KIERKEGAARD |
Parlare di sacrificio in Søren Kierkegaard significa parlare del suo pensiero nella sua interezza. Si tratta di partire dalla sua vita che, come qualcuno ha detto, è l’imprescindibile punto di partenza per capirne la riflessione filosofica: nasce nel 1813 e muore nel 1855; ha un’infanzia tormentata e nei suoi scritti racconta di avvertire in continuazione una “spina nelle carni” che non gli dà pace. Su cosa fosse tale spina, la critica si è sbizzarrita: c’è chi ha pensato a un difetto fisico e chi, in sede psicoanalitica, ha pensato all’impotenza. Si impegna negli studi di teologia, impiegando ben undici anni per conseguire la laurea; insegna poi latino in un liceo a Copenhagen, incarico che abbandona presto perché non riesce ad instaurare un buon rapporto coi suoi studenti. Nel 1837 conosce Regina Olsen e nel 1840 si fidanza con lei, per poi rompere il fidanzamento poco dopo perché si sente inadeguato. Regina Olsen, dopo poco tempo, si sposa con Schlegel, la cui moglie era a sua volta fuggita da Schelling. Proprio alle lezioni di quest’ultimo a Berlino si reca Kierkegaard, ma ne resta profondamente deluso. L’ultima parte della sua vita è all’insegna della polemica con la Chiesa danese (Kierkegaard è un luterano con forti connotazioni pietistiche che ne accentuano il carattere introspettivo) e con la rivista satirica “Il corsaro”, che prende di mira le sue posizioni conservatrici in politica. Solitamente il suo pensiero viene scandito nelle tre fasi dell’estetica, dell’etica e della religione; delle quali a noi, in questa sede, interessa soprattutto l’ultima, che però non può essere compresa senza riferimenti alle due che la precedono. La prima fase, quella estetica, è quella che trova in don Giovanni il suo emblema: egli ha tante donne e non ne sceglie alcuna, passando dall’una all’altra. Il suo è, ad avviso di Kierkegaard, un carattere demoniaco, in quanto contrassegnato dalla rinuncia alla scelta e, conseguente ad essa, dalla taciturnità. Infatti, “l’essenza del demoniaco è di essere taciturno” (Il concetto dell’angoscia), ritirato in se stesso a rimuginare. A tal proposito, Kierkegaard racconta un aneddoto: per far cadere l’uomo nel peccato, il diavolo ci mise ben tremila anni, durante i quali non fece altro che pensare standosene zitto, proprio come fa il seduttore che, nel suo silenzio, medita sulle prede da conquistare. Per converso, Kierkegaard attribuisce un valore positivo alla parola e alla sua “forza redentrice” che non viene mai meno; infatti, se il silenzio implica la rinuncia alla scelta, la parola è invece una scelta continua (si sceglie, per l’appunto, che cosa dire). L’esito a cui conduce la fase estetica è la disperazione, che può portare alla fase etica solo se è accettata in quanto tale. Detto altrimenti, l’esteta deve accettare la necessaria disperazione che nasce in lui e scegliere di compiere quel “salto” che lo porta alla seconda fase, quella etica. Kierkegaard dice che nella disperazione non si può stare: o la si camuffa come forma di estetica, oppure la si valica e si passa all’etica. La figura che caratterizza questa seconda fase è il marito: in antitesi col seduttore, che non sceglie mai una donna, egli l’ha scelta e conferma ogni giorno la scelta. Ma l’etica stessa, se letta in trasparenza, reca già in se stessa i presupposti del proprio scacco: infatti, il marito non può non pentirsi e sentirsi colpevole dinanzi a Dio; e, di fronte al peccato, il singolo non può trarre beneficio di alcun tipo dall’etica. Quest’ultima, nella misura in cui è l’ideale di essere giusti, naufraga di fronte al peccato, che ci porta a capire come essere giusti sia impossibile: e il peccato è, per Kierkegaard, innanzitutto il peccato originale che caratterizza costitutivamente l’uomo, vittima al tempo stesso di una “innocenza colpevole” e di una “colpa innocente”. Infatti, il marito non ha alcunché di cui pentirsi e, ciò non di meno, si pente, perché ha sentore di essere sempre e comunque reo per via del peccato originale. Ciò significa che, anche se innocente di fronte ai suoi simili, l’uomo è sempre colpevole di fronte a Dio; ragion per cui la sofferenza deve essere accettata con gioia e non come se fosse un castigo gratuito. Una volta giunto al pentimento, l’uomo etico può compiere il “salto” che lo porta alla terza fase, quella della religione. A tal proposito, Kierkegaard distingue tra due diversi tipi di religione: da un lato, la “religione A”, che non avverte l’infinita distanza che separa uomo e Dio e che resta nell’immanenza; è, concretamente, la religione socratica di chi si volge nell’intimo e vi trova un che di numinoso (il demone socratico). Dall’altro lato, la “religione B” è il cristianesimo, paradossale perché l’eterno s’è incarnato in Cristo, ossia nell’individuale circoscritto nel tempo. E mentre la “religione A” può essere colta da ogni uomo in ogni epoca, quella “B” necessita della fede. Al tema della religione Kierkegaard dedica Timore e tremore, opera che viene pubblicata il 16 ottobre 1843 e che reca come sottotitolo Lirica dialettica. Nella prefazione Kierkegaard (sotto lo pseudonimo di Johannes de Silentio) scrive espressamente di considerarsi non un filosofo, bensì un poeta. Lo scritto si articola in due parti, delle quali la prima è a sua volta sottodivisa in due sezioni (“stati d’animo” e “panegirico di Abramo”). Gli “stati d’animo” (detti anche “sfere d’esistenza”) con cui si apre l’opera altro non sono se non le possibilità che si potevano verificare se Abramo non avesse avuto la sua fede. Kierkegaard ravvisa ben quattro possibilità: 1) finzione di Abramo, che avrebbe potuto far credere al figlio Isacco di essere un mostro che lo uccideva, per evitare così che il figlio perdesse la fede in Dio; 2) perdita della gioia di Abramo come conseguenza dell’assurdo vissuto: vedendo che alla fine Dio gli impedisce di uccidere il figlio, Abramo avrebbe potuto perdere la gioia di fronte all’assurdo; 3) tentazione del peccato: Abramo avrebbe potuto chiedere perdono a Dio per aver tentato di uccidere il figlio; e così si sarebbe messo al posto di Dio; 4) disperazione di Abramo e conseguente perdita di fede di Isacco senza che il padre se ne accorga: quando Dio ha salvato Isacco, Abramo avrebbe potuto cadere nella disperazione, il che avrebbe fatto perdere la fede in Dio a Isacco stesso, che però l’avrebbe tenuto nascosto al padre. Ma queste quattro ipotesi restano tali, perché Abramo credette: di qui il panegirico di Abramo, definito il “cavaliere della fede”. E Kierkegaard, che rievoca quelle vicende, definisce se stesso poeta e “genio della rimembranza”, che ricorda e assume in sé il cavaliere della fede. La potenza di Abramo sta nella sua impotenza; la sua speranza nella sua pazzia; il suo amore nell’odio di se stesso. E, nella vicenda di Abramo, si intersecano enigmaticamente tre tempi: quello cronologico, quello del permanere del possibile (la scelta), quello della fede (Abramo credette); la conseguenza è che il transeunte è riassorbito nella più alta sfera dell’eterno. Si passa così alla seconda parte di Timore e tremore, intitolata Problemata: in essa il momento lirico cede il passo a quello dialettico; di fronte all’irruzione dell’eterno nel contingente, la parola poetica deve tacere. Ma perché allora affidarsi alla ragione dialettica? È un evidente paradosso, ma si tratta di un paradosso voluto. I Problemata sono tre, preceduti da una “effusione” preliminare in cui Kierkegaard sottolinea le differenze tra il “cavaliere della fede” e l’“eroe tragico”. A quest’ultimo, che trova in Agamennone il suo paradigma, gli dèi chiedono di sacrificare la figlia: e l’eroe greco lo fa per determinazione morale, scegliendo di sacrificare il particolare (la figlia Ifigenia) a vantaggio dell’universale (l’esercito greco). In questo sacrificio, in cui “ha trovato riposo”, Agamennone “lascia il certo per ciò che è ancora più certo”, proprio come in Hegel si sacrifica il particolare in vista dell’universale. Sull’altro versante, il cavaliere della fede compie un sacrificio di tutt’altro genere: non c’è ragione alcuna per sacrificare Isacco, sicché Abramo è “o un assassino, o un credente”. Egli non agisce neppure per rassegnazione (che è un “surrogato della fede”), cosa che gli farebbe accelerare il passo mentre sale al monte sacrificale. Inizia poi la trattazione dei tre problemi: 1) “esiste una sospensione teleologica della morale?” Essa riguarda l’universale in un orizzonte immanente, e ha in sé il suo tèlos; sicché il rapporto è tra l’individuo e l’universale della norma, di fronte al quale l’individuo stesso soccombe. Nella fede, invece, “l’individuo si rapporta con l’Assoluto in modo assoluto”: si viola la norma etica e, ciò non di meno, si è giusti, proprio perché si è in rapporto assoluto con l’Assoluto. Si evince facilmente come la fede sia paradosso, impossibile da integrare con qualsiasi sistema, anche con quello morale. Da un punto di vista meramente etico, Abramo è un assassino; ma da un punto di vista religioso, egli è il giusto, il cavaliere della fede. 2) “Esiste un dovere assoluto verso Dio?”Abramo ha trasgredito le norme etiche restando tuttavia giusto di fronte all’Assoluto: sorge allora la nuova categoria del dovere assoluto verso Dio, in opposizione all’etica hegeliana. In questa prospettiva, per cui “nessun sacrificio è troppo duro quando è Dio che lo vuole”, la morale viene fatta slittare dalla regione del concetto a quella della fede e del paradosso. L’autentico sacrificio è totalmente estraneo alla ragione, alla luce del fatto che è un sacrificio assoluto e verso Dio. Sicché, se Agamennone può spiegare il suo sacrificio ed essere compreso dagli altri uomini, il sacrificio di Abramo è incalcolabile, incomunicabile e incomprensibile. A rigore, nel caso di Agamennone, più che di sacrificio sarebbe opportuno parlare di scambio, in una logica del do ut des che ha a che fare con la ragione calcolante e che trova rifugio “tra le braccia degli uomini”: infatti, Agamennone è l’eroe che tutti comprendono. Sul versante opposto, Abramo non può comunicare a nessuno il proprio sacrificio: egli è condannato al silenzio, perfino di fronte alla moglie Sara e a Isacco. Ed è in questa cornice che si incastona il terzo dei Problemata: si può perdonare il silenzio di Abramo? Ma, agli occhi di Kierkegaard, si tratta di un problema mal posto, giacché il fatto che Abramo taccia è legato all’impossibilità di spiegare razionalmente il sacrificio; egli si trova dunque necessariamente condannato al silenzio, che – come già s’era detto a proposito della fase estetica – è “seduzione del diavolo”, nella misura in cui avvicina la santità agli abissi del male. Infatti, non potendo parlare, come può Abramo esser certo che la voce che ha sentito sia realmente quella di Dio e non piuttosto quella del demonio? Siamo dunque di fronte a un paradosso che è anche semantico: più che aprire la possibilità a una nuova verità, è un paradosso che preclude ogni possibilità di dire qualcosa, stringendo la ragione nel silenzio più radicale. Come abbiamo visto, il momento etico è quello in cui si compie una scelta che viene sempre di nuovo reiterata e che implica, pertanto, il principium individuationis e la mediatezza: ora, con la fase religiosa, è come se si recuperasse l’immediatezza propria della fase estetica, con la conseguenza che quella etica viene ad essere una fase di transizione; scrive Kierkegaard: “la fede non è la prima immediatezza, ma una ulteriore”, quasi intendendola come un diverso e più alto recupero dell’estetica. Ma nella scelta che si compie per passare da uno stadio all’altro non si dà certezza, sicché ogni scelta è accompagnata dal rischio dell’angoscia. Scegliere significa porsi nell’ottica dell’aut-aut: nel caso di Abramo, o si dà la possibilità di un rapporto assoluto con l’Assoluto o il suo è un assassinio e nulla più. Dal canto suo, Kierkegaard riconosce esplicitamente di non possedere la fede di Abramo, così profonda e determinata: per questo motivo, dice di precipitare nel dolore e nella rassegnazione. Questo tema è approfondito nel suo gigantesco Diario (composto da ben 16 volumi): soffrire sapendosi colpevoli implica l’avere un compito da portare a termine, a tal punto che “il cristianesimo è l’Assoluto, e rapportarsi assolutamente all’Assoluto è, eo ipso, sacrificarsi”. La natura del sacrificio cristiano non consiste nell’offerta (in tal caso si avrebbe una mistificazione del sacrificio), ma piuttosto in un gesto da compiersi quando si sia raggiunta la consapevolezza della propria colpevolezza. Ma allo stesso tempo il sacrificio è anche un tèlos, un fine che dobbiamo consapevolmente scegliere. In alcuni luoghi, Kierkegaard scrive che il sacrifico è inevitabile, in altri che è una scelta. E la sofferenza è l’unica via per raggiungere la redenzione, come insegna Cristo che si è sacrificato interamente: “amare Dio è voler soffrire”. Kierkegaard insiste molto sul nesso tra sacrificio cristico e sacrificio che ognuno deve compiere, in opposizione a quei cristiani che sostengono che, dopo Cristo, non ci devono più essere vittime. Si tratta invece di essere vittime per far risaltare che Cristo fu l’unica vittima: Egli ha indicato ai cristiani che l’obiettivo della loro esistenza è il sacrificio, che deve essere incondizionato e fondante dello stadio religioso. Esso avviene soltanto nell’istante, è un valico superato il quale nulla è più come prima. Come già notava Blaise Pascal, il sacrificio di Cristo è unico e autosufficiente e, non di meno, deve sempre di nuovo essere completato. “Stare uniti per essere sacrificati; stare uniti per evitare di essere sacrificati; stare uniti per riguadagnare le cose terrestri: ecco il climax anticristiano”: con queste parole, Kierkegaard intende mostrare come il cristianesimo abbia subito una parabola peggiorativa, che l’ha portato dall’accettazione originaria del sacrificio, al rifiuto del sacrificio e, infine, all’attenzione per le sole cose terrestri. Si tratta allora di tornare al cristianesimo originario e al sacrificio: esso però non dev’essere compiuto facendo di necessità virtù, come fece Schopenhauer quando, trovandosi sempre con l’aula vuota, disse che si era sacrificato. È esattamente il sacrificio, nota Kierkegaard, a dividere l’umanità in due categorie: le bestie e gli “amici di Dio”, chiamati a sacrificarsi di continuo e a soffrire. In questo mondo che è una “galera”, “c’è sempre bisogno di sacrifici”, senza l’assurda pretesa di sapere dove e quando compierli, tenendo presente che il sacrificio è una scelta singolare che non avviene attraverso la formazione di “partiti né combriccole”. E al di fuori della Rivelazione vangelica non si dà sacrificio in senso autentico. Secondo l’etimo greco, il martire è l’inciampo (scàndalon) della ragione, e al giorno d’oggi deve necessariamente essere un martire, per così dire, “mediato”, tale cioè da acquisire onore e fama per poi sacrificarli. Come abbiamo già avuto modo di precisare, per la vita di Kierkegaard fu decisivo il sentirsi macchiato da una colpa atavica che gli impediva di essere uomo in senso pieno (fallì il suo fidanzamento, come pure la sua carriera pastorale); tanto più che non si può mai avere la certezza di essere stati scelti da Dio come suoi ministri. E forse la “spina nelle carni” che lo tormentò per tutta la vita dev’essere ricondotta al fatto che, a differenza di Abramo che fece la verità, egli potè soltanto dirla, per di più nella contraddizione del dire ciò che sfuggiva alla ragione. Come ha scritto Enzo Paci, Kierkegaard “si considera poeta della fede, e confessa di non avere fede”. Secondo Karl Löwith, invece, la riflessione di Kierkegaard dev’essere inquadrata in una lotta contro il cristianesimo dei suoi tempi in vista di un ritorno al cristianesimo delle origini; non a caso, nella sua rivista “L’istante”, Kierkegaard attacca tutto ciò che è mondano, alla luce del fatto che amore per Dio significa diventare infelici su questa terra. Egli attacca perfino il matrimonio, che con la procreazione crea nuovi perduti.