FILONE DI LARISSA
Iniziatore di quella che è stata definita dagli studiosi come “quarta Accademia” fu Filone di Larissa. Egli nacque a Larissa intorno alla metà del II secolo a.C. Spintosi ad Atene, entrò nell’Accademia, dove fu discepolo di Clitomaco e, quando Quest’ultimo si spense, divenne scolarca (intorno al 110 a.C.). In seguito allo scoppio della guerra di Mitridate contro i Romani, Filone lasciò Atene e riparò a Roma, dove, con ogni probabilità, rimase fino alla morte. Il suo insegnamento fu molto apprezzato a Roma e molti esimi Romani frequentarono le sue lezioni: tra gli altri, Cicerone, che fu suo discepolo, lo chiamò “magnus vir” (Acad. post., I, 4, 13) e lo apprezzò a tal punto da considerarsi suo continuatore diretto (Cicerone, Ad famil., IX, 8). Ma quale fu, in concreto, il pensiero di Filone di Larissa? Successore di Clitomaco, egli iniziò il suo insegnamento seguendo i principi di Carneade. Il mutamento di prospettiva si verificò con due libri che egli pubblicò a Roma (intorno all’87 a.C.), dove aveva aperto con grande successo una sua Scuola. La mutata prospettiva fu rilevata da Antioco di Ascalona – che lesse quelle opere ad Alessandria –, il quale si infuriò, scandalizzandosi. Alla dirompente novità introdotta da Filone fa riferimento Sesto Empirico in un passo alquanto importante (Schizzi pirroniani, I, 235):
“Filone afferma che, quanto al criterio stoico, cioè alla rappresentazione catalettica, le cose sono incomprensibili; ma quanto alla natura delle cose stesse, sono comprensibili”.
Questo breve passaggio si presta a due diverse interpretazioni: a) una restrittiva (che è quella proposta dallo stesso Cicerone, ) e b) una estensiva. a) Secondo la prima esso direbbe questo: il criterio di verità stoico (la “rappresentazione comprensiva”) non regge, e poiché non regge il criterio stoico, che è il più elevato, nessun criterio regge. Ciò non vuol dire però che le cose siano “oggettivamente incomprensibili”; esse sono, molto semplicemente, da noi incomprese. b) Secondo un’interpretazione estensiva, il passo potrebbe, invece, dire quanto segue: il criterio stoico della verità non regge, ma può esserci un altro criterio che regge (per esempio quello platonico), perché quanto alla loro natura le cose sono suscettibili di comprensione, e quindi sono intelligibili. Quale che sia l’interpretazione corretta, ne deriva in ogni caso una conseguenza di rilievo: Filone si colloca nettamente al di fuori dallo Scetticismo. Infatti, dire che le cose sono comprensibili quanto alla loro natura, significa, inevitabilmente, ricadere nel dogmatismo demonizzato dagli Scettici. A questa innovazione Filone addivenne spinto da una obiezione che venne mossa da Antioco alla dottrina di Carneade. Come si ricorderà, Carneade aveva svolto un ragionamento di questo tipo: a) ci sono rappresentazioni false (che quindi non danno luogo ad alcuna certezza), b) non ci sono rappresentazioni vere che si distinguano perfettamente da quelle false per un loro carattere specifico (e quindi non si possono distinguere rappresentazioni certe e non certe). A queste posizioni, Antioco mosse le seguenti obiezioni: la prima proposizione contraddice la seconda e viceversa; sicché, se si accetta la prima, cade la seconda, e, se si accetta la seconda, cade la prima; in ogni caso, il “sistema” (se di sistema si può parlare in riferimento a uno “scettico”) di Carneade vacilla. Per uscire dallo scacco a cui Antioco aveva sottoposto la teoria carneadea, Filone trovò una soluzione che, se anche risolveva i problemi, portava fuori dall’alveo dello scetticismo: non bisogna – dice Filone – sopprimere del tutto la verità e bisogna ammettere la distinzione fra vero e falso. Tuttavia, non abbiamo a disposizione un criterio che ci porti a questa verità, e quindi alla “certezza”, ma abbiamo solamente apparenze, che ci dànno la “probabilità”. Noi non perveniamo alla percezione certa del vero oggettivo, ma ci possiamo solo avvicinare ad essa mediante l’evidenza del “probabile”. Sorge per questa via un nuovo concetto del “probabile”, che non è più quello con cui Carneade confutava gli Stoici, perché esso viene caricato di una valenza decisamente positiva, del tutto assente nel contesto carneadeo. Infatti, l’ammissione dell’esistenza della verità garantisce una intenzionalità ontologica al “probabile”. Il “probabile” diventa ciò che per noi sta in luogo del “vero” e si distingue dal “non-probabile”, nella misura in cui si approssima al vero. Il punto nodale della riflessione di Filone sta nell’aver compreso (e teorizzato) che senza l’ammissione del vero non ha senso neppure il probabile, o, se si vuole, che il probabile c’è, in quanto c’è il vero. Pertanto, delle due proposizioni stoiche: a) c’è il vero, b) c’è un criterio per cogliere il vero, Carneade nega e l’una e l’altra; Filone nega solamente la seconda. Pare inoltre che Filone abbia ammesso un vero “impressum in animo atque in mente” (Cicerone, Acad. pr., II, 11, 34), che, peraltro, noi non possiamo percepire e comprendere a livello di assoluta certezza. In questo, forse, Filone si ispirò a Platone; anche se, naturalmente, non poté richiamarsi all’“anamnesi” platonica. Per meglio dire: questo vero “impresso nell’animo e nella mente” potrebbe essere quanto Filone poteva accogliere da Platone. In questo modo, egli poteva tentare di coniugare tra loro Platone e Carneade. Le tesi filoniane in sede gnoseologica hanno anche notevoli ricadute etiche: infatti, sulla base della rivalutazione nettamente positiva del “probabile” Filone elabora un’etica diversissima da quella di Arcesilao e di Carneade, a tal punto da spingersi a elaborare concreti precetti di morale. Egli suddivideva l’etica in sei parti, e paragonava il filosofo morale al medico (cfr. Stobeo, Anthol., II, 40). Il medico, in primo luogo, deve convincere il malato ad accettare il rimedio proposto; e così il filosofo deve convincere l’uomo ad accettare la filosofia. Poi il medico deve confutare eventuali errate convinzioni ingenerate nei malati da cattivi consigli; e così il filosofo deve smontare le false dottrine e le opinioni sbagliate. Quindi il medico mostra le cause delle malattie, mentre il filosofo mostra le cause dei mali morali e, positivamente, mostra in che cosa consista il sommo bene. Inoltre, come il medico ha come scopo finale la guarigione e la salute del paziente, così il filosofo ha come scopo finale la felicità. Infine, il medico tende a conservare la salute; e, analogamente, il filosofo prescrive regole generali e particolari per mantenere la felicità. Ma l’etica filoniana presenta pure una novità degna di nota: sapendo bene che la maggior parte degli uomini non si accosta alla filosofia e non legge i libri di filosofia, egli si preoccupa di fornire, nell’ultimo libro della sua opera morale, alcuni precetti e indicazioni brevi e accessibili ai più, utili alla buona condotta della vita comune. È, insomma, un interessante modo di far arrivare la filosofia anche ai “non addetti ai lavori”. In questo preoccuparsi dell’uomo comune, Filone compie un decisivo passo avanti rispetto all’etica stoica, rivolta eminentemente ai “sapienti”.