EUGEN FINK

 

FINKEugen Fink (1905-1975) fu allievo di Husserl e di Heidegger a Friburgo: di Husserl egli fu l’ultimo assistente e a lui il padre della fenomenologia guardava, negli ultimi anni, come all’unico dei suoi allievi che avrebbe potuto completarne l’opera interrotta. In realtà, se letto in trasparenza, l’itinerario di Fink parte sì da Husserl, ma poi, passando per Heidegger, giunge alla fondazione di un pensiero autonomo e di una posizione teoretica a sé stante. Fin dall’opera Riflessioni sulla protostoria ontologica di spazio-tempo-movimento (1957), egli va sostenendo l’inadeguatezza del metodo fenomenologico a chiarire i concetti cosmologici essenziali del tempo, dello spazio e del movimento. Questi non sono dei puri e semplici “fenomeni”, ma qualcosa di più fondamentale che ne è alla base e alla cui chiarificazione si richiede un diverso “metodo ontologico”. Nell’opera successiva, intitolata Essere, verità, mondo. Questioni preliminari al problema del concetto di fenomeno (1958), Fink mette alla berlina il concetto di fenomeno, imputandogli l’insufficiente definizione della differenza tra due modi di apparire: apparenza (Schein) e apparizione (Erscheinung). La metafisica tradizionale – rileva Fink – interpreta l’apparire come un qualcosa che accade tra due enti intramondani: la facoltà rappresentativa del soggetto e le cose. Occorre invece sforzarsi di concepirlo come un evento più originario della stessa apparizione dell’ente, cioè come il dispiegarsi reciproco di verità e mondo. Esso coincide con il processo dell’universale individuazione, mediante la quale le cose si profilano spazialmente e temporalmente entro la totalità onnicomprensiva del mondo. Quello che occorre è un nuovo pensiero dell’essere – e qui la consonanza con gli intenti generali di Heidegger è evidente -, che sappia dischiuderci il senso del mondo come “la regione di tutte le regioni”. La ricerca di Fink, in particolare nello scritto Tutto e nulla. Una via più lunga alla filosofia (1959), dedicata al concetto kantiana di mondo, assume la forma di una ricostruzione storica del concetto metafisica di mondo, ed è su questo terreno che si possono misurare le distanze rispetto a Heidegger. Fink concorda con lui nel considerare la storia della metafisica occidentale come quella dell’oblìo progressivo dei concetti autentici di essere e mondo. Ma, mentre Heidegger pone tendenzialmente l’inizio di questa caduta in Platone e in Aristotele, Fink scorge già una profonda frattura tra il “pensiero del mondo” degli Ionici e il “pensiero dell’essere” degli Eleati, tra Eraclito e Parmenide. Il primato dell’idea dell’essere nei confronti di quella del mondo rappresenta, agli occhi di Fink, quell’evento fatale che si caratterizza come oblìo del mondo. La nascita dell’ontologia corrisponde infatti all’esclusione del movimento dal regno dell’essere. Al contrario, non si può ricavare il senso originario del mondo senza la considerazione simultanea di spazio, tempo e movimento. È in Anassimandro che Fink avverte la presenza di un diverso pensiero che non coglie nell’eon (il non spaziale, il non temporale, il non mosso) la “misura assoluta” delle cose intramondane, ma cerca di afferrare l’essere dell’ente dall’orizzonte del mondo. Nell’idea anassimandrea di apeiron, la vera infinitezza del mondo, del cosmo, è assunta a principio da cui scaturiscono tutte le cose. Il “tutto del mondo” è come il grembo in cui tutte le cose sono avvolte e protette. I due movimenti opposti, dello scaturire delle cose dall’apeiron e del loro declinare in esso, sono intesi in una sorta di “gioco” cosmico, cui sono affidate le sorti sia dei piccoli uomini sia delle immani masse stellari. Il pensiero dell’infinito, del movimento originario e del gioco sono – secondo Fink – tre elementi che debbono essere recuperati in un rinnovato pensiero (non metafisico) del mondo. Anche nello scritto Il gioco come simbolo del mondo (1960) il punto di partenza è offerto da un’intuizione del pensiero greco precedente a Platone e ad Aristotele: l’immagine eraclitea di aion (il corso del mondo) come un bambino che gioca a dadi. La tesi di Fink è che il fenomeno umano del gioco acquista un significato universale, una “trasparenza cosmica”, e che sia il gioco sia il mondo si prestano a essere chiariti l’uno alla luce dell’altro. Vi è naturalmente una differenza cosmologica (Heidegger parlava di “differenza ontologica”) tra il gioco come fenomeno umano, che si svolge tra enti intramondani quali l’uomo e le cose, e il gioco del mondo. Tuttavia la peculiarità dell’essere-nel-mondo dell’uomo – come quell’ente che si rapporta estaticamente al mondo e lo penetra comprensivamente – fa sì che il gioco umano possa essere assunto a simbolo del gioco cosmico. Attraverso una critica della concezione metafisica del gioco, ossia da una lato della teorizzazione platonica che riduce il gioco a immagine apparente del mondo, e dall’altro di quella mitica, in cui il gioco viene sacralizzato e, con ciò, ricondotto a regole prefissate, di cui l’uomo non è l’autore, ma gli dei o i demoni, Fink perviene a stabilire le seguenti determinazioni del concetto filosofico di gioco. Nel gioco – come in altre condotte fondamentali, quali il lavoro, la lotta, l’amore, il culto dei morti – l’uomo realizza la sua fondamentale apertura al mondo. Esso è caratterizzato dalla totale gratuità, dall’irrealtà, da un senso di gioia pagana per il sensibile, in cui viene sperimentato il “piacere dell’apparenza”. Nel gioco, l’uomo sembra mimare la stessa onnipotenza del mondo. In queste sue peculiarità, il gioco è simbolo del mondo, del suo essere senza fondamento, scopo, senso, valore e progetto, ma insieme del suo tenere aperti gli spazi e i tempi per l’essere delle cose, il quale ha una ragione e un fine, è ricco di significato e di valore. A differenza del gioco umano, quello cosmico è un gioco “senza giocatore”, un governo cosmico delle cose che non può essere riferito a nessuna entità personale. In forza di ciò, il mondo, al di là di ogni illusione teologica, conserva per l’uomo tutto il suo enigma. Tra le opere di Fink meritano inoltre di essere menzionate Oasi della gioia (1957), La filosofia di Nietzsche (1960) e Sull'entusiasmo: al cuore di quest'ultima, si trova la tensione tra entusiasmo e ragione, che viene mantenuta in un fecondo equilibrio, inteso come l'unico presupposto per una creatività originale e per la libertà di pensiero. Preservare uno spazio positivo alla sfera dell'entusiasmo nel quadro della produzione filosofica significa, soprattutto se questa intenzione proviene da un filosofo appartenente alla scuola fenomenologica, mirare ad un'inclusione del campo delle emozioni all'interno del discorso filosofico e, in definitiva, ad un'estensione del concetto di razionalità. Il contributo di Fink a questo allargamento di orizzonte, che in altre opere egli ha esplicitato soffermandosi su fenomeni dell'esistenza come il gioco, il conflitto, il mito o la gioia, si inscrive nel più ampio quadro delle applicazioni del discorso fenomenologico e presenta come un punto di partenza per riflessioni che possono spaziare dalla filosofia alla poesia, dall'arte alla religione.                  

 


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