuto creare qualcosa di altrettanto perfetto e spirituale.

Chi crede invece che alla base di tutto ci sia veramente un ente spirituale unitario assomiglia agli antichi Greci, che identificavano nell’Oceano il padre di tutti i fiumi: “se un’acqua primordiale non ha potuto essere la fonte delle molte diverse acque […], tanto meno potrà un ente primordiale essere la fonte originaria dei molti diversi enti. L’unità è sterile, e fecondo è solo il dualismo, l’opposizione, la differenza”. E tuttavia i più ritengono valida la dottrina della creazione, perché essa è diventata una sorta di superstizione di massa, proprio come “quella spiegazione che i nostri devoti davano delle grandinate, delle morìe, della siccità, dei tuoni, da essi fatti risalire a maghi, incantatori e streghe”.

Il punto cruciale del discorso feuerbachiano è quindi questo: “«L’origine della vita è inspiegabile e incomprensibile»; ammettiamolo; ma questa incomprensibilità non ti autorizza a dedurre le conseguenze superstiziose che la teologia tira dalle lacune del sapere umano”, e come direttissima conseguenza “questa incomprensibilità non ti autorizza a spiegare l’inspiegabile supponendo enti inventati”. Il fondamento primo della superstizione religiosa è dunque da ricercarsi nell’ignoranza e nella fantasia umane.

 

Non è Dio che crea la natura, ma la natura che spinge l’uomo a creare Dio (§ 24/29)

Tutti possono capire che “tutte le proprietà o determinazioni di Dio […] non sono altro che proprietà astratte della natura”, che i metafisici hanno sempre esaltato come il plus che contraddistingue lo spirito; e tuttavia questo è un plus che si risolve in un minus, perché paradossalmente non gode delle intuizioni sensibili (che invece sono presenti nella natura). Inoltre Feuerbach scaglia un feroce attacco contro la metafisica, perché “tutte le deduzioni del mondo da Dio, della natura dallo spirito, della fisica dalla metafisica, del reale dall’astratto si mostrano per quello che sono: giochi logici”.

Ma perché l’uomo è spinto a ciò?

L’atteggiamento che l’uomo ha nei confronti della natura […] è di considerarla come ciò che lui stesso è, come un ente personale”. Infatti è facile che l’uomo interpreti i frutti degli alberi o il chiarore del sole come “doni” di una natura amica e benevola, mentre la calura o la peste rappresenterebbero un momento d’ira di questa stessa natura personificata: “se la terra recasse i suoi frutti senza interruzione, che ragione ci sarebbe di fare cerimonie religiose per la semina ed il raccolto?”. Tutto ciò verifica ulteriormente quanto era stato detto nell’opera L’essenza del cristianesimo, ossia che l’uomo venera se medesimo nell’altro da sé: ed egli va a cercare nella natura una personalità capace di bontà ed ira, ed “adora l’ente non umano come se fosse l’ente divino soltanto perché esso sembra umano”. 

In definitiva, “ove viene meno la certezza matematica […] incomincia la teologia”.

Una parte significativa della religione è quindi il sacrificio, perché “l’appropriazione o lo sfruttamento della natura si presenta all’uomo quasi come una infrazione, come un appropriarsi della proprietà altrui, come un sacrilegio. Per placare la sua coscienza, nonché l’oggetto che, nella sua rappresentazione, egli ha offeso, per mostrargli che se ne è impadronito per necessità, e non per arroganza, l’uomo si diminuisce il godimento, restituisce all’oggetto qualche cosa della proprietà che era sua, e che gli fu sottratta”.

 

Una teogonia della religione: i presupposti della religione secondo Feuerbach (§ 29/33)

Il fondamento della religione è il sentimento di dipendenza dalla natura, ma il fine di essa è il superamento di questa dipendenza, è la libertà dalla natura. In altri termini: la base, il fondamento della religione […] è la divinità della natura, ma il fine ultimo della religione è la divinità dell’uomo”; la religione è figlia di un’opposizione fra il volere ed il potere dell’uomo: mentre la volontà dell’uomo è libera e illimitata (e in questo ambito ognuno di noi sembra un “piccolo dio onnipotente”), il suo potere è estremamente debole. Ogni religione nasce quindi per conciliare il contrasto tra la nostra volontà infinita e le nostre possibilità limitate.

Di conseguenza ogni religione è in grado di evolversi di pari passo con l’uomo; infatti, presso le popolazioni meno progredite, “Zeus è la causa o l’essenza dei fenomeni meteorologici: ma in ciò non è ancora posto il suo carattere divino, religioso”. Ciò significa che il primo passo della religione è quello di far “dipendere ciò che è indipendente dalla volontà umana […] dalla volontà di Dio”, il che è esemplificato al meglio dalla mutabilità dell’atmosfera, che è governata – nel paganesimo più antico – dai fulmini di Zeus. In questa prima fase, che è molto vicina ai culti feticistici e animisti, l’uomo interagisce con la sua divinità con la preghiera e col “fumo dei sacrifici”. Questo aspetto del culto batte notevolmente l’accento sulla volontà umana; capiamo quindi l’importanza dell’asserto “il desiderio è un’aspirazione il cui soddisfacimento […] non è in mio potere, è una volontà priva però del potere di tradursi in atto”; ecco quindi che “il desiderio è l’origine, è l’essenza stessa della religione”. Dato questo asserto, “chi non ha desideri non ha neppure dèi”: infatti “dove non ti accade di sentire lamentazioni sulla natura mortale e sulla miseria dell’uomo, ivi non ti accadrà nemmeno di udire gli osanna agli dèi immortali e beati”. E in conclusione, Feuerbach asserisce che “nella disgrazia, nel bisogno […] l’uomo fa la dolorosa esperienza che egli non può fare ciò che vuole, che ha le mani legate”.

 

Il fondamento della preghiera è vicino a quello della civiltà e si evolve parallelamente ad esso (§ 34/36)

La religione serve, quindi, a domare una natura che ci è ostile, e “ha lo stesso fine, insomma, della cultura o della civiltà, che è rivolta unicamente a fare della natura un ente che dal punto di vista teorico sia comprensibile, e da quello pratico sia condiscendente, comprensivo per i bisogni umani”; e tuttavia, sfortunatamente, “la civiltà non riesce mai a realizzare i desideri della religione; essa infatti non può togliere quei termini dell’uomo che hanno il loro fondamento nell’essenza di esso”: Feuerbach sostiene così che la religione riesce a risolvere (seppure in maniera fallace) quei problemi che risultano impenetrabili per il progresso della civiltà umana. La comprensione totalizzante della natura può essere quindi riscontrata solo nella religione, ma tutto è clamorosamente vano: “la natura non risponde ai lamenti e alle domande dell’uomo; lo respinge implacabilmente in lui stesso”. Oltretutto, nella religione feticistico-animistica, l’oggetto della venerazione è spesso un ente materiale privo di vita (come un ceppo d’albero o una pietra) che viene considerato autosufficiente e sussistente per sé.

Con il progredire dello stato di civiltà, l’uomo si trasforma in un ente morale e politico; ecco che, per superare le intime contraddizioni del feticismo, la divinità acquisisce l’attributo dello spiritualismo e soprattutto diviene il supremo reggitore dei valori etici e politici: Zeus quindi diventa il punitore degli empi e degli spergiuri, nonché il padre di tutti i re umani. Così “la forza della natura come tale, e il sentimento di dipendenza da essa, scompaiono di fronte al potere politico o morale”. L’uomo, a questo punto, è pronto a far dipendere tutto dalla sua stessa essenza, in quanto fonde i propri valori morali con gli attributi divini e viceversa: i sovrani mortali, ad esempio, sono lodati con prerogative non umane e innalzati a figli degli dèi.

 

La religiosità orientale è differente da quella occidentale (§ 38/39)

Secondo Feuerbach, la civiltà orientale “non dimentica per l’uomo la natura”, e dunque tende a vedere il sovrano terreno come un ente celeste. Anzi, il nostro filosofo stigmatizza così il rapporto tra la civiltà occidentale e la civiltà orientale: “nei confronti dell’occidentale l’orientale si trova nella situazione dell’abitante della campagna rispetto a quello della città. Il primo è dipendente dalla natura, il secondo dall’uomo, il primo si orienta sulla base delle indicazioni del barometro, il secondo sull’andamento della borsa”. E tuttavia il mondo occidentale è più progredito nella civiltà perché soltanto gli abitanti della città “fanno la storia”. E ancora, nel mondo orientale la natura è oggetto di adorazione, mentre nel mondo occidentale essa è oggetto di godimento.

   

Critica di antropocentrismo, creazionismo, monoteismo, razionalismo e teleologia (§ 40/49)

Man mano che la coscienza umana progredisce, aumenta pure la tendenza ad attribuire alle rappresentazioni umane il valore di “criterio della verità e della realtà”. Ecco che il mondo apparirà all’uomo come un “ente determinato e dipendente dall’intelligenza e dalla volontà”, in quanto l’uomo diviene capace di innalzarsi con la volontà e con l’intelligenza al di sopra della natura (e di conseguenza anche Dio si innalza alla trascendenza). È questo il difetto dell’antropocentrismo.

A questo punto, entra in gioco un attributo fondamentale di Dio: dal momento che Egli è trascendente al mondo, deve esserne il legittimo creatore: “se il signore della natura non ne è in pari tempo l’artefice, l’origine e l’esistere di essa saranno allora indipendenti da lui, il suo potere sarà limitato e difettoso”. È questo il vizio del creazionismo.

E ancora, i credenti non riflettono e non capiscono che “l’uomo ha in se stesso la fonte del monoteismo, che il fondamento dell’unità di Dio è l’unità della coscienza e dello spirito umano”. Infatti Feuerbarch spiega che “il Dio che ha creato il mondo dal nulla […] non è altro che l’essenza della facoltà umana di astrarre e di immaginare, facoltà nella quale io posso, a mio piacere, rappresentarmi il mondo come essente o no, porre il suo essere o toglierlo”, o meglio, “rappresentarmi questo mondo come non essente, e, come reali, infiniti altri mondi”. Quindi l’essenza prima del monoteismo si basa sull’unità della coscienza del soggetto rappresentante.

Il discorso culmina, in definitiva, con l’asserzione secondo cui “l’ente spirituale a cui l’uomo attribuisce un rango superiore alla natura […] non è altro che l’essenza spirituale dell’uomo”.

E tuttavia l’uomo spende tempo ed energie per trovare una connessione tra l’uomo e Dio: questo trait d’union è ben rappresentato dalla metafisica razionalista, che ha la pretesa di “concentrare Dio sulla terra”. A questo proposito, Feuerbach scaglia questa violenta invettiva: “tu non vedi, o miope razionalista, che ciò che in te si ribella all’unione di Dio con l’uomo, che ti fa apparire questa unione come una contraddizione priva di senso, non è Dio, ma quella della natura o del mondo”.

La piaga più devastante è però per Feuerbach quella della teleologia: l’uomo è portato ad umanizzare la natura, attribuendole qualità che sono in realtà sue proprie, e dotando in definitiva la natura di un’intelligenza che non ha ragione di essere. Il nostro filosofo prende come esempio gli oggetti celesti ed i moti stellari: siccome l’uomo riesce a prevedere con mezzi matematici i movimenti di tali corpi, la maggioranza degli uomini si convince erroneamente che tali mezzi matematici siano già frutto di un progetto latente divino scritto in lingua matematica: “così il principio del conoscere è per l’uomo […] il principio dell’essere, la cosa pensata è la cosa reale, il pensiero dell’oggetto è l’essenza dell’oggetto”, il che è ovviamente scorretto. Agendo in tale maniera, “l’uomo rovescia l’ordine naturale delle cose, egli pone, alla lettera, il mondo sulla testa, fa del vertice della piramide la base di essa”. La chiave di volta di tutto il discorso sta quindi nell’asserto secondo cui “il segreto della teleologia ha la sua base nella contraddizione tra la necessità della natura e l’arbitrio dell’uomo, tra la natura quale essa è realmente e la natura quale l’uomo se la rappresenta”. Di conseguenza, il comportamento degli enti naturali deve essere interpretato al di fuori dell’attributo dell’intelligenza fornito dalla teleologia classica. I volatili, ad esempio, volano perché non possono fare altrimenti, ossia non padroneggiano un’arte del volo che consenta loro di stimare le resistenze meccaniche e anche di evitare di volare; nel caso in cui si dotasse (come nella teleologia classica) la natura dell’arte e dell’intelligenza, si incapperebbe tuttavia in un’aporia ben più grave: come si potrebbero spiegare le malformazioni e le deformità naturali?

L’unico modo per risolvere il problema sta nel concepire la natura come autonoma, operante secondo una “necessità sensibile, e quindi eccentrica, eccezionale, irregolare”. Peraltro, la magnificenza di tutti gli enti naturali rimanda in ogni istante a questa necessità sensibile: i fiori rappresentano il momento riproduttivo della vita della pianta, la tela del ragno rimanda alla sua necessità di alimentarsi. Non vi è dunque motivo per cui i razionalisti esaltino la natura perché comandata da un’intelligenza divina.

 

La Provvidenza, i miracoli e Dio stesso sono riducibili all’antropologia (§ 50/52)      

La provvidenza che si esprime nell’ordine, nella regolarità e nella conformità ad un fine dei fenomeni naturali non è la provvidenza della religione”: da questo asserto, ormai ampiamente chiarito, Feuerbach parte per sconvolgere ogni convinzione comune sulla provvidenza divina: se consideriamo che molti individui muoiono in età più che giovanile, ad esempio, possiamo notare la “scarsa cura che la natura ha per le singole membra”, ossia per i singoli individui viventi. Ecco che viene meno uno dei capisaldi del pensiero razionalista; tuttavia, a questo punto, entra in gioco la provvidenza divina vera e propria: “l’oracolo e la preghiera sono i modi religiosi con cui l’uomo rende ciò che è contingente, oscuro e incerto oggetto della provvidenza, della certezza, o almeno della fiducia”. Infatti il tempo degli dèi è il futuro, mentre il prosaico presente è esclusivamente umano ed ateo: “io sono [qui] adesso; gli dèi non mi possono più togliere questo istante”. Se così è, gli dèi dovrebbero avere la possibilità di intervenire attivamente nel corso dello svolgimento temporale: “la bontà è la proprietà essenziale degli dèi, ma come possono essere buoni se non sono onnipotenti, se non sono liberi dalle leggi della provvidenza naturale […] – se dunque non fanno miracoli?”. Cade così pure l’ultima difesa del provvidenzialismo: e Feuerbach può ben affermare che “gli dèi ed i miracoli devono la loro esistenza soltanto all’eccezione della regola”. Gli dèi sono “senza termini ciò che gli uomini sono coi termini.

 

Analisi del monoteismo, del senso dei miracoli, del teismo e prospettive per il futuro della religione (§ 53/55)

Per Feuerbach, il politeismo è la fede nella natura intesa come un’essenza umana, mentre il monoteismo è la fede nell’essenza umana intesa come l’essenza della natura. Il politeismo annulla l’uomo dinnanzi alla potenza della natura, mentre il monoteista stima la singola anima umana superiore ad ogni creatura naturale, innalzando l’uomo a punto culminante della creazione divina: nel monoteismo è dunque grazie all’uomo che la natura assume un senso vero e proprio. I miracoli attestano quindi, secondo Feuerbach, “il dominio dell’uomo sulla natura, la divinità dell’uomo”. “Ma verrà il tempo nel quale […] la fede di un Dio in genere […] verrà considerata superstizione”: questa è la prospettiva ottimistica del discorso del nostro filosofo. L’uomo infatti dovrà capire che “Dio è una parola religiosa, è un oggetto ed un ente religioso, e non un ente fisico, astronomico, o, in una parola, cosmico”: infatti l’essenza di Dio “presuppone dunque uomini che lo onorino e lo preghino”, ed è un “oggetto della fantasia e del sentimento” che si ritrova soltanto nella fede e nell’immaginazione.

La storia della religione insegna, inoltre, che gli dèi greci erano ancora “limitati” perché non erano pensati come creatori diretti della natura e soprattutto perché “nei loro desideri si adattavano ancora ai limiti della natura umana”: infatti “i greci non facevano dell’essenza divina, cioè possibile, il modello, il fine e il metro dell’essenza reale, ma facevano dell’essenza reale il metro di quella possibile”. Al contrario, il Dio dei cristiani deve essere innanzitutto beatitudine senza termine, “sconfinata, inesprimibile, indefinibile”. In definitiva, il passaggio successivo (come emerge nei Principi della filosofia dell’avvenire) dovrà essere la soppressione dei desideri soprannaturali: “chi non ha più desideri soprannaturali non avrà più nemmeno essenze soprannaturali”.

 

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