Ecco dunque che l'Io non è riconducibile ai singoli io empirici, non si identifica con ciascuno di noi, bensì è uno solo. Ma, in definitiva, che cosa è l'Io? Esso non è una cosa, bensì è un'azione o, meglio, per usare le parole di Fichte, è un atto, un unico atto che pone non solo la forma ma anche la materia dell'oggetto. Come agisce l'Io penso? L'azione dell'Io è triplice e si esprime nei tre princìpi :
Il primo principio, ovvero il primo atto dell'Io è la tesi , ovvero la posizione, il porre qualcosa (dal greco tiqhmi , pongo ).
Il secondo principio, ovvero il secondo atto dell'Io è l' antitesi , la contrapposizione, il contrapporre qualcosa (dal greco antitiqhmi , pongo contro ).
Il terzo principio, ovvero il terzo atto dell'Io è la sintesi , la composizione, l'atto del comporre (dal greco suntiqhmi , pongo insieme ).
Sullo sfondo vi è il neoplatonismo (con la sua concezione della realtà che emana dall'Uno) e il cristianesimo, sul quale Fichte insisterà soprattutto in età avanzata: tesi, antitesi e sintesi sono l'equivalente del Padre (soggetto in sè), del Figlio (il soggetto che pone l'oggetto) e dello Spirito Santo (il legame che intercorre tra Figlio e Padre). In base ai 3 princìpi appena esposti, dunque, l'Io compie tre azioni: pone se stesso; poi all'Io è opposto assolutamente un non-Io (ovvero è l'Io, attore del processo, che contrappone a se stesso un non-Io) e, infine, all'interno dell'Io, l'Io oppone all'Io divisibile un non-Io divisibile. I 3 princìpi di Fichte li si trovano, per la prima volta, già nell'antico Parmenide e, in un secondo tempo, in Aristotele: essi costituivano per lo Stagirita i princìpi della logica, identità (A è uguale ad A), non-contradditorietà (A non è B) e principio del terzo escluso (A o è A o non è A). Tuttavia per Aristotele al posto di A si poteva sostituire qualsiasi cosa, ovvero si esprimeva il principio di identità prescindendo dal contenuto e badando solo alla forma: supposto che mi sia dato qualcosa, questo qualcosa sarà necessariamente identico a se stesso. Veniva cioè dato per scontato che qualcosa ci fosse. Fichte, invece, non dice che A è uguale ad A, bensì asserisce che l'Io è uguale all'Io (identità), che l'Io è diverso dal non-Io (non-contraddizione): la differenza è che il principio come lo poneva Aristotele era puramente formale, mentre Fichte, oltre a spiegare che se è dato qualcosa per esso valgono necessariamente le leggi della logica, spiega anche che necessariamente ci è dato qualcosa : l'Io pone se stesso, la sua attività non è solo formale, bensì è anche sostanziale. Fichte stabilisce che l'Io è uguale a se stesso ma anche che l'Io pone se stesso. Vi è sì una formulazione dei princìpi della logica, ma essa è rivestita di carattere anche materiale. Il primo atto dell'Io è una posizione, una tesi. Il secondo atto consiste nel porre contro se stesso un non-Io, un non-soggetto, ovvero un oggetto. Con il primo principio dunque Fichte dice che l'Io pone se stesso, con il secondo dice invece che l'Io pone l'oggetto (non-Io). Con il terzo principio invece spiega che l'Io ha opposto a sè un non-Io; l'Io, essendo puramente un atto, è anche uno sforzo, uno slancio infinito: infinito perchè non ha ancora nulla fuori di sè e, di conseguenza, uno slancio dove non è ancora stato posto nulla non può che essere infinito. Bisogna però rispondere ad una domanda non da poco: perchè l'Io oppone a sè un non-Io? Nel momento in cui contrappone a sè un non-Io, Io e non-Io si limitano a vicenda, lo spirito e la natura si limitano e in virtù di tale 'lotta' nessuno dei due è infinito. Si frantumano, si finitizzano a vicenda con l'inevitabile conseguenza che ciascuno di loro si spezzetta moltiplicandosi. Ecco dunque che con il 3° principio Fichte precisa che con l'opposizione Io e non-Io diventano divisibili, senza però che tale processo esca dall'interno dell'Io: si tratta, per così dire, di un gioco tutto interno all'Io. Il non-Io (oggetto) diventa divisibile dando origine al mondo e alla sua molteplicità; l'Io, frantumandosi, dà origine ai singoli io empirici e finiti, ai soggetti molteplici, ovvero ai singoli uomini. Ecco dunque che si spiega la derivazione dei tanti io dall'unico Io assoluto e infinito. L'Io è dunque per Fichte un soggetto unico e infinito, mentre gli io empirici sono manifestazioni particolari e finite dell'Io assoluto, definito anche, sulla scia di Kant, Io trascendentale . Lo chiama anche egoità per insistere sul fatto che non si tratta dell'io come individualità, ma è il soggetto nella sua concezione più astratta. Che rapporto c'è, dunque, tra soggetto e oggetto? Si tratta di un rapporto di duplice natura che ricorda molto la distinzione kantiana tra ragion pratica e ragion pura: infatti, da un lato, il soggetto determina l'oggetto (attività etica), dall'altro lato, l'oggetto determina il soggetto (attività teoretica). Per quel che riguarda la funzione conoscitiva , Fichte distingue tra immaginazione produttiva e immaginazione riproduttiva . In primis vi è dunque una produzione originaria ed inconsapevole in cui il soggetto pone l'oggetto (2° principio) con l' immaginazione produttiva : è un atto inconsapevole, e non potrebbe essere altrimenti, sennò non si spiegherebbe perchè, appena nati, non riconosciamo che il mondo, il non-Io, non ha esistenza autonoma ma siamo noi a porlo e siamo convinti che esso esista indipendentemente da noi. Vi è poi la immaginazione riproduttiva , attraverso la quale riconosciamo come nostra produzione quel che abbiamo inconsapevolmente posto (il non-Io). Resta da chiarire perchè sia una posizione inconsapevole e si faccia fatica a capire che l'oggetto è una produzione del soggetto: tutto si spiega se teniamo presente che l'io empirico e finito deve riconoscere un qualcosa che non ha posto lui, ma che è stato posto dall'Io assoluto (di cui l'io empirico è manifestazione). L'io empirico ha difficoltà a riconoscere l'oggetto come suo prodotto proprio perchè, paradossalmente, non l'ha prodotto lui, bensì l'ha prodotto l'Io. Ecco perchè, a livello conoscitivo, il mondo ce lo troviamo già costruito e siamo convinti che sia indipendente da noi, anche se le cose non stanno così. Per capire che il non-Io è una nostra produzione entra in gioco l' intuizione intellettuale , che Kant aveva radicalmente respinto (poichè convinto che fosse impossibile cogliere la realtà meta-fenomenica). Fichte ammette l'intuizione intellettuale proprio perchè per lui non esiste alcuna cosa in sè, non vi sono limiti esterni alla conoscenza: il potere dell'Io diventa assoluto e, se ben usato, si può capire, con un'intuizione intellettuale, che l'oggetto è stato posto dal soggetto. Ma tutto questo perchè avviene? La risposta risiede nell'attività etica, fondamentale nella filosofia di Fichte. Il suo, infatti, è un idealismo soggettivo, ma è anche un idealismo etico e in questo rapporto privilegiato con l'etica si vede come Fichte resti fedele a Kant. L' Io è uno slancio verso l'infinito, un'attività che può dunque configurarsi come libertà poichè si dice infinito ciò che non può avere confini e costrizioni esterne. Essendo dunque uno slancio per sua natura infinito e libero, il suo scopo è la realizzazione all'infinito della libertà. Il modo in cui esso avviene lo si può accostare alla potenza di un corso d'acqua che, per poter esprimere tutta la propria forza, deve essere incanalato altrimenti tende a stagnare: proprio come il corso d'acqua, anche l'Io penso, per potersi realizzare, ha bisogno di argini, ovvero di ostacoli, altrimenti sarebbe indefinito (e non infinito) e si disperderebbe come l'acqua del ruscello privo di argini. Tuttavia li ostacoli non li può trovare fuori di sè, poichè non esiste nulla oltre a lui stesso: non avendoli, li crea lui stesso e dà origine al non-Io, al mondo. Il non-Io è dunque l'ostacolo che l'Io si pone per potersi realizzare nel successivo superamento di tale ostacolo. Il che spiega anche il perchè la posizione del non-Io da parte dell'Io sia un atto inconscio: l'Io non deve sapere che gli ostacoli (la realtà) in cui si imbatte se li è posti lui stesso, sennò sarebbero dei finti ostacoli, privi di ogni significato. Quindi, l'Io pone gli ostacoli (non-Io) in modo inconscio, in modo tale da superarli come se fossero dei veri ostacoli autonomi. Si tratta di uno sforzo etico, un tentativo di cambiare la realtà riassorbendone tutte le molteplici contraddizioni: è l'Io che prova a riassorbire dentro di sè il non-Io. E' una concezione, anche questa, di remota ascendenza neoplatonica (la realtà deve ritornare all'Uno) e cristiana (l'amore unisce il Padre e il Figlio): vi è prima una rottura e poi una ricomposizione. Con l'attività teoretica quel che è prodotto inconsciamente viene poi riconosciuto come prodotto dell'Io, con un assorbimento dell'intera realtà nell'Io stesso. Con l'attività etica si compie la stessa cosa, recuperando ciò che si è frantumato in una miriade di pezzi (la realtà). L'affinità con Kant risulta notevole anche nell'indefinitezza dello sforzo: come le idee kantiane, anche lo sforzo dell'Io di riassorbire la realtà, si accorge Fichte, non può mai essere completato, sennò verrebbero meno l'attività dell'Io e la sua libertà, la quale si estrinseca nell'aver ostacoli da superare. Ne consegue che l'attività etica e teoretica dell'Io è rappresentabile con una semiretta, ovvero ha un inizio ma non una fine, prosegue cioè all'infinito. Tuttavia, Hegel criticherà Fichte, biasimandone il cattivo infinito . Anche Hegel aspira all'infinito, ma non apprezza quello di Fichte: il Romanticismo è sì cultura dell'infinito, ma anche della totalità. Ora, pur essendo presente la sfera dell'infinito, in Fichte manca quella della totalità e, anche in questo, è ancora una volta vicino a Kant (le idee kantiane erano infinite ma costruibili parzialmente): Fichte parla sì di uno slancio infinito, ma tale slancio non si realizza mai nella sua totalità, resta parziale. In questa prospettiva etica, il male non è nient'altro che l'inerzia: se la natura dell'Io, infatti, è essere uno slancio infinito, un'attività libera, il peccato più grande che si possa commettere è l'inerzia, il non agire, il non seguire le istanze di movimento infinito dell'Io. E in questa concezione si possono scorgere gli elementi tipici del titanismo romantico (Hölderlin, in una lettera a Hegel, scrive che ' Fichte è un titano che lotta per l'umanità '), del principio soggettivo che si espande all'infinito. Finora abbiamo esaminato il pensiero del Fichte classico, ma egli, ormai surclassato da Schelling, elabora ulteriori riflessioni particolarmente interessanti perchè portano la sua filosofia a naufragare in una deriva religiosa. Tale periodo va sotto il nome di Filosofia dell'Assoluto ed è appunto caratterizzato da un abbandono totale alla dimensione religiosa, sebbene Fichte ci tenga a specificare che non vi è mai stata una svolta radicale nel suo pensiero: l'abbandono alla religione non è una rinuncia alle sue posizioni filosofiche, bensì l'inevitabile conseguenza di esse, sicchè non vi è rottura col passato ma continuazione. Pur essendo prossimo al neoplatonismo e al cristianesimo, è pur vero che permane in Fichte un elemento di distacco da essi: certo, per alcuni versi l'Io è accostabile a Dio, però la grande differenza è che Dio è una cosa (l'essere supremo), l'Io è un'attività (uno slancio infinito). Il discorso che Fichte ha finora imbandito tende a stravolgere il comune modo di pensare, secondo cui prima vi sono le cose e poi le azioni da esse compiute: in Fichte, al contrario, prima c'è l'atto (l'Io) e poi da esso derivano le cose (il non-Io). Egli ha sempre sostenuto che ' la scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo, perché un sistema filosofico non è un'inerte suppellettile, che si può lasciare o prendere a piacere, ma è animato dallo spirito dell'uomo che lo fa suo. Un carattere fiacco di natura o infiacchito e piegato dalle frivolezze, dal lusso raffinato o dalla servitù spirituale non potrà mai elevarsi all'idealismo ': e infatti Fichte ha contrapposto all'idealismo (prima gli atti, poi le cose) il materialismo (prima le cose, poi gli atti); la filosofia di cui ci facciamo portavoci dipende dalle persone che siamo nel senso che si può essere liberi e attivi solo se si è disposti a riconoscere che il fondamento della realtà non è un insieme di cose (come crede il materialismo), ma è un atto libero, uno slancio infinito; solo così possiamo anche noi essere liberi. Vedere la realtà come agglomerato di cose (materialismo) porta a tarpare le ali allo spirito. E del resto, l'idealismo presenta un grandissimo vantaggio rispetto al materialismo: può spiegare il suo opposto. Se vediamo la realtà in termini materialistici non riusciamo in alcun modo a dare una spiegazione della spiritualità (Hobbes in primis non c'era riuscito), mentre se la vediamo come un libero slancio (in termini idealistici), ecco che possiamo anche dare una spiegazione della realtà materiale (il non-Io, autocontrapposizione che l'Io si dà). L'idealismo di Fichte pone al centro la coscienza e vede la realtà che ci circonda come un'autoillusione che l'Io si pone di fronte per poterla superare e tale idealismo è superiore sul piano etico (chi ha concezione idealistica è una persona eticamente migliore) e sul piano teoretico (rende conto anche delle filosofie ad esso opposte, in primis il meccanicismo). Nell'ammettere che l'Io non è una cosa ed è superiore a tutte le cose (all'essere in generale) Fichte si avvicina in modo impressionante al neoplatonismo, secondo il quale l'Uno era ad un livello superiore rispetto all'essere; e tuttavia il Fichte della Filosofia dell'Assoluto si rende conto che non ha senso parlare di uno slancio infinito se non si ammette un essere infinito, poichè uno slancio è infinito se tende verso una realtà infinita (Dio) . Ecco che Fichte si avvicina sempre più alla religione distaccandosi dalla filosofia e, in un certo senso, ha ragione a dire che si tratta semplicemente di una necessaria conseguenza del suo pensiero: infatti l'ammissione di Dio, di una realtà infinita verso la quale possa tendere lo slancio, non è altro che un passo successivo del ragionamento filosofico fichteano. L'Io non è il principio supremo, bensì vi è un essere supremo ed infinito (Dio) che sta a fondamento dello slancio infinito e assoluto dell'Io. Tuttavia, a ben pensarci, con l'ammissione di una sostanza autonoma che sta a fondamento dello slancio infinito dell'Io, Fichte fa un passo falso e cade in contraddizione reintroducendo una cosa in sè (Dio appunto) e mettendo in crisi il suo sistema filosofico, basato interamente sull'inesistenza di cose in sè. Detto questo, il Dio di cui parla Fichte si identifica a tutti gli effetti con quello della tradizione cristiana, tant'è che l'ultima fase della riflessione fichteana è anche nota come dottrina giovannea , proprio perchè nel Vangelo di Giovanni si dice che in principio era il Logos, cioè la sapienza, come se essa fosse un rispecchiamento di Dio: la sapienza, per così dire, altro non è che la mente di Dio. Quanto dice Giovanni corrisponde al pensiero filosofico di Fichte: prima il principio assoluto era la coscienza (l'Io), ora è subentrato un essere infinito (Dio), che si colloca al vertice della scala gerarchica: il rispecchiamento di Dio per Giovanni era il Logos, per Fichte è l'Io. Da notare che anche nel neo-platonismo dall'Uno procedeva prima di ogni altra cosa il nouV , ovvero l'intelletto. Il nucleo della questione resta comunque il passaggio di Fichte dall'idealismo etico o soggettivo all'interpretazione religiosa, il che, tra l'altro, si inquadra perfettamente nel panorama romantico: nella foga dello spazzar via l'intelletto illuministico, c'è chi finisce per spazzar via anche la ragione, e Fichte fa proprio questo. Considerando l'impianto generale della filosofia fichteana, pare evidente che il fine della storia non può che essere la libertà. In concreto, essa si cala nella storia e a questo punto Fichte espone il suo pensiero politico , suddiviso in due fasi:
Il giusnaturalismo, teoria politica tipicamente seicentesca e settecentesca, consiste nell'ammettere che vi siano diritti naturali e che alla base della società vi sia un contratto stipulato tra gli individui per creare la società civile. Questa prima fase del pensiero politico fichteano è di forte derivazione illuministica e si basa sulla convinzione che a contare davvero sono i singoli individui, dotati di diritti naturali, alcuni inalienabili, altri alienabili: i diritti, almeno in partenza, non sono della società, ma dei singoli individui, i quali danno vita alla società rinunciando a parte di quei diritti che la natura stessa ha dato loro. Ciò implica che società e stato si giustificano solo nella misura in cui sono funzionali alle esigenze degli individui. In quest'ottica, non c'è da stupirsi se Fichte guarda con grande simpatia alla rivoluzione francese in tutti i suoi sviluppi, concependola come la rivendicazione di una libertà data per natura agli individui ma a loro sottratta dallo Stato. In un secondo tempo, però, Fichte muta radicalmente la sua concezione politica: prima aveva guardato alla società in un'ottica tipicamente illuministica e, per così dire, meccanicistica, in cui a contare non era il tutto, ma i singoli, proprio come in un orologio a contare per davvero sono i singoli ingranaggi. Ora, invece, si aprono spiragli sul panorama romantico e Fichte arriva a sostenere che, nella società, ciò che conta non sono i singoli, ma la società nel suo complesso, la quale viene a configurarsi come un grande organismo (organicismo politico) che può vivere solo se tutti gli organi, inutili se non inseriti nel complesso, funzionano; proprio come in un albero le radici e le foglie esistono nella misura in cui esiste l'albero e, anzi, esistono in funzione dell'albero stesso, così gli individui esistono solo se la società esiste, con l'inevitabile conseguenza che il tutto conta più delle parti. E così, nel 1800, Fichte compone lo scritto Lo Stato commerciale chiuso in cui sostiene, riprendendo idee platoniche, che lo stato ideale deve essere tendenzialmente chiuso e autartico ( commerciale chiuso ) ; vige l'idea che la vita economica della società deve essere amministrata dallo Stato, il quale, pur non abolendo la proprietà privata, deve comunque intervenire fortemente nell'economia (a dispetto di quel che dicevano i liberisti del laissez faire ). Questa concezione del ruolo statale predominante in ambito economico ha destato interesse nei socialisti, anche se sono stati i nazisti a portare Fichte alle stelle (spesso distorcendone il pensiero) soprattutto per quel che riguarda il suo organicismo e il suo nazionalismo. Infatti Fichte anche in ambito politico fa riferimento ad una totalità che, però, non è più Dio, bensì è la nazione: in I discorsi alla nazione tedesca , del 1807, Fichte si rivolge alla nazione, concetto che andava sempre più affermandosi in età romantica. Importante è la data dell'opera (1807) perchè proprio in quegli anni la Germania era travagliata dalla dominazione napoleonica. Nei Discorsi Fichte rivendica un'egemonia tedesca, ma si tratta di una superiorità addirittura antitetica rispetto a quella predicata dai nazisti: i Francesi guidati da Napoleone sono superiori sul piano politico-militare, sostiene Fichte, ma ciononostante i Tedeschi possono rivendicare una superiorità di natura culturale. L'Europa, infatti, è nata dal crollo dell'Impero Romano, intorno alla Germania e alle nazioni 'barbariche' che han posto fine al dominio romano. Ne consegue, dice Fichte, che il cuore culturale dell'Europa sarà costituito non dalle popolazioni neolatine (quali i Francesi), bensì da quelle germaniche (i Tedeschi in primis). Il discorso di Fichte, del resto, ha un senso se lo inquadriamo in quegli anni, in cui il mondo culturale era dominato a pieno titolo dal mondo tedesco (soprattutto in campo filosofico). In questa prospettiva, i Tedeschi risultano superiori culturalmente poichè si son mantenuti più prossimi alla matrice europea germanica; ne consegue, tra l'altro, l'assurdità di ogni forma di nazionalismo militaristico. Che senso può avere, nell'ottica fichteana, combattere per occupare altri territori? Così facendo ci si mescola con altre tradizioni e si smarrisce la propria purezza culturale: e con questo Fichte nega l'imperialismo che sarà proprio del nazismo. Quella dei Tedeschi è un'egemonia puramente culturale e tale deve essere, senza sfociare in manie espansionistiche: sarà invece Hegel a sostenere che all'egemonia culturale debba corrispondere un'egemonia politico-militare, senza però mai macchiarsi di razzismo. Sia per Fichte sia per Hegel quella tedesca è una superiorità culturale (e per Hegel va integrata con quella militare), ma non razziale (come sarà per i nazisti): e del resto sono filosofi idealisti, in cui la dimensione materiale non consta di esistenza autonoma e per cui la superiorità deve per forza essere sempre fondata su elementi spirituali (quali la cultura) e non materiali (quali la razza).