BATAILLE


 

 

Lezione tenuta dal dr. Piero Burzio

In Georges Bataille (1897-1962) il sacrificio non è un tema: è il tema per eccellenza, quello in cui si raggrumano tutte le altre questioni (il problema della guerra, della religione, della festa). Le sue opere fondamentali, di cui ci occuperemo, sono Critica dei fondamenti della dialettica hegeliana (1943), Su Nietzsche (1945), che costituisce una delle tappe fondamentali della “Nietzsche renaissance” francese; L’esperienza interiore (1943), Hegel, la morte e il sacrificio (1955), Hegel, l’uomo e la storia (1957). Dal 1956 lavora assiduamente a La sovranità; nel 1957 esce La letteratura e il male. Accanto al sacrificio, l’altro grande tema che innerva l’opera di Bataille è l’erotismo: attorno ad esso, gravitano posizioni che il filosofo francese conquista passando per la lettura di Hegel, di Sade e di Nietzsche; questi autori sono altrettanti “pretesti”, nel senso francese di “ciò che sta prima del testo”: sono cioè volani di tematiche per Bataille. Il confronto batailleiano con Hegel è possibile in virtù del seminario hegeliano tenuto dal nipote di Kandinsky, Alexandre Kojevè (1902-1968), a partire dal 1933 (fino al 1939): egli tenta di elaborare una filosofia anti-heideggeriana che si ponga in diretta continuità con Hegel, e lo fa soprattutto nel testo Discorso, tempo, concetto. Il seminario che tenne fu alquanto innovativo, soprattutto se inserito nel contesto francese. Infatti, nella Francia di quegli anni era sentito il problema del “revanscismo”; il tedesco era poco conosciuto, e l’odio per i Tedeschi era fortissimo. Hegel non era il solo pensatore tedesco ad essere oggetto di silenzio: c’era anche Freud e, soprattutto, Nietzsche, il quale, a partire dagli anni ’30, era visto in Germania come puntello dell’ideologia nazista. Disinteressata alla filosofia tedesca, la cultura francese di quei tempi è dominata da Henri Bergson e dai suoi seguaci. Curiosamente, lo scopritore francese di Hegel nel Novecento fu il surrealista Andrè Breton: e non a caso, Bataille si formò inizialmente all’interno del surrealismo. Kojevè, nel suo seminario, legge Hegel, lo fa in tedesco, e si sofferma con particolare attenzione sulla Fenomenologia dello spirito del 1807. Gli uditori del seminario sono quelli che, nella seconda metà del Novecento, costituiranno le punte di diamante della cultura francese: Bataille, Merleau-Ponty, Lacan, Sartre, Raymond Aron, e molti altri. Di sfuggita, possiamo ricordare che se ne L’essere e il nulla (1943) Sartre parlerà hegelianamente di “in sé” e “per sé”, lo farà proprio in forza dell’hegelismo di cui si era sostanziato con Kojevè. Tutti gli uditori di Kojevè mutueranno da Hegel l’attenzione per la figura fenomenologia del servo e del signore. Fino ad allora, la Francia conosceva la dialettica hegeliana soltanto tramite Marx (e su di lui appiattita): va però precisato che Bataille, quando si recò al seminario, conosceva già Hegel tramite il surrealismo, sicché non mancarono gli scontri teorici con Kojevè. Il punto di partenza della riflessione batailleana è la messa a punto della dialettica servo/signore: di qui emergerà, un po’ alla volta, il concetto cardine di sovranità. La sovranità di cui scrive Bataille è la signoria di cui scriveva Hegel: il signore ozia, il servo lavora per lui, producendo, trasformando la natura in utensile, in un oggetto che si colloca nella catena mezzo/fine. Propriamente, oltre che il lavoro, anche la filosofia nasce col servo, nella misura in cui i concetti sono ciò che l’oggetto è per il soggetto. Il signore dunque usa il lavoro del servo, rispetto al quale si trova agli antipodi: è il ramo secco della storia e, paradossalmente, la sua è la logica del servo, giacché gli interessa l’utile o, in altri termini, che il servo resti in vita e continui a servirlo. In questa prospettiva, la logica del signore è progettuale e caratterizzata dall’investimento. Ma il sovrano di cui scrive Bataille è in realtà distante tanto dal servo quanto dal signore. La sovranità è allora qualcosa che allontana e insieme avvicina Hegel e Bataille, giacché il sovrano di cui dice il secondo consuma (nella festa, nell’ubriachezza, nella droghe, nell’erotismo), nel senso della pura perdita, del dispendio senza ritorno. Per Bataille, nel momento in cui vivo, distruggo ciò che mi fa vivere, esattamente come fa il fuoco che arde: ma soltanto bruciando ciò che mi fa vivere, posso dire che realmente vivo. Dell’erotismo non se ne può parlare (giacché sfugge alla presa della ragione), ma al tempo stesso se ne deve parlare (poiché è il nostro universo): similmente, della sovranità e della dispersione non si dà definizione né concettualizzazione: essa non si identifica né col servo hegeliano, né col signore hegeliano, né col rapporto tra i due; è semmai ciò che Hegel non ha detto. In questa logica, Hegel verrebbe ad essere il servo del proprio servo, il quale è a sua volta servo del signore. Nasce di qui l’idea di Bataille del “non sapere assoluto”: ed è esattamente a questo punto che, nella sua riflessione, subentra Nietzsche, il vero solidale di Bataille, con la sua “sanguinante vicinanza”. Il non sapere o è assoluto o non è: non è un non sapere qualcosa per sapere altro; è assoluto, sciolto da qualsiasi vincolo. Di che cosa è non sapere? Se dicessimo che è non sapere di qualche cosa, si uscirebbe dall’assolutezza: è sapere di niente, dove il niente è la mera negazione dell’oggettità. E negare l’oggetto significa negare il soggetto, che si costituisce in base all’oggetto. Nel non sapere non sono io; o sono io a patto di perdere il non sapere. Non di rado, Bataille fa in questo senso riferimento alla mistica (e Sartre stesso lo definì un “nuovo mistico”): la sua lucidità intellettuale sta nel cogliere che per l’uomo è impossibile essere sovrano, ma deve essere sovrano; che non può entrare nel non sapere assoluto, ma deve entrarvi. È una logica che si muove sempre con questi due movimenti. Scrive Bataille ne L’erotismo: “L’erotismo è nella coscienza dell’uomo ciò che mette il suo essere in questione”; ma lo stesso si può tranquillamente dire del sacrificio, che è al centro dello scritto Teoria della religione. Qui Bataille distingue tra la “trascendenza” e la “immanenza”: si tratta di due categorie imprescindibili e opposte, ma relazionali; infatti sono e stanno insieme, e se cade una, viene a cadere pure l’altra. In Bataille i due termini si rivestono di un significato particolare: pur non definendole, egli sembra lasciar intendere che l’immanenza è la continuità dell’essere. E l’essere di cui parla è inteso assai vagamente, proprio perché l’essere stesso, per Bataille, è il non-individuato, il non-discontinuo. Il pensatore francese impiega un’immagine piuttosto efficace per tratteggiare l’immanenza e la continuità dell’essere: come le gocce stanno nell’acqua, allo stesso modo l’essere è continuo e non individuabile. Parlando di immanenza, Bataille si riferisce soprattutto al mondo animale: l’animale vive in modo immediato la continuità dell’essere, vive cioè il suo mondo come pura immanenza. Ma che cosa manca all’animale? Con questa domanda si passa dal punto di vista dell’animale a quello dell’uomo e si rivela di essere già al di fuori di quel mondo. Sul versante opposto, la trascendenza è la discontinuità dell’essere: l’uomo può fingere di vivere come la goccia nell’acqua, ma ciò non di meno egli nasce ed è come trascendenza. E se non vi fosse trascendenza, non vi sarebbe neppure umanità. La discontinuità di cui dice Bataille è precisamente il prendere le distanze all’interno dell’essere, cosa che mi permette di chiamare “oggetto” ciò che mi sta di fronte. È questo il prezzo che l’umanità paga per diventare tale: essa spezza l’unità originaria dell’immanenza. Memore della figura hegeliana del servo e del signore, Bataille gioca il dualismo a cui porta la trascendenza sul piano della teoria del lavoro e del valore: a suo avviso, infatti, è quando impara a lavorare che l’uomo accede all’umanità, alla trascendenza. Il lavoro in questione è quello che ha a che fare con strumenti inorganici, ovvero con strumenti, con utensili: essi introducono nell’ambito della trascendenza giacché necessitano di essere costruiti; cosa di cui anche il più evoluto degli animali è incapace. Costruendomi gli attrezzi da lavoro, mi sto ingegnando, distaccandomi dall’immediatezza e, con ciò stesso, dall’immanenza. Tanto più che, se costruisco un utensile, considero già il mondo come un oggetto che mi è esterno, e l’utensile come mezzo per raggiungere un determinato fine. E Bataille, pur senza affermarlo esplicitamente, sta quasi suggerendo che la catena mezzo/fine è più antica rispetto a quella causa/effetto. Con la creazione di utensili e col lavoro, si costruisce il mondo delle cose e la conoscenza esterna: se l’animale non ha una realtà oggettiva, la trascendenza umana è onniavvolgente, nel senso che l’uomo, per essere tale, deve riportare dinanzi a sé ogni altra cosa. Quello animale è, per dirla con Edmund Husserl, un mondo di evidenze originarie e contraddistinto dall’istantaneità eterna, nel senso che l’animale vive nell’istante (non pensa alla propria nascita né alla propria morte); al contrario, quello della trascendenza è il mondo segnato dalla temporalità, che nasce come durata. Quest’ultima è un flusso continuo (si avverte l’eco di Bergson), è negazione dell’eternità dell’animale: nella temporalità della trascendenza, gli oggetti hanno una loro precisa durata, anche se poi finisce per prevalere una sorta di “estasi del futuro”. Ciò induce Bataille a spostare l’attenzione sulla società industriale, che è l’apice della trascendenza. Ma dell’immanenza, a rigor di logica, non possiamo dire nulla, perché parlarne vuol dire oggettivarla e, dunque, entrare già nella trascendenza. La conseguenza è che nell’immanenza non posso conoscermi, giacchè la conoscenza implica sempre, per così dire, uno sdoppiamento tra l’Io e il non-Io: ciò non di meno, ciascuno di noi reca in sé il ricordo sfuocato del proprio stato fetale, in una sorta di reminescenza platonica; la nostra stessa esistenza è costellata da eventi che lavorano per distruggere la trascendenza; dei quali, forse il più importante è il sacrificio. Per come siamo abituati a pensarlo noi, esso mette in contatto l’uomo con la trascendenza divina: ma per Bataille esso non fa che distruggere la trascendenza; è una delle grandi cifre dell’esistere umano, perché ne mette in questione l’essere nella misura in cui lotta contro la trascendenza. Ma Bataille non propone un nostalgico ritorno all’immanenza: egli sceglie piuttosto il paradosso, che lo induce a tenere insieme i due opposti (il ritorno all’immanenza e il non poter prescindere dalla trascendenza), facendoli essere coessenziali. Roger Callois distingue tra “sacro bianco” e “sacro nero”: il primo permette di incatenare l’ordine delle cose, aprendo la via al traffico tra uomini e dèi; ma il secondo scatena, ha un aspetto terrifico e violento. Questi due sacri hanno però un punto di contatto, nella misura in cui l’incatenamento può avvenire solo tramite lo scatenamento; è soltanto il varcare il confine che mi permette di vederlo e prenderne coscienza. Ora, nel sacrificio di cui scrive Bataille sono presenti i due sacri, giacché esso “distrugge ciò che consacra”, in un “consumo definitivo” e irreversibile. Il principio del sacrificio è allora la distruzione: sacrificando, si desidera distruggere la cosalità della cosa, restituendo la vittima al regno da cui proviene (l’immanenza), sottraendola all’ambito dell’utilità (non a caso si sacrificano sempre cose utili). Bataille dedica alcune pagine allo studio antropologico del “potlach”, di quella pratica, diffusa presso certe tribù indiane, con cui il capo-tribù, quando riceve il capo di un’altra tribù, fa un sacrificio con cui spreca e distrugge risorse per dimostrargli la propria sovranità e per legare la controparte, che si vede così costretta a compiere a sua volta un sacrificio ancora più ricco. Il sacrificio è per Bataille caratterizzato dalla morte, la quale – quasi heideggerianamente – non è mai la mia morte, è sempre quella altrui. E con la morte torno ad essere una goccia nell’acqua, ritornando all’immanenza e riconfluendo così nell’insieme magmatico in cui tutto è tutto. Sicchè il sacrificio è la porta che reintroduce nella violenza, nella morte, nell’immanenza: ma è qualcosa che è impossibile e, insieme, necessario. L’erotismo stesso è il momento in cui l’essere discontinuo muore per far vivere un altro essere discontinuo: non è un caso che in francese “orgasmo” si dica “petite morte”, cioè “piccola morte”. Nell’atto erotico si smarrisce il principio di individuazione: tanto l’erotismo quanto il sacrificio implicano la morte. Sartre disse che quella di Bataille era una “buona piccola estasi panteistica”: e alle critiche sartreiane, Bataille risponde in maniera un po’ scontata e banale, limitandosi a riportare e commentare i passi in cui viene accusato. In definitiva, il sacrificio è un rifluire nell’Uno-Tutto: ma nella consapevolezza che si tratta di un riflusso impossibile e al tempo stesso necessario, in un’ottica del paradosso. 

 

 

 


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