LA FINE DELLA POLIS
A cura di Andrea Pesce
Nel linguaggio comune “uomo politico” è purtroppo diventato sinonimo di uomo furbo, di persona che sa parlare e agire con astuzia. Eppure in passato questa definizione era considerata in modo completamente diverso. Il “politico” era colui che si dedicava alla gestione dei problemi della polis, la città dell’antica grecia, subordinando ad essa i propri interessi personali per il bene della cosa pubblica.
Anche autori più vicini a noi come T. Parson definiscono i sistemi politici come “l’insieme delle azioni e delle istituzioni sociali che hanno la funzione di dirigere una collettività verso scopi condivisi dai membri”.
E’ doveroso precisare che l’eperienza della democrazia ateniese era per molti aspetti imperfetta e certo non rappresentava la massima epressione di egualitarismo. Vi era una grande massa di schiavi, di donne, di stranieri dediti a lavori infamanti e degradanti ai quali erano pressochè negate libertà civili che invece erano riservate per un gruppo ristretto di individui al potere. La cosa più importante è che la polis determinò la nascita della democrazia, sistema sociale in cui il potere viene gestito da una libera assemblea secondo il principio: un voto = un cittadino. Attraverso questa regola la scelta di ogni membro della città acquistava un valore assolutamente paritario tra i partecipanti alla consulta che andava al di là della condizione sociale e economica del singolo.
Questa breve introduzione può apparire lapalissiana ma è proprio dove si cristallizzano le grandi certezze che può annidarsi il germe distruttore. E allora è bene cominciare a porsi la domanda se noi stiamo ancora vivendo all’interno di un sistema politico democratico? Chi ci governa (chiaramente non ci riferiamo solo all’attuale governo poiché la questione è di ampio raggio e coinvolge l’intero assetto instituzionale) è a conoscenza del fatto che la politica è al servizio di interessi generali e di pubblica utilità? Non è il cittadino al servizio della politica ma, al contrario, le istituzioni sono preposte alla tutela dei diritti di ogni cittadino. Se poi quest’ultimo non dimostra di comportarsi in modo consono ad un ambito democratico nel rispetto delle leggi, allora potrà essere punito con la privazione del diritto fondamentale della libertà -tramite la reclusione- dopo aver subito un giusto processo penale.
Questa dinamica, che rappresenta il fulcro per il buon funzionamento di una macro–democrazia come la nostra, è entrata prepotentemente in crisi proprio negli ultimi dieci, quindici anni, soprattutto durante i governi della coalizione guidata da Silvio Berlusconi.
Sempre più spesso si sente parlare di regime, dittatura, totalitarismo; espressioni queste che testimoniano lo stato di turbamento e di dubbiosità nei confronti del nostro sistema democratico. Lo stesso Norberto Bobbio parlava di regime democratico definendolo: “un insieme di regole e di procedure per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia degli interessati”[1]. Noi siamo dell’idea che il dubbio merita chiarimento. Se le istituzioni non riescono a convincere il popolo della loro legittimità, apportando solo risposte vacue e irrilevanti, sperticandosi in promesse per un miglioramento futuro della condizione socio-economica, allora significa che non hanno più gli argomenti e i mezzi per una esauriente elucidazione ai quesiti loro posti. In questi casi sarebbe bene sgomberare il campo nella consapevolezza del proprio fallimento e tornare alle occupazioni svolte prima della attività politica.
Non è obbligatorio per l’uomo politico permanere a vita sulla scena istituzionale. Ci si può ritirare! Venendo al dunque: che senso ha per il popolo italiano continuare ad esprimersi elettoralmente (condizione questa che presuppone la possibilità di un radicale cambiamento politico) sempre e soltanto con le medesime alternative? Negli Stati Uniti, considerata la più grande democrazia del pianeta (criticabilissima sul piano della gestione sia di politica interna sia di politica estera), sarebbe possibile che tra quattro anni si rivotasse ancora una volta per la presidenza tra Bush e Kerry?
E’ evidente che nel nostro sistema politico qualcosa non quadra. Il politologo Giovanni Sartori ha ribadito più volte nei suoi interventi su “Il corriere della sera” e “L’espresso” che la durata, la lunga permanenza al Governo di una coalizione politica non era necessariamente sinonimo di buon governo: si può governare poco e bene e, allo stesso modo, a lungo e male. L’ostinazione di gran parte della nostra classe politica nel rimanere ancorata a posizioni di potere genera il sospetto che l’imperativo democratico sia stato male interpretato da queste persone.
Un altro aspetto sicuramente inquietante dell’attuale scenario politico è il potere esercitato dai partiti. A tal proposito è doveroso citare alcune parti di un saggio di Massimo Fini dal titolo paradigmatico Sudditi, manifesto contro la democrazia, in cui l’autore, con schiettezza e lucidità, si sofferma su questo tipo di problema. Partendo dall’etimo della parola Democrazia (governo del popolo) egli scrive: “Scordiamoci che il popolo abbia mai governato alcunchè, almeno da quando esiste la democrazia liberale. Se c’è qualcosa che fa sorgere nell’anima di un liberale un puro sentimento di orrore è il governo del popolo. […] E poichè lo stato è troppo grande territorialmente e giuridicamente perché il popolo possa dire direttamente la sua, nacque la democrazia rappresentativa dove il cittadino, formalmente detentore del potere, lo delega a un altro che diventa il suo rappresentante, mentre il rappresentato, retrocesso alla condizione di governato, partecipa al momento decisionale attraverso periodiche elezioni […]”[2]. A questo punto viene da domandare chi sono questi famosi rappresentanti e, soprattutto, quali qualità posseggono per candidarsi ad una così difficile impresa? Vediamo come la pensa Massimo Fini partendo da un’analogia storica tra le vecchie aristocrazie e le odierne oligarchie democratico-partitiche: “Fra le oligarchie democratiche e le aristocrazie storiche c’è però una differenza sostanziale. Gli appartenenti alle aristocrazie vere e proprie si distinguono perché posseggono delle qualità specifiche, vere o anche presunte ma comunque credute tali dalla comunità. Nel feudalesimo, occidentale e orientale, i nobili sono coloro che sanno portare le armi, in certe epoche dell’antico Egitto la professione di scriba conduceva alle cariche pubbliche e al potere, […] nella Roma repubblicana il comando, attraverso la trafila delle magistrature, andava ai giurisperiti che, generalmente, erano anche uomini d’arme. […] Chi appartiene alle oligarchie democratiche non ha qualità specifiche. La classe politica democratica è formata da persone che hanno come elemento di distinzione unicamente, e tautologicamente, quello di fare politica. La loro legittimazione è tutta interna al meccanismo politico che le ha prodotte. Sono i professionisti della politica, che vivono di politica e sulla politica […] Poiché non è necessaria alcuna qualità pre-politica la selezione della nomenklatura è autoreferenziale, puramente burocratica, avviene all’interno degli apparati di partito attraverso lotte oscure, feroci, degradanti, spesso truffaldine. L’oligarca democratico è un uomo senza qualità. La sua qualità è di non averne alcuna. Il che gli consente una straordinaria adattabilità”.[3]
L’impeto, lo sdegno di Fini nei confronti di questo sistema è giustificato da alcuni esempi verificatisi in Italia che hanno portato all’elezione personaggi con alle spalle gravi e insolute pendenze penali. Un caso è quello di Marcello dell’Utri, ora parlamentare per Forza Italia, sottoposto a processi penali con accuse di collusioni mafiose e traffici illeciti condannato in prima istanza con sentenza dell’11 dicembre 2004 per concorso esterno in associazione mafiosa, eletto con il 50% dei consensi nel 2001 nella città di Milano che solo pochi anni prima era stata il baluardo della legalità durante lo scandalo di tangentopoli, vergogna nazionale portata alla luce dai magistrati di Milano che mise in ginocchio la cosiddetta “Prima repubblica”, e la scomparsa politica di alcuni potenti corrotti come Bettino Craxi.
In sostanza, sembra volerci comunicare Fini, dietro lo scudo opportunamente posto dai partiti, si celerebbero i soliti loschi traffici di potere che hanno sempre caratterizzato la nostra nazione che, proprio per queste consuetudini, non gode di grande prestigio internazionale. Che fare? Platone nell’ultimo periodo della sua vita scrisse “Le leggi”, proprio in seguito all’amara esperienza siracusana del 361 a. C., in cui il filosofo rischiò la vita nel tentativo di difendere il consigliere del tiranno Dionigi Dione e si salvò solo grazie all’intervento del pitagorico Archita. In quest’opera Platone raccomandava un’educazione in cui al primo posto fossero collocate la virtù della saggezza e della giustizia, compito sempre e comunque affidato allo stato. Lo stato, sempre più percepito dai cittadini come traditore delle loro volontà, dovrebbe garantire l’equilibrio dei poteri e la uguaglianza nei confronti della legge? “…E il mondo vero divenne favola” scriveva Nietzsche un secolo fa riferendosi all’avvento del cristianesimo sulla terra. Allo stesso modo, in ambito politico, al cittadino oggi, come primo dovere, sembra essere richiesto quello di credere alle favole, di farsi periodicamente ingannare dall’imbonitore di turno, chinare la testa e votare.
Forse ha ragione Sartori quando nell’introduzione alla raccolta di suoi articoli nel libro Mala tempora afferma che in Italia: “quanto più un potere diventa straripante, tanto più si attiva un riflesso di genuflessione, di servilismo. […] Perché? […] La risposta di rito è che noi siamo il paese centrale della Controriforma, e quindi della vittoria del conformismo dettato dall’alto sul pluralismo protestante. Ma siamo anche, aggiungo, un paese che dalla caduta dell’impero romano è stato incessantemente invaso e conquistato; forse il più invaso e conquistato d’Europa. Venezia a parte, gli italiani, gli abitanti dell’Italia di oggi, si sono specializzati nel sopravvivere piegando la schiena”[4].
L’aspetto antropologico introdotto da Sartori è interessante e merita un approfondimento. Nella citazione ci sono due termini che lo studioso utilizza senza fare un riferimento diretto alle implicazioni antropologiche e ai condizionamenti sociologici derivanti dalla collocazione (intendiamo proprio topografica, spaziale) della città del Vaticano, stato interno alla nazione Italia. Le parole genuflessione e Controriforma sono di chiarissima estrazione religiosa. Perché mai un pensatore politico come Sartori entra in contatto con termini così legati al regno del sacro e dell’irrazionale, territorio questo specifico della religione? Una possibile risposta la si può ricavare da un altro importante filosofo e psicologo come Umberto Galimberti, pressochè unica voce fuori dal coro dei genuflessi in occasione della morte di Papa Giovanni Paolo II. In un’intervista rilasciata a L’espresso del 14 aprile 2005 alla domanda di Enrico Arosio sulla sorpresa nel vedere così tante persone adunate a San Pietro, in un paese che si credeva sempre più secolarizzato, il filosofo ha risposto: “[…] Ho sempre saputo che l’Italia è essenzialmente il Vaticano, che la struttura di base, la psicologia dell’italiano è a sfondo religioso. Per questo siamo poco democratici, ci piacciono i fascismi, le figure che li incarnano. La nostra matrice antropologica è profondamente religiosa. Ma è una religiosità di tipo infantile, proiettiva, mitica. Ha bisogno del grande uomo, del grande personaggio per commuoversi. Vedo qualche analogia tra l’affollarsi in migliaia a un concerto all’aperto di Vasco Rossi e andare in piazza San Pietro coi papa-boys. La metafora è l’adunata di massa, ben nota al comunismo e al fascismo. Alla massa si dà uno stimolo e subito reagisce. E’ qualcosa di molto primitivo”.
La polis dunque, il tanto ricercato ideale democratico in cui il cittadino ha la possibilità di esprimersi nei confronti del potere, sembra essersi incagliato nelle secche degli interessi personali e di partito. La metafora navale non è a sproposito se, come voleva Socrate, non è molto conveniente affidare il comando della propria nave a chi non si conosce direttamente, senza avere verificato le competenze nella conoscenza delle rotte da seguire.
[1] N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1995 p. 22.
[2] M. Fini, Sudditi, manifesto contro la democrazia, Venezia, Marsilio editori, 2004 p.46, 48.
[3] M. Fini, op. cit. p. 55, 56, 57.
[4] G. Sartori, Mala tempora, Bari, Laterza, 2004, p. VII.