Il metodo della filosofia pratica secondo Aristotele
A cura di Enrico Berti
1. L’intento tipologico
La fisica e la metafisica sono le due "scienze teoretiche" coltivate da Aristotele, quelle che si contendono il primato ed il titolo di "sapienza" (spettante, come si potrebbe mostrare in altra sede, inizialmente alla fisica e conclusivamente alla metafisica): la terza scienza teoretica da lui riconosciuta, cioè la matematica, non fu infatti da lui coltivata direttamente, anche se fu oggetto della sua considerazione come modello del metodo rigorosamente apodittico. Dal punto di vista del metodo, la fisica e la metafisica non differiscono sostanzialmente tra di loro, in quanto praticano procedimenti di tipo prevalentemente dialettico, cioè dialogico, raggiungendo livelli più o meno alti di dimostratività, mentre si distinguono abbastanza nettamente dalla matematica, la quale invece, secondo Aristotele, segue procedimenti dimostrativi di tipo esclusivamente monologico. Un'attenta considerazione merita, dal punto di vista metodologico, la cosiddetta filosofia pratica, perché essa è stata recentemente individuata, proprio nella sua formulazione aristotelica, come espressione di una forma di razionalità diversa rispetto a quella scientifica (2).
La dizione "filosofia pratica" è stata adottata per la prima volta proprio da Aristotele, il quale, nel II libro della Metafisica—il famoso " alfa minuscolo", che qualcuno considera non autentico, ma che in realtà è solo estraneo alla serie originaria—, dichiara:
"è giusto anche chiamare la filosofia scienza della verità. Infatti della filosofia teoretica è fine la verità, di quella pratica l'opera, poiché i [filosofi] pratici, anche se indagano il modo in cui stanno le cose, non studiano la causa di per se stessa, ma in relazione a qualcosa ed ora" (1, 993b 19-23).
La filosofia pratica, dunque, ha in comune con quella teoretica il fatto di cercare la verità, ossia la conoscenza di come stanno effettivamente le cose, e di cercare anche la causa di come esse stanno, ossia di essere scienza. La sua differenza rispetto alla filosofia teoretica è che per quest'ultima la verità è fine a se stessa, mentre per la filosofia pratica la verità non è il fine, ma è solo un mezzo in vista di altro, ossia dell'azione, la quale è sempre situata nel tempo presente, cioè non è qualcosa di già esistente, ma qualcosa che deve esser fatto ora. Mentre, insomma, la filosofia teoretica lascia, per così dire, le cose come stanno, aspirando solo a conoscere perché stanno in un certo modo, la filosofia pratica, al contrario, cerca di instaurare un nuovo stato di cose, e cerca di conoscere il perché del loro modo di essere solo al fine di cambiarlo.
Questo rapporto è ulteriormente illustrato nella famosa classificazione delle scienze contenuta nel libro VI, sempre della Metafisica. Qui Aristotele, dopo aver detto che la fisica, avendo per oggetto la natura, la quale ha in se stessa il principio del moto e della quiete, non è una scienza né pratica né poietica, aggiunge:
"infatti delle cose producibili il principio è in colui che produce, cioè è l'intelligenza o l'arte o una qualche altra capacità, mentre delle cose praticabili esso è in colui che agisce, ossia è la scelta, poiché ciò che è oggetto di azione coincide con ciò che è oggetto di scelta. Sicché, se ogni razionalità è o pratica o poietica o teoretica, la fisica sarà una [razionalità] teoretica, ma teoretica intorno ad un ente tale che è capace di muoversi, ed intorno alla sostanza che è secondo la forma per lo più, non quella che è solo separata" (1, 1026 a 22-27).
La denominazione di "pratica" deriva dunque dall'oggetto di questa scienza, che è costituito dalle cose "praticabili", cioè dalle azioni, dalla "prassi", le quali hanno il loro principio nella scelta, cioè nella iniziativa dell'uomo, perciò non sono indipendenti come le sostanze naturali, oggetto della fisica, anche se queste ultime sono anch'esse secondo la forma, cioè conformi alla regola, soltanto "per lo più" (cioè non "sempre", come le realtà separate, ovvero immateriali, oggetto della matematica), esattamente come vedremo essere l'oggetto della filosofia pratica. L'azione, insomma, caratterizza la filosofia pratica sia come scopo che come oggetto, nel senso che l'unico settore della realtà in cui sia possibile, secondo Aristotele, cambiare lo stato delle cose, è quello costituito dalle azioni umane.
Questo intento pratico è ciò che contraddistingue la filosofia pratica, nel senso aristotelico del termine, non solo dalla filosofia teoretica, che in Aristotele abbraccia tanto ciò che noi chiamiamo filosofia quanto ciò che noi chiamiamo scienza, ma anche dalla scienza nel senso moderno del termine, che abbraccia tanto le scienze naturali quanto le cosiddette scienze umane, o sociali, o politiche. In virtù di esso, infatti, la filosofia pratica è tutt'altro che " neutrale", " avalutativa", nei confronti della realtà (umana), ma al contrario essa ne giudica il valore, cioè valuta che cosa in essa è bene e che cosa è male, al fine di migliorarla. Nel fare questo, tuttavia, essa non rinuncia a conoscere la verità, cioè ad essere scienza, ad accertare non solo come stanno le cose, ma anche quali ne sono le cause.
Vediamo allora qual è il metodo di questa scienza, cioè in quale misura la peculiarità del suo scopo e del suo oggetto influisce sul suo modo di procedere. Per chiarire questo, è necessario andare alle opere in cui tale filosofia è sistematicamente esposta, cioè le Etiche e la Politica. All'inizio dell'Etica Nicomachea Aristotele non esita a dichiarare che l'oggetto della "scienza politica" - questo, infatti, è il nuovo nome della filosofia pratica, per le ragioni che subito vedremo - è il bene supremo dell'uomo, cioè il suo fine ultimo, quello in vista del quale vengono ricercati tutti gli altri. Parlare del "bene", inteso come fine dell'uomo, significa parlare di qualcosa che non è ancora realizzato, ma che proprio per questo si vuole realizzare e deve poter essere realizzato, cioè è "praticabile" e "da praticarsi". Esso, per Aristotele, non è soltanto il bene del singolo individuo, bensì è il bene dell'intera città (polis), perché il singolo è parte della città; perciò la scienza che se ne occupa è la scienza della città, ovvero la scienza "politica". Questa è anche detta da Aristotele "scienza architettonica" rispetto a tutte le altre arti o scienze pratiche (arte delle costruzioni navali, strategia, economia), perché svolge una funzione direttiva nei confronti di tutte, in quanto si occupa del fine ultimo (I 2).
La scienza politica non ha soltanto lo scopo di conoscere che cos'è il bene supremo, bensì si propone anche di realizzarlo; anzi, dice Aristotele, la conoscenza di esso ha una grande importanza proprio perché, guardando ad esso come ad un bersaglio, come fanno gli arcieri, "riusciremo meglio a realizzare ciò che deve essere": dunque il bene non è soltanto un essere da conoscere, ma anche un "dover essere" da realizzare. La scienza politica, infatti, è "legislatrice", cioè prescrive "che cosa si deve fare e da quali azioni ci si deve astenere". Proprio per questo, a proposito del bene supremo dell'uomo, essa si accontenta di "delineare almeno in generale che cosa esso è mai" (1094 a 25), cioè si accontenta di conoscerlo, per così dire, nel "tipo", vale a dire nello schema generale, nelle linee fondamentali, senza considerare le sue applicazioni particolari nei minimi dettagli.
Quest'ultima espressione, la quale ricorre numerose volte sia nell'Etica Nicomachea (1101 a 27, 1104 a 1, 1107 b 14, 1113 a 13, 1114 b 27, 1117 b 21, 1129 a 11, 1176 a 31, 1179 a 34) che nella Politica (1276 b 19, 1302 a 19, 1323 a 10, 1335 b 5, 1341 b 31), compare per la prima volta in Aristotele nei Topici a proposito della classificazione delle diverse specie di sillogismo (apodittico, dialettico, eristico), per dire che essa è sommaria, cioè non è un discorso "accurato" (akribes), ovvero dettagliato, preciso, esauriente - come quello che, ad esempio, viene fatto negli Analitici a proposito delle diverse figure di sillogismo -, ma tuttavia è "sufficiente alla trattazione proposta" (I 1, 101 a 19-24). Ciò significa che il risultato in questione non è il più accurato che si possa desiderare, pur senza essere errato o falso: esso ha il grado di accuratezza che si richiede ad una trattazione, la quale non ha come scopo esclusivo una conoscenza perfetta di un certo oggetto, ma vuole servirsi della conoscenza di esso in vista di un fine ulteriore. Insomma il carattere "generale", o "tipologico", della scienza politica è strettamente connesso al suo intento pratico(3).
Si deve riconoscere, tuttavia, che non solo la filosofia pratica si propone un intento tipologico, ma questo è comune, in certi momenti, anche alle scienze teoretiche, per esempio alla psicologia (De anima, II 1, 413 a 9; II 4, 416 b 30) ed alla zoologia (de part. an. I 1, 487 a 12; hist. an. I 6, 491 a 8), cioè alla fisica, e persino alla metafisica (cfr. metaph. VII 3, 1029 a 7), cioè si presenta ogni qualvolta non è necessario esaurire l'argomento sin nei dettagli, perché la trattazione non è fine a se stessa, ma è in vista di altro.
La proclamazione esplicita del carattere tipologico della scienza politica è contenuta nel capitolo del I libro delI'Etica Nicomachea, interamente dedicato all'illustrazione del metodo, dove Aristotele, a proposito appunto della "trattazione politica (methodos... politike)" dichiara:
"si parlerà in modo sufficiente, se si raggiungerà la chiarezza adeguata alla materia che sta sotto; il rigore (to akribes) infatti non deve essere cercato nella stessa misura in tutti i discorsi, come neppure in tutti i manufatti. Le azioni belle e giuste, di cui si occupa la scienza politica, hanno molte differenze e variazioni, al punto che sembrano essere solo per legge, non per natura. Ed un qualche margine di variazione di questo genere hanno anche i beni, per il fatto che a molti derivano danni da essi; alcuni infatti sono periti proprio a causa della ricchezza, altri a causa del coraggio" (I 3, 1094 b 11-19).
Qui Aristotele descrive con molta chiarezza quello che abbiamo chiamato l'intento tipologico proprio della scienza politica: essa si occupa delle azioni belle, cioè nobili, e giuste, come pure dei beni, che sono oggetti alquanto diversi e variabili, nel senso che ciò che è giusto in determinate circostanze può non esserlo in altre, e ciò che è bene per alcuni, può non esserlo per altri. La scienza politica non può, però, scendere nei dettagli, cioè determinare con assoluta precisione, o accuratezza, o rigore (akribes), ciò che è bello, giusto o buono in ciascuna circostanza o in ciascun caso particolare, ma deve limitarsi a indicare ciò che è bello, giusto e buono in generale. Anche qui dunque, come nei Topici, l'intento tipologico viene contrapposto all'accuratezza, al rigore. Si noti che, nel libro II della Metafisica, Aristotele dice la stessa cosa anche a proposito della fisica, quando afferma che non si deve pretendere l'esattezza della matematica anche nelle scienze di realtà materiali (3, 995 a 14-17).
Ma il parallelismo, dal punto di vista metodologico, tra la scienza politica e la fisica viene da lui ulteriormente sviluppato:
"si deve dunque desiderare che coloro i quali parlano intorno a cose siffatte ed a partire da premesse siffatte mostrino il vero sommariamente e nelle linee fondamentali, e che coloro i quali parlano intorno a cose che sono per lo più ed a partire da premesse di questo genere giungano anche a conclusioni di questo genere" (1094 b 19-22).
Qui da un lato viene ribadito l'intento tipologico, proprio della scienza politica, mentre dall'altro viene applicata anche ad essa la figura della dimostrazione valida non "sempre", ma "per lo più", cioè nella maggior parte dei casi, di regola (con qualche eccezione), che è propria della fisica (cfr. metaph. VI 1, 1025 b 26-28) e che, stando agli Analitici posteriori, non toglie il carattere di vera e propria scienza al discorso in questione (cfr. an. post. I 30, 87 b 19-22). Si deve supporre che "per lo più" siano i beni: per esempio la ricchezza per lo più è un bene, anche se in qualche caso produce danni. Le "molte differenze e variazioni" che caratterizzano i beni, menzionate in precedenza, non eccedono dunque il margine di indeterminatezza che è proprio del "per lo più" e comunque non impediscono di " mostrare il vero " e di concludere, sia pure " per lo più", a partire da premesse, cioè di fare dei veri e propri sillogismi.
Il parallelo con la fisica diventa poi un vero e proprio parallelismo col capitolo di metaph. II in cui il metodo di questa viene esposto. Prosegue infatti Aristotele:
"allo stesso modo è necessario anche che sia accolta ciascuna delle cose dette; è proprio infatti di colui che è istruito cercare il rigore in ciascun genere tanto quanto la natura della cosa lo ammette, poiché fa la stessa impressione sia accettare che un matematico faccia discorsi persuasivi sia pretendere che un retorico faccia dimostrazioni. Ciascuno giudica bene le cose che conosce, e di queste è buon giudice. In ciascun genere allora [giudica bene] colui che è istruito [in quel genere], mentre [giudica bene] in generale colui che è istruito intorno a tutto " (1904 b 22 - 1095 a 2).
L'idea che bisogna essere istruiti sul metodo di ciascuna scienza prima di cominciare ad ascoltarne l'esposizione è già affermata in metaph. II (995 a 13), come pure la contrapposizione tra la matematica, concepita come dotata del massimo rigore, in quanto strutturata di vere e proprie dimostrazioni, e la retorica, concepita come mancante di rigore e dotata invece di persuasività, in quanto basata su esempi e testimonianze di poeti: come la fisica, in quel libro, si colloca ad un livello intermedio tra le due, così si deve pensare che si collochi la filosofia pratica, che è dunque più " debole ", o " duttile ", della prima e più " forte", o "rigorosa", della seconda.
C'è infine un altro motivo di affinità tra la filosofia pratica, o scienza politica, e la fisica: entrambe abbisognano dell'esperienza. Continua infatti Aristotele:
"perciò della politica non è uditore appropriato il giovane; questi infatti è inesperto [apeiros, cioè senza esperienza] delle azioni che si compiono lungo l'intera vita, mentre i discorsi [della politica] partono da queste e vertono su queste" (1095 a 2-4).
È chiaro tuttavia che qui per esperienza non si intende semplicemente la conoscenza sensibile, cioè le "sensazioni", ma l'esperienza della vita, cioè la conoscenza ripetuta di certe situazioni dovuta al fatto di averle vissute. La necessità di questa esperienza conferisce al cultore di filosofia pratica un certo carattere, che vedremo ricorrere anche nel " saggio", cioè in colui che, pur non essendo filosofo, sa come ci si deve comportare nei singoli casi.
Tipico della filosofia pratica, non di quella teoretica - pur essendo, ancora una volta, comune anche alla " saggezza " -, è invece l'ultimo carattere indicato da Aristotele, cioè:
"inoltre [il giovane] essendo seguace delle passioni, ascolterà vanamente ed inutilmente, poiché il fine non è la conoscenza, ma l'azione. Non fa nessuna differenza se uno è giovane di età o immaturo di carattere; il difetto non deriva infatti dal tempo, ma dal vivere secondo la passione e dal seguire ogni impulso. Per coloro che sono cosiffatti la conoscenza diventa inutile, come per gli incontinenti. A coloro invece che rendono i loro desideri conformi alla ragione ed agiscono di conseguenza, sarà molto utile il sapere intorno a queste cose" (1095 a 4-11).
Il requisito qui indicato per seguire con profitto un corso di filosofia pratica è una certa capacità di dominare le passioni, che in genere è assente nei giovani o negli immaturi di carattere. Esso è reso necessario dall'intento pratico di questa scienza, che non è solo di far conoscere il bene, ma di aiutare a praticarlo, cioè di rendere migliori. A nulla servirebbe, infatti, conoscere il bene, se poi non si avesse anche la forza di metterlo in pratica. Si noti come Aristotele si mostri qui perfettamente consapevole dell'insufficienza del solo conoscere in vista dell'agire, probabilmente con un sottinteso polemico nei confronti di Socrate, per il quale la sola conoscenza del bene era invece del tutto sufficiente a farlo praticare.
Ulteriori indicazioni metodologiche sulla scienza politica, che in fondo rientrano nell'approccio tipologico, sono contenute in altri passi del I libro dell'Etica Nicomachea.
"Non ci sfugga - dice Aristotele - la differenza tra i discorsi che derivano dai princìpi e quelli che vanno verso i princìpi. Giustamente infatti Platone si poneva questo problema e cercava se la via (hodos) venga dai principi o vada verso i principi, come nello stadio se vada dai giudici di gara alla meta o viceversa. Si deve infatti cominciare dalle cose note, ma queste lo sono in due sensi, cioè alcune per noi ed altre in assoluto. Certamente noi dobbiamo partire da quelle note a noi. Perciò è necessario che l'ascoltatore adeguato intorno a cose belle e giuste e in generale a questioni politiche sia stato educato bene per mezzo delle abitudini: principio infatti è il che, e se questo appare sufficientemente chiaro, non ci sarà più bisogno del perché, poiché chi è tale possiede o apprende facilmente i principi, mentre chi non è nessuno di questi tali, ascolti le parole di Esiodo, ecc." (I 4, 1095 a 30-b 9).
L'analogia qui stabilita è ancora una volta tra la filosofia pratica e la fisica, perché è proprio della fisica partire dalle cose più note a noi, cioè dal "che", dal dato di fatto, per risalire verso quelle più note in assoluto, cioè più intelligibili, che sono i principi, o il "perché" (cfr. phys. I 1, 184 a 15-21). Ma ben diverso è il significato che, nella filosofia pratica, hanno il "che" ed il "perché". Il primo, infatti, sembra consistere nella norma, ovvero nell'indicazione "che" una certa cosa è buona, o "che" una certa cosa si deve fare, mentre il secondo sembra essere la giustificazione della norma, ossia la sua fondazione razionale.
Il primo, dunque, è principio per noi, o cosa più nota a noi, mentre il secondo è principio per sé, o cosa più nota in assoluto. Aristotele, col suo solito realismo, cioè con la consapevolezza già manifestata circa l'insufficienza del solo conoscere ai fini dell'agire bene, ritiene più necessaria, a questo fine, una buona educazione, attuata per mezzo di buone abitudini, che una accurata conoscenza del perché.
Anzi, anche sotto il profilo della conoscenza, secondo Aristotele, è più facile risalire al perché, cioè ai principi più noti in assoluto, alla giustificazione razionale della norma, una volta che si possiedano, per via di una buona educazione, i principi più noti a noi, cioè il che, la norma. Il metodo, dunque, è sempre quello di procedere dalle cose più note a noi, cioè dall'esperienza, a quelle più note in sé, cioè ai princìpi, ma ancora una volta per esperienza si intende un abito morale acquisito, non una mera conoscenza esteriore. Fatte salve queste differenze, la filosofia pratica si presenta, sotto l'aspetto metodologico, non dissimile dalla fisica, nel senso che va anch'essa alla ricerca di una fondazione razionale dell'esperienza, e quindi sale dal caso particolare alla legge generale, anche se si accontenta di determinare quest'ultima in maniera sommaria e generica, perché ciò che le interessa non è tanto la sua formulazione rigorosa, quanto la sua applicazione pratica.
Infine, dopo avere fornito una prima definizione dell'oggetto della scienza politica, cioè del bene supremo, ovvero della felicità, come esercizio della funzione propria (oikeion ergon) dell'uomo - che è una dottrina importante e famosa, caratterizzante l'intera sua etica - , Aristotele presenta il risultato in tal modo acquisito come esempio di approccio tipologico, nei termini seguenti:
"resti dunque in questo modo delineato nei suoi contorni il bene, poiché bisogna anzitutto disegnare lo schema, indi precisare ulteriormente. Si ritiene che sia alla portata di tutti proseguire e completare ciò che è stato delineato bene nei suoi contorni, e che il tempo sia buono scopritore o collaboratore nella scoperta di cose siffatte; dal che sono derivati anche i progressi nelle arti, poiché è alla portata di tutti aggiungere ciò che manca. Bisogna poi ricordarsi anche di quanto detto prima e non cercare l'accuratezza (akribeian) allo stesso modo in tutte le cose, ma in ciascuna secondo la materia che sta sotto e tanto quanto è proprio della trattazione" (I 7, 1098 a 20-29).
Di nuovo qui Aristotele oppone l'intento tipologico all'accuratezza, cioè al rigore, pur riferendosi ad una dottrina importante come quella della funzione propria dell'uomo, il che dimostra che la relativa mancanza di rigore o, meglio, di definitività, non comporta alcuna rinuncia alla fondazione razionale, cioè al discorso propriamente filosofico. Ai suoi occhi, probabilmente, le matematiche fornivano l'esempio di un sapere compiuto, e perciò non più suscettibile di alcun progresso, mentre la filosofia, cioè la fisica, la metafisica e la filosofia pratica, erano piuttosto simili alle arti, cioè alle tecniche (intese nel senso antico del termine), nelle quali è possibile un continuo progresso, non però nel senso del cambiamento radicale, bensì in quello del perfezionamento, della rifinitura di un abbozzo già disegnato nelle sue grandi linee.
Il discorso prosegue con l'esempio dei due modi diversi in cui l'angolo retto viene studiato dal costruttore e dallo studioso di geometria - esempio che ricorda molto da vicino quello della differenza tra la forma del camuso, oggetto della fisica, e quella del curvo, oggetto della matematica (cfr. metaph. VI 1, 1025 b 30 -1026 a 6) -, e si conclude così:
"neppure la causa deve essere cercata in tutte le cose allo stesso modo, ma in alcune è sufficiente che sia mostrato bene il che: per esempio, anche riguardo ai principi, il che è primo e principio. Tra i principi, poi, alcuni sono appresi per mezzo dell'induzione, altri per mezzo della sensazione, altri per mezzo di una specie di abitudine, altri in altri modi ancora. Bisogna cercare di intendere ciascuno di essi nel modo che gli è connaturato e bisogna impegnarsi affinché siano definiti bene, poiché essi hanno una grande importanza per ciò che segue. Si ritiene infatti che il principio sia più della metà dell'intero, e che molte delle cose indagate diventino chiare per mezzo di esso" (1098 a 33-b 9).
Qui Aristotele distingue chiaramente tre tipi di principi: quelli appresi per mezzo dell'induzione, quelli appresi per mezzo della sensazione e quelli appresi per mezzo dell'abitudine. I primi non possono che essere quelli della matematica, perché i secondi sono quelli della fisica. Mentre questa, infatti, perviene ai principi partendo dalla sensazione (cfr. metaph. VI 1, 1025 b 11), cioè dalla conoscenza sensibile, quella vi perviene per mezzo dell'induzione (cfr. an. post. II 19), cioè per mezzo della guida di un insegnante - il termine "induzione" letteralmente significa "guidare verso" ed equivale a "introduzione" -, il quale si serve di esempi particolari (per es. di figure disegnate) per far capire le assunzioni di esistenza e le definizioni universali (delle figure immateriali).
Il terzo tipo di principi, quelli che si apprendono per mezzo dell'abitudine, sono i principi della filosofia pratica. Solo per essi vale l'affermazione che il principio ed il primo è il "che": essi infatti, come già abbiamo visto, consistono nella posizione di una norma, cioè nell'indicazione che una certa azione è buona (o cattiva) e pertanto deve essere fatta (o evitata). In questo caso, dunque, il "che" non significa una mera situazione di fatto, ma indica in generale una proposizione, un giudizio, una valutazione, presentata senza un "perché", cioè senza una fondazione razionale. Ma è chiaro che il compito della filosofia pratica è di fondare questo tipo di principi, cioè di cercarne il perché, la causa, la ragione, sia pure in modo sommario e generale, cioè attraverso l'approccio tipologico, perché il suo interesse fondamentale non è conoscitivo, cioè teoretico, ma pratico. Con la filosofia pratica, dunque, siamo in presenza di una forma di razionalità originale, specifica, nettamente diversa dalla matematica come struttura e grado di rigore, più affine alla fisica sotto quest'ultimo aspetto, ma diversa anche dalla fisica per il suo intento.
2. Il procedimento diaporetico
Se quello che abbiamo chiamato intento tipologico indica il tipo di conoscenza a cui la scienza politica aspira, dato il suo carattere fondamentalmente pratico, il modo per ottenere tale conoscenza, cioè il vero e proprio percorso da seguire, viene descritto da Aristotele nei termini di un procedimento caratteristico della sua dialettica, che potremmo chiamare procedimento aporetico. Già all'inizio dell'Etica Nicomachea, infatti, cioè subito dopo avere enunciato l'intento tipologico, Aristotele si accinge a determinare che cosa sia il bene supremo dell'uomo, quello che tutti chiamano felicità, rilevando che esso viene inteso in modo diverso dai "molti" e dai "sapienti". Per mezzo della prima espressione egli allude a concezioni che identificano la felicità col piacere, o con la ricchezza, o con il potere, mentre per mezzo della seconda allude fondamentalmente alla concezione di Platone, che identifica il bene supremo con la stessa Idea del bene. Ed ecco il primo accenno di tipo metodologico:
" esaminare (exetazein) tutte le opinioni è certamente alquanto vano, mentre è sufficiente farlo con quelle più diffuse o che sono ritenute possedere qualche ragione" (I 4, 1095 a 28-30).
L"'esaminare" (exetazein) è l'attività propria della dialettica, la quale - come è detto nei Topici a proposito del suo terzo "uso", cioè della sua utilità per le scienze filosofiche -, proprio per il fatto di essere "esaminatrice", possiede la via che conduce ai principi di tutte le discipline (top. I 2, 101 b 3-4). Esaminare significa vagliare, saggiare il valore, sottoporre a prova (exetasis è infatti sinonimo di peira): tutte operazioni che, nel corso della discussione dialettica, vengono compiute da colui che interroga. Ciò che viene esaminato sono le opinioni, cioè, nel caso specifico, le diverse concezioni del bene, o della felicità, delle quali si vuole appunto accertare il valore, la tenuta, la consistenza. Ma non vale la pena - questa è la tesi proposta qui da Aristotele - esaminare tutte le opinioni che siano mai state espresse sul bene, cioè anche le opinioni qualsiasi, che non hanno mai avuto alcun credito e che dunque sono quasi sicuramente sprovviste di valore. Bisogna esaminare solo le più diffuse o quelle professate dai più sapienti, perché queste hanno più probabilità di possedere qualche ragione.
Non si confondano, tuttavia, queste opinioni, le quali devono essere esaminate, con gli éndoxa, i quali sono ciò alla luce di cui le opinioni vengono esaminate. Gli endoxa, infatti, sono le premesse da cui muovono i sillogismi dialettici (cfr. top. I 1, 100 a 29-b 23), non ciò che si cerca di confutare per mezzo di questi ultimi. Aristotele in genere non mette in discussione gli éndoxa, ma si serve di questi per mettere in discussione le opinioni. Anche quando, come nel caso della filosofia pratica, egli reputa degne di essere esaminate soltanto alcune opinioni, cioè le opinioni importanti, condivise, autorevoli, non per questo egli intende mettere in questione gli endoxa. È infatti a partire da questi, cioè da premesse che non possono non essere concesse, che si discuterà il valore dell'opinione dei molti o di quella di Platone.
Né si deve credere che il metodo qui esposto contrasti con quello proposto per la fisica o per la metafisica, dove si raccomanda di prospettare "tutte" le opinioni relative ad un certo problema (cfr. phys. I 1, 184 b 15-25; metaph. III 1, 995 a 24-27): l'importante, infatti, non è di accumulare quantitativamente il maggior numero possibile di opinioni, perché ciò non ha alcuna influenza sulla validità dell'esame, bensì di abbracciare tutte le possibili soluzioni di un problema, al fine di individuare quella giusta per mezzo di una progressiva eliminazione di tutte le altre. Ora, per prospettare tutte le soluzioni, bisogna creare delle alternative tra proposizioni reciprocamente contraddittorie, nelle quali possano rientrare tutte le opinioni possibili, senza che sia necessario esaminare queste ultime una ad una. Per non dire, poi, che nella filosofia pratica la completezza dell'esame è meno necessaria che nella fisica e nella metafisica, dato l'approccio tipologico che contraddistingue la prima, cioè il suo intento fondamentalmente pratico. In sostanza, dunque, Aristotele viene a proporre anche per la filosofia pratica lo stesso metodo dialettico che ha già proposto per la fisica e la metafisica.
Egli illustra questo metodo ulteriormente, sempre nell'Etica Nicomachea, subito dopo avere osservato che la definizione di felicità come esercizio della funzione propria dell'uomo rappresenta un primo abbozzo, il quale richiede di essere ulteriormente precisato, ed avere ricordato i diversi modi (induzione, sensazione, abitudine) attraverso cui si perviene al principio.
"Intorno a questo [cioè al principio] - egli prosegue - si deve indagare non solo a partire dalla conclusione e dalle premesse da cui derivano i discorsi, ma anche a partire dalle cose che vengono dette a proposito di esso, poiché rispetto al vero tutte le cose esistenti concordano, mentre rispetto al falso il vero subito discorda" (I 8, 1098 b 9-12).
Qui Aristotele anzitutto allude ai due modi fondamentali in cui un principio (con questa espressione, nel caso specifico, egli intende la definizione della felicità), può venire in genere scoperto, cioè il procedimento dal basso verso l'alto e quello dall'alto verso il basso, praticati rispettivamente dalla fisica e dalla matematica (il primo è quello che parte dalle conclusioni, cioè dagli effetti, il secondo quello che parte da premesse anteriori, cioè da cause ancora più universali o originarie). Ma a questi due modi egli ne aggiunge un terzo, che è quello qui più interessante, il quale consiste nel partire dalle "cose dette", cioè dalle sentenze, vale a dire dalle opinioni. Si tratta dunque, ancora una volta, del metodo dialettico precedentemente accennato.
Tuttavia nell'ultimo passo riportato è contenuta un'importante osservazione circa il valore di tale metodo, quella per cui le opinioni vere sono tutte concordi, o compatibili, tra di loro, mentre tra le opinioni vere e quelle false c'è inevitabilmente discordia, cioè incompatibilità. In altri termini, quando c'è discordia tra due opinioni, è impossibile che siano entrambe vere, ma una di esse sarà vera e l'altra falsa, mentre quando c'è perfetta concordia tra più opinioni, esse possono benissimo essere tutte vere. La discordia, dunque, è segno - non necessario ma sufficiente - del falso, mentre la concordia è segno - necessario anche se non sufficiente - del vero. L'osservazione si basa, come si vede, niente meno che sul principio di non contraddizione, per cui la realtà è sicuramente incontraddittoria, e su quello del terzo escluso, per cui uno dei due corni della contraddizione è vero, mentre l'altro è falso.
Ma essa non è altro che un'allusione al metodo dialettico della confutazione: come risulta dai Topici, infatti, nella discussione dialettica colui che domanda, cioè che sottopone ad esame un'opinione, cerca di dedurne una contraddizione con qualche endoxon o comunque con qualche premessa concessa dall'avversario, poiché la contraddizione, cioè l'incoerenza interna ad un discorso, è considerata il segno più sicuro della sua falsità, mentre colui che risponde cerca di evitare in tutti i modi la contraddizione, perché l'incontraddittorietà, cioè la coerenza interna al discorso, è indispensabile alla sua verità. Questo stesso metodo, del resto, viene praticato ancora oggi nei dibattiti giudiziari, dove un testimone che si contraddice è considerato inattendibile, mentre una serie di testimonianze tra loro coerenti sono ritenute attendibili.
Aristotele applica questo metodo a proposito della sua definizione della felicità e trova conferma alla verità di essa nel fatto che le opinioni più diffuse o più autorevoli circa la felicità, per esempio quelle che la identificano con i beni dell'anima, o con la virtù, o con la saggezza, sono sostanzialmente concordi con essa. Anche opinioni come quella che identifica la felicità col piacere o quella che la identifica coi beni esteriori, secondo Aristotele, non sono incompatibili con la sua definizione, perché l'esercizio della funzione propria dell'uomo implica sicuramente il piacere e perché i beni esteriori sono pur sempre condizione necessaria per tale esercizio.
Ma il passo forse più famoso circa il metodo della filosofia pratica è quello contenuto all'inizio del libro VII, in cui Aristotele spiega come si deve procedere a proposito dell'incontinenza.
"Bisogna come negli altri casi, dopo aver posto i fenomeni (phainomena) ed avere anzitutto sviluppato le aporie (diaporesantas), mostrare in tal modo per quanto è possibile tutti gli endoxa intorno a queste passioni, e se ciò non è possibile, almeno la maggior parte ed i più importanti; qualora infatti si risolvano le difficoltà e si lascino in piedi gli endoxa, si sarà mostrato in modo sufficiente" (VII 1, 1145 b 2-7).
Tutti gli interpreti ormai concordano nel riconoscere che i "fenomeni" qui menzionati non sono i dati dell'osservazione sensibile, significato che pure il termine altrove possiede, bensì "ciò che pare alla gente", e quindi i pareri, le opinioni (4). La prima cosa da fare, dunque, secondo Aristotele, è prendere in considerazione le opinioni espresse dagli altri a proposito dell'argomento trattato, nella fattispecie, le opinioni concernenti l'incontinenza. Queste opinioni, tuttavia, devono essere sottoposte ad esame, cioè indagate, messe alla prova. Ciò viene fatto per mezzo del procedimento chiamato diaporesai, il quale consiste, come è detto in top. I 2, 101 a 34-35, ed esemplificato in metaph. III, nello sviluppare le aporie in due direzioni opposte. A proposito di ciascuna opinione, dunque, si deve prospettare di fronte ad essa quella opposta, oppure si devono disporre tutte le opinioni concernenti un certo problema in coppie, o alternative, tra loro opposte; indi da ciascuna delle due opinioni tra loro opposte si devono dedurre tutte le conseguenze che ne derivano. A questo punto si devono confrontare tali conseguenze con gli endoxa relativi al problema in questione, cercando di vedere se esse si accordino o meno con tutti gli endoxa, o almeno con la maggior parte, o con i più importanti. Gli endoxa, si badi bene, non vengono messi in discussione, ma vengono presentati solo come termini di confronto, cioè come premesse fuori discussione, alla luce delle quali valutare le opinioni in questione, e le loro conseguenze.
Se si riesce a mostrare che le conseguenze di un'opinione si accordano con gli endoxa presentati, allora si saranno " risolte le difficoltà " (scartando, evidentemente, l'opinione opposta), e questa dovrà essere considerata una dimostrazione sufficiente della validità di un'ipotesi. Oppure, se non si riesce a fare questo, perché le conseguenze di un'opinione non si accordano con gli endoxa presentati, allora le difficoltà non saranno state risolte e l'opinione non sarà stata dimostrata, anzi sarà stata dimostrata in modo sufficiente la sua falsità. In ogni caso ciò che deve restare in piedi sono gli endoxa.
Questo non è altro, come si vede, che il procedimento diaporetico più volte teorizzato da Aristotele, anche a proposito della fisica (cfr. phys. IV 4, 211 a 6-11) e della metafisica (cfr. metaph. III 1, 995 a 27-30). Esso non è per nulla, dunque, specifico della filosofia pratica e non consiste, come qualcuno ha creduto, nel cercare di salvare gli endoxa, bensì consiste nel mettere alla prova i phainomena, cioè le opinioni, alla luce degli endoxa. Quando, infatti, Aristotele prescrive, come condizione del dimostrare in modo sufficiente, che siano lasciati in piedi gli endoxa, non intende dire che lo scopo della dimostrazione sia di mostrare la validità degli endoxa, ma che, per risolvere le difficoltà concernenti un'opinione, cioè per confutare l'opinione ad essa opposta, è necessario mostrare che la prima non contrasta con gli endoxa e che quella opposta invece vi contrasta. In tal modo, se si lasciano in piedi, cioè se non si mettono in discussione, gli endoxa, si sarà mostrata a sufficienza la validità di un'opinione e la falsità di quella ad essa opposta. Lo scopo della dimostrazione, insomma, non è di salvare, o di dimostrare, gli endoxa, ma di dimostrare, cioè di salvare, o di confutare, una certa opinione (5).
Infine c'è un ultimo passo dell'Etica Nicomachea, relativo al procedimento diaporetico, che merita di essere segnalato. Sempre a proposito dell'incontinenza, Aristotele dichiara:
"tali sono dunque le aporie che si presentano: di queste alcune cose si devono distruggere, altre conservare, poiché la soluzione (lysis) dell'aporia è una scoperta (euresis)" (1146 b ó-8).
Qui è chiaro che ciascuna aporia è costituita da due opinioni tra loro opposte, di cui alla fine una viene eliminata, perché confutata, e l'altra conservata, perché dimostrata vera. La soluzione dell'aporia equivale dunque alla scoperta di quale sia, tra le due opinioni opposte, quella vera.
Ulteriori precisazioni e conferme circa l'impiego del procedimento diaporetico da parte della filosofia pratica si trovano nei passi dell'Etica Eudemea paralleli a quelli già considerati della Nicomachea. In questa opera minore non si trova tutto quello che c'è nella maggiore, per esempio non si trovano accenni all'intento tipologico, mentre vi è chiaramente espresso il carattere pratico della trattazione, che si propone non solo di esaminare in che consista la felicità, ma anche come la si possa acquistare. Per quanto riguarda il metodo da seguire, il cap. 3 del libro I fornisce indicazioni perfettamente parallele e quelle che abbiamo incontrato nel cap. 4 del I libro della Nicomachea:
"è superfluo indagare tutte le opinioni che alcuni hanno intorno ad essa [cioè alla felicità]. Molte cose infatti paiono anche ai bambini, agli ammalati ed a coloro che hanno una mentalità perversa ed intorno ad esse nessuno che sia dotato di intelligenza svilupperebbe le aporie (diaporeseien). Costoro infatti non hanno bisogno di discorsi, ma alcuni di un'età in cui maturare, altri di una correzione medica o politica, poiché la terapia delle punizioni corporali non è una correzione di poco conto. Allo stesso modo di queste, neppure si devono indagare le opinioni dei molti, poiché essi parlano con leggerezza di quasi tutto, e soprattutto di questo argomento; infatti è assurdo addurre una ragione a coloro che non hanno nessun bisogno di ragione, ma di passione" (eth. eud. I 3, 1214 b 28-1215 a 3)
Si noti, in questo passo, non solo l'affermazione che bisogna contenere il numero delle opinioni da sottoporre ad indagine, ma anche l'indicazione del modo in cui tale indagine deve essere svolta, l'ormai famoso sviluppo delle aporie, cioè la deduzione delle conseguenze derivanti da opinioni opposte.
Proprio quest'ultima indicazione viene ripresa nel seguito del passo:
"poiché vi sono aporie proprie di ciascuna trattazione, è chiaro che ve ne sono anche a proposito del genere di vita superiore e della vita migliore. Queste opinioni, dunque, è bene esaminare (exetazein), poiché le confutazioni (elenchoi) dei contestatori sono dimostrazioni (apodeixeis) dei discorsi ad essi opposti" (1215 a 3-7).
Tre osservazioni meritano di essere fatte a proposito di questo passo, che è di importanza fondamentale dal punto di vista metodologico: 1) anzitutto l'aporia concernente un certo argomento è costituita dalle opinioni opposte esistenti intorno ad esso; 2) in secondo luogo lo sviluppo dell'aporia, cioè la deduzione delle conseguenze delle opinioni opposte, coincide con l'esame (exetazein), ovvero con la messa alla prova, delle singole opinioni; 3) infine la confutazione di un'opinione, cioè la deduzione da essa di conseguenze contrastanti con qualche endoxon, o con qualche premessa concessa da colui che la sostiene, equivale alla dimostrazione dell'opinione ad essa opposta (sempre che, ovviamente, si tratti di un'opposizione tra opinioni reciprocamente contraddittorie, non semplicemente contrarie).
I primi due momenti coincidono con quelli illustrati nel libro III della Metafisica rispettivamente come "aporia" e "sviluppo dell'aporia" (diaporesai); il terzo, che coincide con l"'euporia", è qui presentato come una vera e propria dimostrazione di una tesi, ottenuta attraverso la confutazione della tesi opposta, esattamente come viene detto in De caelo, I 10, 279 b 4 76. Qui dunque la soluzione dell'aporia non è solo una "scoperta", come si diceva nell'Etica Nicomachea, ma è una vera e propria dimostrazione, cioè una conclusione dotata di necessità, di valore scientifico. Anche nella filosofia pratica, dunque, come nella fisica e nella metafisica, il procedimento diaporetico può portare in alcuni casi, cioè in presenza di alternative tra opinioni reciprocamente contraddittorie, a delle dimostrazioni "scientifiche", cioè al massimo grado di forza dimostrativa.
Ma anche gli accenni ai "fenomeni", alla concordanza o meno tra le opinioni ed alla differenza tra il "che" ed il "perché", già incontrati nell'Etica Nicomachea, trovano un preciso riscontro nell'Eudemea. C'è un intero capitolo di questa, il cap. 6 del libro I, che è dedicato al metodo della trattazione e dice:
"bisogna che ci impegniamo, intorno a tutte queste cose, a cercare l'adesione (pistin) attraverso i ragionamenti, usando i fenomeni come testimoni ed esempi. Il massimo, infatti, è che tutti gli uomini risultino concordare con le cose dette; altrimenti, che [concordino] tutti almeno in qualche modo, ossia che lo facciano essendovi stati trascinati; poiché ciascuno possiede qualcosa di appropriato rispetto alla verità, a partire da cui è necessario mostrare in qualche modo a proposito di esse. A coloro infatti che procedono da cose dette con verità, ma non con chiarezza, sarà possibile ottenere anche la chiarezza, mettendo sempre le cose più note al posto di quelle che sogliono essere dette in modo confuso" (1216 b 26-35).
Anche qui, come in eth. nic. VII 1, i "fenomeni" sono evidentemente i pareri, cioè le opinioni degli altri, ed anche qui la concordia è considerata condizione della verità. Anzi Aristotele aggiunge che ciascun uomo ha una specie di disposizione naturale alla verità (tesi da lui sostenuta anche altrove, per esempio in metaph. II 1, 993 a 30-b 8), per cui la concordia è non solo una condizione necessaria, ma anche un indizio quasi sufficiente della verità. Proprio questa disposizione di ciascuno alla verità permette di scoprire progressivamente "le cose più note", cioè i principi, partendo da quelle abitualmente confuse, che sono le più vicine a noi (osservazione fatta anche in phys I 1, 184 a 21-22).
Il contenuto, del tutto simile all'inizio della Fisica ed all'analogo libro II della Metafisica, induce Aristotele a introdurre anche la distinzione tra il "che" ed il "perché", conformemente a quanto già fatto nell'Etica Nicomachea. Egli prosegue infatti:
"nei discorsi concernenti ciascuna trattazione c'è differenza tra quelli svolti in modo scientifico e quelli svolti in modo non scientifico. Perciò anche nel trattare di cose politiche non si deve credere che sia superflua una ricerca fatta in modo tale, per cui non solo risulti chiaro il che, ma anche il perché: di questo tipo infatti è il modo scientifico di procedere in ciascuna trattazione. [...] Ed è bene anche giudicare separatamente il discorso che indica la causa e quello che viene dimostrato, sia per quanto detto poco fa, cioè che non bisogna occuparsi di tutto sulla base dei ragionamenti, ma spesso piuttosto sulla base dei fenomeni (ora invece [coloro che discutono], qualora non siano in grado di risolverli, sono costretti a credere ai discorsi fatti [dai loro avversari]), sia perché ciò che si ritiene essere stato dimostrato dal ragionamento è vero, ma non lo è tuttavia in virtù di questa causa per la quale lo dice il ragionamento. È possibile infatti dimostrare il vero attraverso il falso, come risulta chiaro dagli Analitici" (1216 b 35 - 1217 a 17).
Qui Aristotele da un lato afferma la necessità, anche nella scienza politica, di cercare il "perché", cioè le cause, i principi, perché si tratta pur sempre di una scienza, e la scienza deve cercare le cause; dall'altro lato egli ricorda l'importanza dei fenomeni, cioè delle opinioni esprimenti il "che", sia perché l'accordo tra queste, in mancanza di una confutazione, è sufficiente a garantire la verità di una tesi, sia perché non sempre la causa, attraverso cui si dimostra una tesi vera, è vera essa stessa (cfr. an. pr. II 2, 53 b 7 sgg.; an. post. I 32, 88 a 20). È importante, insomma, non solo la dimostrazione, cioè l'indicazione del "perché", ma anche la verità effettiva di ciò che si dimostra, cioè del "che", la quale può essere accertabile indipendentemente dalla dimostrazione, cioè per mezzo del procedimento diaporetico.
Infine un ultimo passo che illustra il metodo diaporetico della filosofia pratica è presentato da Aristotele a proposito della definizione dell'amicizia:
"bisogna adottare un discorso [o un modo di dire, o una definizione, secondo le diverse lezioni del testo], il quale ci restituisca il più possibile le opinioni intorno a queste cose ed al tempo stesso risolva le aporie e le opposizioni Ciò accadrà, se appariranno ragionevoli le opinioni opposte [a queste ultime], poiché un discorso di questo genere sarà il più possibile concordante con i fenomeni. Succede invece che rimangano le opposizioni, se ciò che si è detto in un senso è vero ed in un altro no" (VII 2, 1235 b 1318).
Ancora una volta la situazione ideale a cui aspirare è presentata come quella in cui si può ottenere la concordia della maggior parte delle opinioni (condizione necessaria, ma da sola non sufficiente ad assicurare la verità) ed insieme si riesce a confutare le obiezioni ad esse (condizione che viene a rafforzare la precedente). Ancora una volta, inoltre, il termine "fenomeni" è usato per indicare ciò
che pare a qualcuno, ossia le opinioni. Infine Aristotele presenta come accettabile, in via subordinata, anche l'eventualità che si debba adottare una posizione intermedia, o mista, o comunque tale da rispettare anche opinioni tra loro opposte, purché queste ultime non vengano intese nello stesso senso - il che darebbe luogo ad un'inaccettabile contraddizione -, ma in sensi diversi, che le rendano compatibili tra di loro. Come si vede, egli cerca sempre di fare tutto il possibile per andare d'accordo con tutti, talmente grande è la sua fiducia nella discussione, cioè talmente "dialogico" - come si direbbe oggi - è il suo atteggiamento.
I1 carattere fondamentalmente dialettico della filosofia pratica di Aristotele è stato sottolineato da molto tempo: dei "liberali" inglesi come Alexander Grant e John Burnet l'avevano già fatto tra la fine del secolo XIX e l'inizio di questo, interpretando tuttavia questa dialetticità come mancanza di scientificità, il che - come abbiamo visto - non è vero. Più recentemente alcuni esponenti della "riabilitazione della filosofia pratica" avvenuta in Germania, considerati dei "neoaristotelici" di indirizzo conservatore, cioè Wilhelm Hennis e Günther Bien, hanno interpretato la dialetticità della filosofia pratica come espressione di un grado di scientificità inferiore a quello delle scienze teoretiche, il che ugualmente non è vero. Un filosofo di orientamento cattolico tradizionale come Helmut Kuhn ha attribuito invece alla dialettica, sia nella filosofia pratica che nelle altre scienze, una funzione soltanto propedeutica, relegandola sul piano del "verosimile" inteso nel senso soggettivo del termine ("ciò che sembra vero a qualcuno") ed ammettendo che invece la filosofia pratica, a causa della contingenza del suo oggetto, sia una vera scienza del "probabile" nel senso oggettivo del termine (ossia ciò che si avvicina al vero, che ha un'alta probabilità di essere vero).
Una valutazione più positiva della dialettica è stata data da uno specialista di Hegel come Otto Pöggeler, il quale tuttavia, pur negando che essa resti sul piano della semplice verosimiglianza soggettiva, continua a considerarla soltanto introduttiva alla scienza propriamente detta. Invece un "kantiano" come Otfried Höffe ha mostrato che il procedimento dialettico non resta esteriore alla scienza propriamente detta, ma ne costituisce precisamente il momento euristico, cioè inventivo, tanto nel caso della filosofia pratica quanto nel caso della fisica e della metafisica, mentre il procedimento apodittico ne costituisce il momento espositivo e didattico. Come si vede, dunque, quasi tutte le principali correnti del pensiero contemporaneo hanno riconosciuto la presenza di una razionalità di tipo dialettico - nel senso classico del termine - nella filosofia pratica di Aristotele, pur valutandola in modi diversi (7).
A me sembra che l'interpretazione di Hoffe sia la più conforme ai testi di Aristotele, e che di conseguenza la filosofia pratica possa essere considerata come una vera e propria scienza, dello stesso tipo della fisica e della metafisica, pur restando diversa, quanto al metodo, dalla matematica e pur conservando il suo carattere propriamente pratico, cioè orientato verso l'azione, e quindi la sua capacità di guidare quest'ultima, dando delle direttive, delle indicazioni su come ci si deve comportare. Ciò che caratterizza la filosofia pratica, o scienza politica, in fondo, non è né il metodo dialettico come tale, e nemmeno l'intento tipologico, che abbiamo esaminato in precedenza, bensì precisamente l'unione dei due, la quale fa sì che il metodo dialettico nella filosofia pratica sia ancor più adeguato allo scopo di quanto lo sia nelle scienze teoretiche, proprio perché tale scopo non è costituito da una conoscenza esaustiva e dettagliata, ma da quel tanto di conoscenza che può servire per orientare la prassi.
3. La phronesis ed il sillogismo pratico
Oltre alla filosofia pratica, o scienza politica, Aristotele ha descritto un'altra forma di razionalità, ugualmente pratica, ma non filosofica, o scientifica (nel senso antico): si tratta della phronesis, termine traducibile in italiano con " saggezza" o " prudenza", ma che ormai, per la notorietà che ha raggiunto nella cultura contemporanea nella sua forma originale, è forse bene conservare immutato. Proprio nel dibattito odierno sulle forme di razionalità non scientifica la phronesis è stata spesso indicata come la principale, e talvolta l'unica, forma di razionalità pratica ammessa da Aristotele, e quindi come il modello di filosofia non scientifica che alcuni autori oggi contrappongono alle scienze. Di questo avviso si è dichiarato per primo Hans Georg Gadamer, seguito dal suo discepolo Rüdiger Bubner (8). In realtà per Aristotele tra filosofia pratica e phronesis c'è una precisa differenza, anche se le due forme di razionalità presentano innegabilmente qualche affinità; anzi questa distinzione è proprio una conquista di Aristotele nei confronti dell'indistinzione tra esse ancora presente in Platone.
Il luogo classico in cui Aristotele descrive la phronesis è il VI libro dell'Etica Nicomachea (uno dei tre libri comuni anche all'Eudemea), dedicato alla famosa illustrazione delle "virtù dianoetiche" ed oggetto di innumerevoli commenti da parte dei filosofi moderni e contemporanei. Qui Aristotele ricorda anzitutto che la parte razionale dell'anima, o "ragione" (dianoia), comprende a sua volta due parti, l'una avente per oggetto le realtà "i cui principi non possono stare diversamente", cioè sono necessari, l'altra avente per oggetto quelle i cui principi possono stare diversamente, cioè sono contingenti. La prima parte è detta "scientifica" (epistemonikon), mentre la seconda è detta " calcolatrice " (logistikon) . È evidente che nella prima rientrano tutte le scienze teoretiche, cioè sia le matematiche, i cui oggetti sono necessari, sia la fisica e la metafisica, i cui oggetti hanno almeno principi necessari; ma in essa rientrano anche le scienze pratiche, i cui oggetti, cioè i beni, hanno principi che, come abbiamo visto, sono almeno "per lo più" e dunque, dal punto di vista epistemologico, sono equiparabili a quelli che hanno principi necessari. Nella seconda rientrano invece tutte le attività che hanno per oggetto realtà dipendenti dalla "deliberazione" umana, perché - dice Aristotele - deliberare e calcolare sono la stessa cosa e nessuno delibera sulle cose che non possono stare diversamente (cap. 1).
Entrambe le parti dell'anima razionale, ovvero della ragione, prosegue Aristotele, hanno come " opera" la verità: quella scientifica ha come opera la verità pura e semplice, cioè la semplice conoscenza di come stanno le cose, mentre quella calcolatrice ha come opera la "verità pratica", cioè "la verità in accordo col desiderio retto". A proposito di quest'ultima Aristotele spiega che l'azione (praxis) ha come principio la "scelta" (proairesis), la quale è il risultato dell'incontro tra il desiderio di raggiungere un certo fine ed il calcolo dei mezzi necessari a raggiungerlo, o "deliberazione". Quando il desiderio è retto, cioè è rivolto ad un fine buono, ed il calcolo è vero, cioè indica i mezzi realmente necessari, si ha la "verità pratica". Mentre la prima parte della ragione, quella scientifica, si può chiamare anche teoretica, la seconda, quella calcolatrice, si può chiamare anche pratica, ma entrambe - insiste Aristotele - hanno come opera la verità (cap. 2). Si noti l'originalità del concetto di "verità pratica", del tutto estraneo sia alla scienza che all'etica moderne e contemporanee.
L'intento del libro è, come abbiamo detto, di illustrare le "virtù dianoetiche", cioè le capacità più alte, le prestazioni più eccellenti, di entrambe le suddette parti della ragione. Le virtù della parte scientifica, enumerate da Aristotele attraverso una specie di induzione completa, sono tre, cioè la "scienza" (episteme), definita come abito dimostrativo, cioè capacità di dimostrare, l’"intelligenza" (nous), definita come abito dei principi, cioè capacità di conoscere i principi della scienza, e la "sapienza" (sophia), definita come unità di scienza ed intelligenza, cioè capacità sia di conoscere i principi che di dimostrare a partire da essi: quest'ultima, ovviamente, è la virtù più alta della ragione scientifica, o teoretica, ed ha per oggetto le realtà più alte, cioè le realtà divine (capp. 3, ó, 7). Non c'è dubbio che la " sapienza" coincide con la " filosofia prima" o metafisica, mentre nella " scienza " rientrano tutte le altre scienze, sia teoretiche (matematica e fisica) che pratiche (filosofia pratica o scienza politica), e nell"'intelligenza" rientrano le conoscenze dei principi di tutte queste altre scienze. Perciò, alla luce della classificazione del libro VI, si può affermare, per quanto ciò possa sembrare paradossale, che la filosofia pratica, o scienza politica, nonostante il suo intento pratico, è una virtù della ragione teoretica, per il fatto che essa è pur sempre una scienza.
Ben diversa è la collocazione della phronesis, la quale per Aristotele è una virtù, anzi è la più alta virtù, della parte calcolatrice dell'anima razionale, cioè della ragione pratica. Essa, infatti, è da lui concepita come la capacità di deliberare bene, cioè di calcolare esattamente i mezzi necessari per raggiungere un fine buono. Ora, poiché nessuno delibera sulle cose che non possono stare diversamente, la phronesis apparterrà a quella parte della ragione che ha per oggetto le realtà che possono stare diversamente, cioè che non sono né "sempre", né "per lo più": per questo motivo essa non è certamente una scienza e dunque differisce profondamente dalla filosofia pratica, che invece è una scienza ed ha per oggetto realtà i cui principi sono almeno per lo più. C'è una notevole differenza, infatti, tra la contingenza che caratterizza l'oggetto della phronesis, costituito, come vedremo, dai mezzi, che sono sempre particolari e mutevoli, e la relativa variabilità che caratterizza l'oggetto della filosofia pratica, costituito, come abbiamo visto, dai beni, cioè dai fini, i quali sono universali e, se non proprio immutabili, almeno validi " per lo più". Ciò non toglie che anche la phronesis possieda una sua verità, la verità – appunto - pratica, perciò Aristotele la definisce come "abito vero, fornito di ragione e pratico, concernente ciò che è bene e male per l'uomo" (5, 1140 b 5-6).
Come modello di phronimos (possessore della phronesis), cioè di " saggio", o "prudente", Aristotele indica Pericle (1140 b 8), il grande leader politico che aveva governato Atene, il quale non era certamente un filosofo di professione, mentre come filosofo pratico, col quale discutere da pari a pari, magari per dissentire, Aristotele indica Socrate (13, 1144 b 18, 28), il quale non era certamente un leader politico, né aveva mai governato la sua città: anche da ciò risulta la differenza da lui stabilita tra la phronesis e la filosofia pratica.
A maggior ragione la phronesis differisce dalla sapienza: la prima, infatti, si occupa dell'uomo, cioè delle realtà umane, mentre la seconda, come abbiamo visto, si occupa di realtà più alte dell'uomo, cioè le realtà divine. Se modello della phronesis, come abbiamo visto, è Pericle, i modelli di sapienza indicati da Aristotele sono Talete ed Anassagora, altrove considerati dei fisici, ma qui presentati come indagatori di realtà divine (i principi supremi) (cap. 7).
Anche la phronesis, tuttavia, è politica (come già suggerisce l'esempio di Pericle), per lo stesso motivo per cui lo è la filosofia pratica, cioè perché il vero bene dell'uomo, secondo Aristotele, non è il bene del singolo individuo, ma quello della polis: anzi, a seconda che si consideri il bene dell'individuo, quello della famiglia, di cui l'individuo è parte, o quello della città, di cui la famiglia è parte, si avrà una phronesis pura e semplice (così è inteso, infatti, comunemente il termine), una phronesis "economica" ed una phronesis "politica": quest'ultima, secondo Aristotele, è la più " architettonica", cioè è quella che presiede a tutte (come la scienza politica era la più architettonica delle scienze pratiche), e si distingue a sua volta in legislativa, amministrativa e giudiziaria (cap. 8). In nessun caso, tuttavia, essa va confusa con la scienza politica.
Oltre alle suddette differenze, Aristotele indica anche delle precise affinità tra la phronesis e la filosofia pratica: come quest'ultima, secondo quanto abbiamo visto, esige, per essere appresa con profitto, un certo dominio delle passioni, anche la phronesis suppone, per poter sussistere, la temperanza, la quale viene chiamata - osserva Aristotele - sophrosyne, perché "salva" (in greco sozei) la phronesis. Infatti, se è vero che il piacere e il dolore non influiscono su ogni tipo di giudizio - e quindi non è necessario dominarli per poter pronunciare dei giudizi corretti, per esempio, in fatto di matematica -, è vero che il piacere può corrompere i giudizi che riguardano le azioni, perché può indurre a scegliere le azioni che portano ad esso (5, 1140 b 11-16).
Per questo motivo, essendo non solo abito razionale, come ad esempio la scienza o l'arte, ma anche virtù morale, la phronesis non ammette che vi sia una virtù di essa (cioè una sua perfezione, in quanto è già perfezione essa stessa); né tra coloro che la possiedono è preferibile colui che sbaglia volontariamente, come invece lo è tra coloro che possiedono la scienza o l'arte (dove il saper sbagliare può essere segno di bravura, mentre lo sbagliare inconsapevolmente è segno di ignoranza); né infine, una volta acquisita, essa può venire dimenticata, come può avvenire nel caso della scienza o dell'arte (1140 b 21-30). Tutto ciò mostra, come si vede, che nella phronesis il momento conoscitivo e quello pratico sono intimamente compenetrati.
Un'altra affinità tra la phronesis e la filosofia pratica sta nel fatto che entrambe richiedono una certa esperienza della vita, perciò è difficile che possano essere possedute dai giovani. Il passo relativo a questo concetto è denso di significato, perciò merita di essere riportato integralmente.
"La phronesis - dice Aristotele - non è solo conoscenza dell'universale, ma deve conoscere anche i casi individuali, poiché è pratica e l'azione concerne i casi individuali. Perciò anche alcuni che non sanno sono più pratici di altri che sanno, ed anche in altri campi lo sono gli esperti (empeiroi). Se infatti uno sapesse che le carni leggere sono digeribili e sane, ma ignorasse quali carni sono leggere, non produrrebbe la salute, mentre chi sa che le carni di uccelli sono sane, piuttosto la produrrà. Ora la phronesis è pratica, sicché deve possedere entrambe le conoscenze, o piuttosto quest'ultima. Ma anche in questo campo vi sarà una [capacità] architettonica" (7, 1141 b 14-23).
Il carattere pratico, cioè concernente l'azione, proprio della phronesis, esige dunque che essa possieda la conoscenza dei casi individuali, perché l'azione si svolge sempre in situazioni individuali: perciò la phronesis richiede una certa esperienza, la quale è appunto conoscenza dei particolari. La phronesis, tuttavia, include in qualche misura anche la conoscenza dell'universale, nel senso che deve saper applicare al caso individuale una caratteristica generale, come mostra l'esempio fatto da Aristotele. Non basta, per produrre la salute (azione), sapere che le carni leggere sono sane (caratteristica universale), se non si sa che le carni di uccello sono leggere (caso individuale, o particolare) e quindi che le carni di uccello sono sane (applicazione dell'universale al particolare).
D'altra parte, anche se la phronesis include la conoscenza dell'universale, la sua peculiarità non è questa, bensì la conoscenza dell'individuale. La prima, cioè la conoscenza dell'universale, è invece la peculiarità di un'altra capacità, detta perciò architettonica, cioè atta a fornire le direttive più generali, la quale non può che essere la filosofia pratica, ovvero la scienza politica, di cui abbiamo parlato in precedenza. Qui dunque Aristotele chiarisce bene il rapporto tra filosofia pratica e phronesis: la prima conosce l'universale, dunque dà le direttive più generali, mentre la seconda conosce il particolare, dunque applica le direttive generali al caso particolare, o addirittura individuale.
Ma il possesso dell'esperienza accomuna la phronesis non solo alla filosofia pratica, bensì anche alla fisica ed alla "sapienza", cioè alla metafisica: già avevamo rilevato, infatti, che questo carattere è comune alla filosofia pratica ed alla fisica. Dice infatti Aristotele:
"è segno di quanto detto anche il fatto che i giovani diventano competenti di geometria e di matematica, mentre si ammette che un giovane non possa diventare saggio (phronimos). La ragione è che la phronesis è anche conoscenza dei casi individuali, i quali diventano noti a partire dall'esperienza, mentre il giovane non è esperto, poiché per fare esperienza ci vuole molto tempo. Inoltre uno potrebbe indagare anche questo, cioè perché mai il fanciullo può diventare matematico, ma non sapiente o fisico. Non è forse perché gli oggetti della metafisica si ottengono per astrazione, mentre i principi della fisica e della sapienza si ricavano dall'esperienza? E su questi ultimi i giovani non hanno convinzioni, ma solo parlano, mentre su quelli hanno chiaro il che cos'è" (8, 1142 a 1 1-20) .
Come si vede, la phronesis, al pari della filosofia pratica, si differenzia soprattutto dalla matematica, molto meno, invece, dalla fisica e dalla metafisica. In ogni caso, prosegue Aristotele, essa non è scienza, perché riguarda l'ultimo termine della deliberazione, ossia ciò che può essere pratico, che è sempre qualcosa di particolare. Per la stessa ragione essa non è neppure intelligenza, perché l'intelligenza ha per oggetto le definizioni universali, non i casi individuali. Semmai essa somiglia alla sensazione, non però alla sensazione dei sensibili propri, cioè alla vista, all'udito, ecc., ma a quella sensazione con cui in matematica si percepisce che un singolo oggetto è un triangolo (1142 a 23-39). Si tratta dunque, come abbiamo già detto, della capacità di applicare la regola generale al caso particolare. Per questo motivo alcuni filosofi odierni hanno paragonato la phronesis di cui parla Aristotele alla "facoltà del giudizio estetico e teleologico (Urteilskraft) di cui parla Kant: anche quest'ultima, infatti, è la capacità di ricondurre un particolare già dato ad un universale soltanto cercato (9).
Ed anche a questo proposito Aristotele ricorre ad un esempio, il quale mostra come la phronesis abbracci tanto l'universale quanto il particolare.
"Inoltre l'errore - egli afferma infatti - nella deliberazione [cioè nell'operazione di cui la phronesis è la virtù] può riguardare o l'universale o l'individuale: ci si può sbagliare infatti o nel pensare che tutte le acque pesanti sono nocive, o nel pensare che questa determinata acqua è pesante" (1142 a 20-23).
Sia in questo esempio che in quello precedente, concernente le carni di uccello, Aristotele presenta il ragionamento compiuto dalla phronesis come una specie di sillogismo, quello che poi è stato chiamato il "sillogismo pratico". In esso si può scorgere, infatti, una premessa universale, o maggiore ("tutte le carni leggere sono sane", o "tutte le acque pesanti sono nocive"), una premessa particolare, o minore ("le carni di uccello sono leggere", o "questa determinata acqua è pesante"), ed una conclusione, costituita dalla "scelta", o dall'azione stessa (mangiare carni di uccello, o evitare questa determinata acqua).
Che si tratti di un sillogismo, del resto, risulta dal fatto che la forma errata di esso è presentata da Aristotele come un "sillogismo falso" (9, 1142 b 22-23) e dal fatto che lo stesso Aristotele parla di "sillogismi delle cose praticabili" (12, 1144 a 31-32). Anche la phronesis, dunque, sillogizza, sia pure a suo modo, nel senso che argomenta, fa dei ragionamenti con più momenti concatenati tra di loro, ed è perciò anch'essa una forma di razionalità, ben diversa, tuttavia, da quella della scienza, sia teoretica che pratica. Il suo sillogizzare è stato detto "pratico" in quanto approda ad un'azione ed è stato riconosciuto come una forma del tutto peculiare di razionalità soprattutto nella scuola dell'ultimo Wittgenstein (10).
L'analisi del sillogismo pratico consente di chiarire ulteriormente il rapporto tra la phronesis e la filosofia pratica. Aristotele presenta infatti il sillogismo pratico come esprimente nella premessa maggiore il fine a cui si tende e nella minore il mezzo necessario a realizzarlo. A proposito di esso egli afferma infatti:
"i sillogismi delle cose praticabili sono forniti del principio, poiché tale è il fine e l'ottimo, qualunque esso sia (ammettiamo infatti, tanto per discutere, che esso sia uno qualsiasi). Ma questo non è manifesto se non a chi è buono, perché la malvagità fa deviare e induce all'errore a proposito dei principi pratici. Sicché è chiaramente impossibile che uno sia saggio (phronimon) senza essere buono" (12, 1144 a 31-b 1).
Qui risulta non solo che la premessa maggiore indica il fine, cioè il bene supremo, e per questo costituisce il "principio" pratico, ma anche che essa richiede la bontà, cioè la virtù morale, e che quest'ultima è presupposta dalla phronesis. Sembra, dunque, che la phronesis, dando per presupposta l'indicazione del fine, fornita dalla virtù, abbia come sua prestazione peculiare l'indicazione del mezzo, cioè la premessa minore. Ciò è confermato anche da altri passi, dove Aristotele dice: "la virtù rende retto lo scopo, la phronesis ciò che è in relazione a questo [ossia i mezzi]" (1144 a 7-9); oppure: "non si avrà una scelta corretta senza la phronesis né senza la virtù, poiché questa indica il fine e quella fa compiere le azioni che sono in relazione al fine" (13, 114a 3-6).
A questo proposito si è avuta una celebre discussione tra chi ha sostenuto che la phronesis, in Aristotele, comprende la conoscenza del fine, e chi invece ha sostenuto che essa è essenzialmente conoscenza dei mezzi. Tale discussione è stata complicata dall'ambiguità di un passo, in cui Aristotele dice:
"se è proprio dei saggi il deliberare bene, la buona deliberazione sarà la rettitudine conforme a ciò che giova in relazione al fine, di cui la phronesis è la assunzione vera" (9, 1142 b 31-33).
Qui l'espressione "di cui" può essere riferita tanto al "fine", quanto a "ciò che giova in relazione al fine", ossia al mezzo, perciò non è chiaro se la phronesis sia assunzione vera del fine o del mezzo (11). A mio modo di vedere, tuttavia, la phronesis è essenzialmente conoscenza dei mezzi, perché Aristotele la definisce precisamente come "capacità di deliberare bene intorno a ciò che è buono e giovevole per se stessi, non da un punto di vista particolare, per esempio su quali cose lo sono in relazione alla salute, o alla forza, ma su quali lo sono in vista del vivere bene in senso globale" (5, 1140 a 26-28). Ora, il bene in senso globale non può essere oggetto di deliberazione, perché non è una realtà particolare e contingente, ma è valido sempre o almeno per lo più; solo i mezzi possono essere oggetto di deliberazione, perché sono particolari e contingenti. Su questi, dunque, verte propriamente la phronesis.
Del resto lo stesso Aristotele subito dopo aggiunge: "ne è segno il fatto che chiamiamo saggi anche quelli che si occupano di qualcosa di particolare, quando calcolino bene in vista di un fine valido" (1140 a 28-30). Altrove Aristotele afferma esplicitamente: "non deliberiamo sui fini, ma sulle cose che sono in relazione ai fini" (III 3, 1112 b 1112), cioè sui mezzi, e paragona il calcolo in cui consiste la deliberazione addirittura all'analisi geometrica (1112 b 20-24).
D'altra parte, è pur vero che la phronesis include, come abbiamo visto, anche la conoscenza dell'universale, e quindi del fine, per poter ricondurre ad esso il caso particolare, cioè il mezzo: il rapporto tra queste due conoscenze è di essere entrambe premesse, rispettivamente maggiore e minore, del sillogismo pratico. La conoscenza del fine che la phronesis include, tuttavia, non è una conoscenza scientifica, la quale può essere data solo dalla filosofia pratica ed anzi costituisce il compito specifico di questa, bensì è l'orientamento ad esso dato dalla virtù, cioè da un buon carattere, o da una buona educazione. Infatti, per avere la phronesis, cioè per essere saggi, non c'è bisogno di essere filosofi, nemmeno filosofi pratici, mentre è necessario, come abbiamo visto, essere temperanti, cioè buoni di carattere. Bisogna, infatti, che la capacità di deliberare rettamente circa i mezzi sia orientata ad un fine buono, altrimenti non è phronesis, ma semplice abilità, o astuzia (così del resto, sia pure erroneamente, è stata intesa la "prudenza" da Kant, il quale perciò le ha negato valore morale) .
Questa dottrina potrebbe dare l'impressione di un circolo vizioso: da un lato, infatti, la phronesis è necessaria per deliberare bene, quindi per agire bene, cioè per essere virtuosi, e dall'altro essa presuppone, per l'orientamento al fine buono, il possesso della virtù. Aristotele evita il circolo distinguendo due specie di virtù: una virtù "naturale", cioè innata, di cui non si ha merito, perché proviene da una buona nascita o da una buona educazione, ed una " virtù propriamente detta ", di cui si ha merito, perché la si acquisisce attraverso l'abitudine ad agire bene. La prima è presupposta dalla phronesis, mentre la seconda è prodotta da essa (12, 1144 b 14-17).
Infine Aristotele chiarisce che anche la phronesis è "prescrittiva (epitaktike)" (10, 1143 a 8), come lo è la filosofia pratica, anzi a maggior ragione della filosofia pratica, perché appunto, è ancor più "pratica" di quella, in quanto direttamente rivolta all'azione. Anche in questo caso, dunque, ci troviamo di fronte ad una forma di razionalità che può essere "vera" ed insieme "prescrittiva", cioè pratica, cosa del tutto anomala dal punto di vista dell'etica moderna di orientamento analitico (l2). E’ interessante vedere di che cosa la phronesis sia prescrittiva, perché in tal modo si chiarisce definitivamente il suo rapporto con la sapienza (sophia). A questo proposito, proprio a conclusione del VI libro dell'Etica Nicomachea, Aristotele afferma:
"[la phronesis] non è signora della sophia né della parte migliore [dell'anima, cioè della ragione teoretica], come neppure la medicina lo è della salute, poiché non si serve di essa, ma guarda a come generarla; essa [la phronesis] comanda dunque in vista di quella [cioè della sophia], ma non comanda a quella. Inoltre è lo stesso che se qualcuno dicesse che la politica comanda agli dèi, per il fatto che dà disposizioni intorno a tutto ciò che sta nella città" (cap. 13, 1145 a 611).
Il fine ultimo della phronesis, dunque, è costituito dalla sapienza, come il fine ultimo della medicina, è costituito dalla salute, e chi comanda non è il signore supremo, ma è qualcuno che serve al fine.
Lo stesso concetto si trova al termine dell'Etica Eudemea, dove Aristotele dice:
"allo stesso modo le cose stanno a proposito della facoltà teoretica. Dio infatti non è signore al modo di chi comanda, ma è colui in vista del quale la phronesis comanda [...], poiché egli non ha bisogno di nulla. Quella scelta ed acquisizione, pertanto, di beni naturali che produrrà nella misura massima possibile la contemplazione di Dio - sia essa di beni del corpo, o di ricchezze, o di amici, o di altri beni - questa sarà la migliore e questo criterio sarà il più bello. Se invece una scelta, o per difetto o per eccesso, impedisce di servire e di contemplare Dio, questa sarà cattiva" (VIII 3, 1249 b 13-21).
La conclusione della filosofia pratica si ricongiunge, così, alla conclusione "teologica" - nel senso aristotelico del termine - della filosofia teoretica, perché la "contemplazione di Dio" a cui si allude in questo passo non è altro che la "sapienza", cioè la scienza delle cause prime, la metafisica. Le diverse forme di razionalità, pur restando chiaramente distinte, vengono così organicamente connesse (13).
Note
(*) Pubbicato in Studi sull’etica di Aristotele, a cura di A. Alberti, Bibliopolis
1) Questo scritto contiene la sintesi di una serie di lezioni tenute nel maggio 1988, presso l'Ecole Normale Supérieure di Parigi e l'Università di Paris IV (Sorbonne), nell'ambito del Programma Erasmus.
2) Mi riferisco, naturalmente, al dibattito verificatosi in Germania negli anni Sessanta e Settanta di questo secolo, per il quale si veda la raccolta curata da M. RIEDEL, Rehabilitierung der praktischen Philosophie, 2 voll., Freiburg i.B. 1972-1974.
3) L'espressione "metodo tipologico", a proposito della filosofia pratica di Aristotele, è stata usata nell'ambito del dibattito contemporaneo in Germania da O. HOFFE, Praktische Philosophie. Das Modell des Aristoteles, München und Salzburg 1971, pp. 187-92.
4) Ciò è stato dimostrato, come è noto, da G.E.L. Owen, Tithenai ta phainomena, in Aristote et les problèmes de méthode, Louvain 1961, pp. 83-103.
5) Pertanto il metodo dialettico non può essere invocato per fare di Aristotele un filosofo del senso comune, come ha mostrato bene J. BARNES, Aristotle and the methods of ethicss, "Revue Internationale de Philosophie", XXXIV (1980) pp. 490-551, anche se non sempre ha distinto adeguatamente, a mio avviso, gli endoxa, che fungono sempre da premesse, dalle opinioni, sia pure autorevoli, che sono messe in questione.
6) Nel passo dell'Etica Eudemea, anzi, Aristotele è ancora più chiaro che in quello del De caelo, perché mentre quest'ultimo può essere letto anche nel senso inverso (cioè: "tra due tesi opposte, le dimostrazioni dell'una sono aporie dell'altra"), il primo dice inequivocabilmente che le confutazioni si convertono in dimostrazioni. Il passo dell'Etica Eudemea pertanto, a mio avviso, può servire come indicazione del senso da dare a quello del De caelo.
7 Cfr. A. GRANT, The Ethics of Aristotle, London 1885, vol. 1, p. 425, e vol. II, pp. 144-5, 391-6; J. BURNET, The Ethics of Aristotle, London 1900, pp. XXXI-XLVI; W. HENNIS, Politik und praktische Philosophie, 1a ed. Neuwied, 2a ed. Stuttgart 1977; G. BIEN, Die Grundlegung der politischen Philosophie bei Aristoteles, Freiburg-Munchen 1973; H. KUHN, Aristoteles und die Methode der politischen Wissenschaft, "Zeitschrift fur Politik", XII (1965) pp. 101-20 (ristampato in RIEDEL, Rehabilitierung cit., vol. II, pp. 261-90); O. POGGELER, Dialektik und Topik, in R. BUBNER- K. CRAMER - R. WIEHL (edd.), Hermeneutik und Dialektik, Tubingen 1970, vol. Il, pp. 273-310; O. HÖFFE, Praktische Philosophie, cit., pp. 28-9, e Ethik und Politik. Grundmodelle und Probleme der praktischen Philosophie, Frankfurt 1979, p. 64. Naturalmente non mancano anche i negatori della dialetticità della filosofia pratica aristotelica, tra cui vanno annoverati J.A. Stewart, F. Susemihl, H. H. Joachim, O. Gigon e E. F. R. Hardie (si vedano le rispettive citazioni in HÖFFE, Praktische Philosophie, cit., pp. 11-31).
8) Cfr. H.G. GADAMER, Verità e metodo (1a ed. orig. 1960), a cura di G. VATTIMO, Milano 1972, pp. 363-75, e R. BUBNER, Azione, linguaggio e ragione (1a ed. orig. 1976), trad. it. Bologna 1985, pp. 240-2. Successivamente Gadamer ha attenuato la sua posizione ammettendo una distinzione tra filosofia pratica e phronesis: cfr. H. G. GADAMER, L'ermeneutica come filosofia pratica (1a ed. orig. 1972, in RIEDEL, Rehabilitierung, cit.), in ID., La ragione nell'età della scienza, a cura di G. VATTIMO, Genova 1982, pp. 69-90.
9) Questo accostamento è stato fatto da H. ARENDT, La vita della mente, trad. it., Bologna 1988 e da E. VOLLRATH, Die Rekonstruktion der politischen Urteilskraft, Stuttgart 1977.
10) Mi riferisco ai volumi di G.E.M. ANSCOMBE, Intention, Oxford 1957, e G. H. VON WRIGHT, Spiegazione e comprensione, trad. it. a cura di G. Di Bernardo, Bologna 1977.
11) Le opposte interpretazioni sono state sostenute rispettivamente da R.-A. GAUTHIER nel commento ad Aristotele, Ethique à Nicomaque, Louvain-Paris 1958-1959, e La morale d'Aristote, Paris 1958, pp. 82-96, e da P. AUBENQUE, La prudence aristotélicienne porte-t-elle sur la fin ou sur les moyens?, "Revue des études grecques", LXXVII (1965) pp. 40-51.
12) Mi riferisco, ovviamente, ai sostenitori della cosiddetta "legge di Hume", da G.E. MOORE, Principia ethica, trad. it. di G. Vattimo, Milano 1964, a R. HARE, Il linguaggio della morale, trad. it., Roma 1961, i quali tuttavia a differenza dei già citati Anscombe e von Wright, non hanno tenuto conto della posizione aristotelica.
13) Un'ottima trattazione di molti temi toccati in questo scritto è stata, nel frattempo, pubblicata da C. NATALI, La saggezza di Aristotele, Napoli 1989.