Pavel Aleksandrovic Florenskij



di Giulio Mellana



Pavel Aleksandrovic Florenskij (1882-1937) fu filosofo, scienziato, teologo, matematico russo.

Per introdurre il suo pensiero filosofico, segnato dai più diversi interessi, è giusto anteporre delle premesse che permettano di meglio decodificare le linee guida e il sostrato culturale del pensatore russo.

Il segno filosofico generale del pensiero di Florenskij è quello di un certo platonismo, più neoplatonico che prettamente platonico. Mentre Platone sostiene un dualismo, dunque una frattura totale tra questo mondo e quello ideale, il platonismo di Plotino propone un monismo, cioè una tragica distanza tra oggetti su piani ontologici differenti. La seconda prospettiva, quella cioè di un tragico divario ontologico tra elementi di un'unica realtà (neoplatonismo) è quella che maggiormente influenza Florenskij.

Sempre nella suddetta prospettiva neoplatonica, s'inserisce il palamismo. Palamas (1296-1359) fu monaco del Monte Athos nell'Impero bizantino e in seguito Arcivescovo di Tessalonica. Egli elaborò una teologia di matrice neoplatonica, in cui risultavano centrali l'esicasmo (ossia la preghiera del cuore) e la teoria delle energie divine. Energie divine vanno qui intese nel senso etimologico greco di energeia, cioè “attività”, “effetto”. Risulta quindi, agli occhi di Palamas, un mondo interamente pervaso e percorso da attività divine: la luce, il calore, il colore in quanto commistione di ombra e luce, etc. Tale visione della fusiV, s'interseca costantemente con l'esicasmo, cioè quella pratica di preghiera perpetua incentrata sulla ripetizione appena sussurrata, per essere poi del tutto interiorizzata, di una semplice preghiera. A sua volta, l'esicasmo è basato su quell'altra convinzione religioso-filosofica per il cui il nome è centro propulsore dello sviluppo della lingua (“gloria nel nome”). Da qui l'idea che nel nome di Dio c'è Dio in quanto energia, ma non come sostanza; cosa per cui il nome di Dio è Dio, ma Dio non è solo il suo nome.

 

Non è mia intenzione delineare a fondo e totalmente il sistema gnoseologico florenskijano. Mi ha interessato, piuttosto, studiare le forme attraverso le quali è possibile la conoscenza, quali i suoi presupposti e le sue modalità.

Premessa imprescindibile è, per Florenskij, l'esistenza di due mondi: quello invisibile, esperibile empiricamente coi sensi, il mondo dello spazio, del tempo e della quotidianità; e quello invisibile, ontologicamente superiore, caratterizzato da assolutezza divina e trascendenza metafisica. L'impostazione culturale neoplatonica, come accennato precedentemente, non gli fa intendere i due mondi come due diverse realtà distanti ed autosufficienti; per Florenskij sono le due facce complementari di una stessa unica realtà. Nonostante il mondo invisibile, in quanto proprio di Dio, sia ontologicamente superiore, il mondo visibile, giacché abitato dalle energie divine, non risulta affatto annichilito, anzi (qui Florenskij si distanzia dall'impostazione strettamente platonica) è passabile di conoscenza. Lo stesso Florenskij, infatti, si occupò di scienze matematiche e di fisica elettromagnetica, a testimonianza del fatto che il mondo visibile ha il suo valore gnoseologico.

Tuttavia se è possibile una conoscenza del nostro mondo, ciò è reso possibile dall'azione dell'aldilà sull'aldiqua.. Ne consegue che la conoscenza di questo mondo è imprescindibile dalla conoscenza del piano metafisico, che fa da base e da culmine.  Le forze elettromagnetiche, ad esempio, sono energie divine, cioè manifestazioni del mondo invisibile. Anzi, più che manifestazione, sono simbolo.

IL SIMBOLO

 

Il vivo interesse di Florenskij per il simbolo, come sottolinea a più riprese Tagliagambe[1], sorge dall'interrogarsi sul rapporto tra i due mondi. Se Dio agisce sul mondo visibile, ciò significa evidentemente che c'è relazione tra i due piani, c'è, insomma, un continuo rimando. Questa comunicazione intermondana attraversa inevitabilmente il confine che separa i due mondi.

Ma cos'è questo confine? Qual è il suo significato?

Il confine è inteso da Florenskij con un doppio valore. É sia la demarcazione, l'individuazione, la delimitazione delle differenze specifiche: confine ha qui dunque il senso di limite. Oppure confine, per Florenskij, è anche la zona in cui le differenze specifiche si avvicinano, convergono ed entrano in comunicazione: confine, allora, ha anche il valore di contatto. Privilegiando perlopiù la seconda accezione, il filosofo russo giunge a considerare l'esistenza una zona di transizione in cui sfumano progressivamente le differenze specifiche. Per esempio, l'esperienza onirica è un momento in cui colui che sogna entra in contatto con l'invisibile: “Il sogno – ecco il primo e più comune passo della vita [...] verso l'invisibile”[2]. Il fatto, dunque, che il mondo visibile sia “contaminato” di invisibile e viceversa è la base necessaria affinché si possa dire che l'uno è simbolo dell'altro, o meglio: il simbolo si configura come la zona di confine e transizione dall'uno all'altro mondo. In questo senso e solo così possiamo comprendere l'affermazione florenskijana: “Il sogno è un segno del trapasso dall'una all'altra sfera e simbolo. Di che cosa? Visto dall'alto – simbolo di quaggiù; e visto di quaggiù – simbolo dell'alto”[3].

La stessa etimologia del vocabolo rivela la sua natura mediana: il greco sumballein significa “mettere assieme”, “tenere collegati”, “congiungere”. Il simbolo è quindi luogo di tensione tra mondo visibile e mondo invisibile.

Perché un simbolo sia davvero tale, deve soddisfare alcune condizioni (che rimandano alle tesserae hospitales):

-         presenza: è l'esistenza immediatamente presente e concreta dell'oggetto che assume valore simbolico;

-         rottura: indica la frattura che divide l'oggetto dal significato completo;

-         rinvio: è, invece, la tensione dell'oggetto verso la ricomposizione del suo senso complessivo (in seguito, appunto, alla frattura).

 

Nel breve saggio Le porte regali, del 1922, l'analisi metafisico-estetica dell'icona che l'autore propone è incentrata sul ruolo del simbolo. Il saggio mi sembra dunque di grande aiuto per comprendere la natura di quest'ultimo.

Dopo aver introdotto il lettore all'esistenza dei due mondi (visibile e invisibile) complementari di un'unica realtà, Florenskij spiega che l'esperienza terrena è simbolo della vita spirituale, in quanto la realtà invisibile “è più oggettiva delle oggettività terresti, più sostanziale e reale di esse; è il punto d'appoggio dell'opera terrestre”[4]. Le implicazioni gnoseologiche di tale affermazioni non sono irrilevanti: come detto poc'anzi, il visibile empirico è sì passabile di conoscenza, tuttavia tale comprensione va inserita in un'ottica metafisico-religiosa in cui il simbolo svolge un ruolo pressoché dominante.

Da qui, Florenskij distingue due tipologie di volto, a seconda del loro valore conoscitivo: lo sguardo e la maschera. Innanzitutto, per volto s'intende la manifestazione dell'essenza e della potenziale conoscenza insita nel fenomeno studiato. Il volto è “la manifestazione della coscienza diurna”[5], nel senso che è il nostro contatto con l'invisibile in alternativa al sogno (che è, appunto, coscienza notturna). In base alla qualità ontologica e gnoseologica del volto, Florenskij chiama sguardo la manifestazione dell'ontologia, cioè di Dio. É questa una manifestazione pura, per cui il volto realizza “la dignità della sua struttura spirituale”[6]. Il volto si è dunque fatto sguardo, e lo sguardo è somiglianza a Dio palesatasi sul volto. Il volto, quindi, ha senso solo se è sguardo, in quanto solo così è veramente mediatore tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, solo così è simbolo qualitativamente elevato. Al volto come sguardo, Florenskij contrappone la maschera: “è qualcosa che ha una certa somiglianza col volto, che si presenta come volto, ed è preso per tale, ma che dentro è vuoto, sia nel senso materiale, fisico, sia in quanto a sostanza metafisica”[7]. La maschera, dunque, inganna, simula il ruolo di mediatrice tra conoscente e conosciuto, e in realtà non mette in relazione i due elementi, ma li disgiunge. In virtù di questo sua caratteristica disgiuntiva si può affermare che la maschera è diabolica, etimologicamente riconducibile all'antitesi di simbolo: diaballein, “separare”, “disunire”, “mettere in discordia”. Con tali affermazioni, il filosofo russo si pone in aperto contrasto con la tradizione filosofica occidentale, in particolare col kantismo.

La soluzione proposta da Kant per quanto riguarda la conoscenza, nella Critica della ragion pratica,  è quella di un soggetto conoscente non direttamente a contatto con il fenomeno. Questo viene infatti analizzato da apriori che pongono inevitabilmente una distanza tra i due enti. Per altro, il conoscente ha davanti a sé un fenomeno che non rivela il noumeno interno. L'essenza del fenomeno resta, per il kantismo, inconoscibile. Secondo Florenskij, invece, e ciò è evidente, il fenomeno in quanto volto resosi sguardo è rivelazione e manifestazione del noumeno stesso: fenomeno, nella vera conoscenza (quella che non ammette maschere), è simbolo della realtà noumenica e divina che sta alla base del visibile. La conoscenza kantiana, per il pensatore russo, è falsa, si occupa di maschere, ed è quindi diabolica.

 

La comunicazione tra mondo visibile e mondo invisibile non è assicurata solo dalla fede umana in Dio e dalla potenzialità dell'uomo di ascendere al visibile (coscienza notturna e coscienza diurna), bensì l'azione è reciproca. Esistono infatti entità che stanno al confine tra visibile e invisibile, che di per sé sono invisibili: queste sono i santi. I santi sono stati uomini, quindi enti del mondo visibile e carnalmente presenti, che hanno “trasfigurato il corpo e rinnovato la mente”[8] e che ora abitano l'invisibile. E' grazie all'iconostasi che i santi possono guardare il mondo visibile; è grazie all'iconostasi che noi possiamo guardare il mondo invisibile. L'icona, in virtù di questa natura mediana e simbolica, è il confine tra mondo visibile e mondo invisibile. I santi non testimoniano Dio passivamente venendo raffigurati sulla tavola, ma guardano il mondo visibile, compiono attivamente un'azione, e quindi la loro testimonianza non consiste tanto nella presenza quanto nello sguardo. Così come, da parte del fedele, egli può cercare il mondo invisibile non solo stando di fronte all'icona, ma partecipandovi, stando quindi al gioco di sguardi che l'icona invoca. L'icona è quindi simbolo solo se è conforme al loro scopo, ha bisogno cioè che ci sia partecipazione reciproca di visibile e invisibile, di fedeli e santi.

Volendo trasporre queste considerazioni di ordine religioso sul piano gnoseologico, si può affermare che il fenomeno svolge davvero il suo ruolo di manifestazione, dunque di simbolo, solo se permette l'accesso ad una conoscenza vera. Il fenomeno in quanto tale non è autosufficiente, ma necessita del  contatto e del coinvolgimento tanto del noumeno quanto del soggetto conoscente.

L'azione delle icone sul fedele non si limita ad una comunicazione del visibile con l'invisibile, comunicazione che in sé non sarebbe nulla di eccezionale. Il simbolo, che l'icona è, fa di più: come dicono i Santi Padri, nella contemplazione delle icone il fedele “solleva la mente dalle immagini agli archetipi”. Anche in questo caso, la portata gnoseologica della speculazione florenskijana non è indifferente. Il soggetto conoscente, coinvolto e trasportato dal fenomeno-simbolo, comprende l'archetipo che ha prodotto il fenomeno. Ciò significa cogliere, con echi neoplatonici, la sorgente da cui tutto trabocca. Ovvero, quando entriamo in “contatto ontologico con l'archetipo”[9], il segno sensibile non è più rappresentazione, ma svelamento di luce alla coscienza. In questo senso, le icone evocano i propri archetipi, “cioè destano nella coscienza una visione spirituale”[10].

 

Per terminare il discorso sul simbolo, va aggiunto che una prospettiva, quella florenskijana, che tenga conto della comunicazione reciproca, tramite il simbolo, tra mondo visibile e mondo invisibile, non può limitare la propria risorsa gnoseologica alla semplice ascesa dal mondo sensibile a quello trascendente. A tale proposito, mi sembra chiarificante l'esempio dell'attività dell'artista.

L'arte, per Florenskij, non è un semplice atto – per così dire – di libera volontà da parte dell'artista, ma è l'incarnazione di processi complessi e stratificati.

L'arte non è rappresentazione: infatti, in un'ottica metafisica di tale intensità e forza, come sarebbe possibile la trasposizione in caratteri solamente materiali di tratti che sono aldilà del nostro mondo? E ancora, sempre in tale ottica, l'icona è il prodotto della sola azione umana dell'artista o c'è dell'altro?

L'arte è manifestazione: nell'attività artistica l'invisibile s'incarna e, come Cristo, si palesa e si rende visibile. Addirittura, le sante figure delle icone sono immagini che guardano, prima che essere guardate. Scrive Florenskij con vena platonica: “Nella creazione artistica l'anima è sollevata dal mondo terreno ed entra nel mondo celeste. Lì senza immagini si nutre della contemplazione dell'esistenza del mondo celeste, tocca gli eterni movimenti delle cose e, impregnata e carica di conoscenza ritorna al mondo terreno. E tornando giù per la stessa strada arriva alla frontiera della terrestrità, dove il suo acquisto spirituale è investito in immagini simboliche – le stesse che,  fissandosi, formano l'opera d'arte”[11].

Il filosofo russo fa uso anche dei termini nietzscheani dionisiaco e apollineo per spiegare questo doppio movimento: “l'anima si inebria del visibile e, perdendolo di vista, si estasia sul piano dell'invisibile – questa è l'abolizione dionisiaca dei ceppi del visibile. Sollevata che si sia in alto, nell'invisibile, essa cala di nuovo nel visibile e a questo punto le vengono incontro ancora le immagini simboliche del mondo invisibile [...]: questa è la visione apollinea del mondo spirituale[12].

L'attività della creazione artistica, continua Florenskij, è pari ad un sogno sostenuto: con questa similitudine l'autore ci fa capire che, come il sogno è involontario, nel senso che non è comandato dalla nostra volontà, né è consapevole, così anche la creazione artistica ha dell'inconsapevole.

Di conseguenza risultano, nell'attività artistica, fondamentali tanto l'ascesa dell'artista al mondo invisibile degli archetipi e della Verità, quanto il ritorno dell'artista, che è ora impregnato di simboli e di impressioni divine, al mondo sensibile. Quindi, in risposta alla seconda domanda posta poco sopra, l'effettiva azione dell'artista consiste “solo” nella riproduzione a colori della luce divina; l'altra parte del compito è svolto dal mondo invisibile, più propriamente da Dio stesso, che trasporta a sé l'artista, conducendolo ad un'estasi dionisiaca, per poi riportarlo nel mondo sensibile, dove, carico delle impressioni vive del dionisiaco, può finalmente mutare la propria estasi in forme apollinee belle. Belle perché hanno conosciuto la Verità. Belle perché sono simbolo della Verità.

 

 

L'ILLUSIONE

 

In Lo spazio e il tempo nell'arte, Florenskij passa ad analizzare il problema dell'illusione. L'autore inserisce tale studio in una dimensione di più ampio respiro che, avendo di mira il tema della conoscenza in ambito estetica, tratta dell'opera d'arte sotto un profilo di stampo olistico. Per Florenskij, infatti, l'opera d'arte è caratterizzata dalla sottomissione delle parti al tutto e dalla loro interdipendenza. L'opera non è dunque la mera somma delle sue parti, ma è tale che l'insieme degli elementi riuniti acquista senso e valore accresciuti. Ciò significa che se non ci fossero legame e interdipendenza tra le parti, l'opera si ridurrebbe alla pura somma di questi elementi. Ma se l'opera è davvero totalità, “allora non dovrà essere formata passivamente da singoli elementi, ma dovrà dominarli, indirizzarli e farli partecipi della sua interezza”[13]. Se alla totalità compete dominare le parti, queste, dal canto loro, svolgono una funzione da noi percepita come elastica. Ed è grazie alla loro elasticità, al loro piegarsi, che possiamo apprezzare la forza dell'intero.

È la totalità, quindi, l'interesse di Florenskij. Di conseguenza, per accostarsi ad un'opera d'arte, affinché, cioè, il nostro atteggiamento verso questa sia “autentico”, non bisogna assumere uno sguardo analitico, che è invece proprio dell'opinione comune e, in parte, del positivismo. Piuttosto è necessaria quella che Florenskij chiama sintesi percettiva: “tutti gli elementi, qualunque essi siano, devono essere percepiti e valutati nell'intera opera in modo diverso da quello in cui si percepiscono e si valutano gli stessi elementi presi ognuno, separatamente, in sé”[14]. La totalità, come si deduce, è il contesto nel quale le singole parti acquistano un certo significato che, senza il contesto, risulta incomprensibile. La sintesi percettiva è uno strumento formidabile atto a non privare del senso totale l'opera; servendosi di questa tipologia di percezione, gli elementi dell'opera non vengono percepiti come se fossero percepiti separatamente e avulsi dal contesto. Ciò significa che le parti vengono percepite in modo diverse da ciò che sono, cioè le parti non sembrano quello che sono. In breve, si tratta di illusione.

Florenskij, pur conservando il termine illusione, non intende dargli un senso negativo. L'illusione non è qui un “prendersi gioco di”, come suggerirebbe la derivazione latina il-ludo, ma molto più ampiamente e positivamente “ciò che non sembra ciò che è”. Evidentemente, c'è illusione laddove un'interezza sottomette i suoi singoli elementi, in quanto deforma il loro significato originale.

Gli elementi della illusione si dividono in due classi: il fenomeno generale, che predomina sugli altri, e il fenomeno particolare, che si caratterizza per la sua subordinazione al fenomeno dominante. Il fenomeno totale che ne deriva, l'illusione appunto, è definibile come l'interazione nella nostra coscienza tra il fenomeno generale e il fenomeno particolare, in tensione tra loro.

Nella sua analisi dell'illusione, Florenskij si rifà ad uno studio del 1905 di Preobraženskij, il quale indica le tre regole a cui si sottomettono i fenomeni illusori:

1)    Per aumentare l'illusione bisogna aumentare il fenomeno generale in modo da non indebolire il fenomeno particolare.

2)    L'illusione non sparisce ad un'osservazione attenta, anzi aumenta.

3)    L'illusione non è rimossa dalla conoscenza della sua causa.

 

Ora, qui non si vuole fornire, come già detto, l'analisi esaustiva del movimento gnoseologico in gioco, piuttosto studiarne le problematiche e le implicazioni teoretiche.

La comprensione comune è poco interessata alla sintesi percettiva, cosicché quando s'imbatte in una illusione la considera un'eccezione e una rarità rispetto allo schema generale a cui fanno riferimento perlopiù i fenomeni. Ma in realtà, un punto di vista che consideri la sintesi delle percezioni uno strumento d'indagine basilare trova che l'intera realtà è una illusione. Non nel senso plotiniano di sortilegio, piuttosto il mondo come illusione ci rimanda a quella stratificazione di senso e alla paradossalità del reale, come lo studio precedente sul simbolo ha voluto mostrare.

Intendere il mondo come una illusione significa, assumendo una formula matematizzante, che il fenomeno A in un certo contesto significa X e in un altro può voler dire Y. Cioè, in breve,  A = X ma anche A = Y, e ciò senza che nessuna delle due sia erronea, e senza che nessuna delle due sia “più vera” dell'altra.

 

In definitiva, l'atteggiamento che il soggetto conoscente deve sostenere di fronte all'oggetto conosciuto, nel caso di una illusione, è quello di considerarlo all'ordine del giorno. Cioè, il fenomeno illusorio non deve mettere in crisi, né “intimorire” gli schemi più comuni con cui leggiamo la realtà. “Dal momento che tocca al pensiero scontrarsi con fenomeni che non è possibile deformare secondo un modello prestabilito, questi si aggrappa allo schema precostituito, giudicando il fenomeno che non gli si sottomette come un fenomeno assolutamente particolare”[15].

LA VERITA'

 

Come si è detto poc'anzi, il fenomeno illusorio può far sì che a=x e a=y, senza che una delle due uguaglianze prevalga sull'altra. Tuttavia, per comprendere il significato di verità in Florenskij è bene anche tener fermo il concetto di simbolo e la sua struttura logica intimamente antinomica, perché composta da due poli differenti. Solo avendo chiara la doppia antinomia, quella del simbolo e quella dell'illusione, è possibile comprendere perché “la verità è contraddizione per il raziocinio, contraddizione che diventa evidente appena la verità riceve formulazione verbale”[16].

Seguendo l'impostazione data al medesimo tema da Tagliagambe (impostazione per altro data anche dallo stesso Florenskij), è utile approfondire il rapporto che le tre maggiori culture antiche avevano stabilito con la verità.

Presso i Greci, la verità era indicata col termine αλήθεια, cioè ciò che non è soggetto all'oblio, ciò che non è soggetto alla perdita di coscienza e conoscenza dopo la morte, perché non immerso nel fiume Lete (che, per l'appunto, significa Oblio). L'αλήθεια, per tanto, non è soggetta al divenire. Ma non sta a significare originariamente qualcosa di assoluto, piuttosto è lo sforzo umano di opporre una barriera al πάντα ῥεῖ costante. Verità è quindi intesa come memoria eterna.

La veritas dei latini, invece, introdotto nella filosofia da Cicerone, è di derivazione giuridica e sta ad indicare la reale situazione dei fatti, contrapposta ad una delle due versioni dei fatti. Al senso giuridico è quindi anche accostato un senso morale.

Gli antichi Ebrei, invece, rifacendosi ai testi biblici associano la verità alla parola di Dio; questo porta a considerare verità la fede in Dio, cioè è verità la fede nella verità. In quanto Dio si è rivelato tramite alcuni profeti (Mosè, ad esempio), verità è anche un concetto storico, oltre che sacrale.

 

Diversamente da queste culture, la tradizione russa adotta istina per delineare il concetto di verità. Istina, etimologicamente, è riconducibile ad est', infinito del verbo “essere”; pertanto la verità è connotata in senso ontologico, e non staticamente, ma come qualcosa di vivo e perdurante, sicuramente intrecciato all'idea di Sofia.

Dal momento che nella cultura russa verità non è associata ad concetto di staticità, bensì di movimento vivo, Florenskij rifiuta i due principi basilari della logica occidentale: il principio di identità e il principio di non contraddizione. Questo è stato già implicitamente accennato con l'ambivalenza del fenomeno A in materia di illusione; ora risulta ancor più evidente. I principi logici occidentali sono tautologie, per cui A = A e A non-A. Ma le tautologie non possono che esprimere staticità, in quanto “qualcosa è perché è” oppure “qualcosa è perché non è qualcos'altro”, il che non aggiunge nulla ma semplicemente ribadisce constatando. Florenskij individua la causa dell'impostazione tautologica nella concezione del linguaggio: il kantismo (ovvero l'Occidente) considera il linguaggio immanente ed autonomo, cioè indipendente dallo stato di cose del mondo. Ne scaturisce una condizione per cui è all'interno delle proposizioni stesse che bisogna cercare la verità. Di avviso opposto, Florenskij considera il linguaggio come parte integrante della realtà, come manifestazione della vita spirituale (la sua filosofia del linguaggio ha come presupposto, infatti, la filosofia del nome), per cui il linguaggio non è avulso dal contesto spazio-temporale. Le tautologie reggono finché sono considerate in se stesse come sistemi chiusi; ma il linguaggio è simbolo del mondo, per tanto appena si cerca di dimostrare empiricamente tali tautologie, queste crollano, perché distanti dalla realtà.

Inoltre, per Florenskij, il linguaggio ha la caratteristica di non dire come sta la realtà, ma di prospettare le modalità alternative possibili. Risulta quindi fondamentale che il linguaggio prospetti letture del mondo antinomiche, cioè proponga letture contrarie l'una all'altra: “ecco perché la legge d'identità, che pretende di essere un fondamento assoluto e universale di ogni intuizione, è in realtà infranta e contraddetta da ogni intuizione reale”[17]. Così, continua Tagliagambe, “A, escludendo tutti gli altri elementi, viene escluso da tutti questi, in quanto se ognuno di essi per A è soltanto 'non-A', anche A rispetto a 'non-A' è soltanto non-'non-A'”[18].

Da qui possiamo dedurre un'idea di verità come un concetto capace ci accogliere in sé tutte le eventuali contraddizioni. Insomma, verità è un giudizio autocontraddittorio.

Tutto sommato, resta ancora da “materializzare” una siffatta verità, cioè capire come disporne concretamente. Per questo passo, Florenskij si appella al matematico Cantor, il quale, dopo una complessa dimostrazione matematica sull'infinito, giunge a considerare “qualcosa di essenzialmente nuovo”: la novità consiste in uno spostamento di livello, dal piano razionale a quello che trascendente le facoltà intellettive umane. Per accostarsi al fenomeno della verità è necessario, dunque, l'irrazionale, inteso come “atto creativo dello spirito”[19]. Allora la verità è un atto non solo di comprensione intellettiva, ma anche di vera e propria esperienza.

Come detto, la verità non ha nulla a che fare col raziocinio, è bensì una questione irrazionale (che qui vale per “vita spirituale”). Si pensi, infatti, che la Verità delle verità, cioè la Verità assoluta che sta a fondamento di tutto è il dogma della Trinità, per cui “la Trinità è nell'Unità, come l'Unità è nella Trinità”. È una verità che va oltre la logica umana. Per questo, la verità è sì discorso, nel senso di argomentazione, in cui trovano posto le 'tautologie occidentali', ma il passaggio finale, come nel miglior neoplatonismo, è un'intuizione che non ha nulla da spartire col raziocinio.

 

 

Ho voluto studiare la gnoseologia florenskijana in un percorso che si snodasse tra simbolo, illusione e verità, in quanto questi tre elementi riescono bene a delineare il problema della conoscenza, e quanto tale problema sia ricco di ambiguità.

Col simbolo ho voluto descrivere la problematicità e la non linearità del processo gnoseologico: l'ascesa al mondo invisibile non è completa senza la discesa al mondo visibile. Non è un processo unidirezionale, ma, appunto, complesso.

L'illusione, invece, ha proposto in maniera insolita la lettura della stratificazione di senso nella realtà: A=X e A=Y senza che, tuttavia, ciò risulti sbagliato. Ciò si scontra con la ragione umana, ma non è erroneo. Con questo, quindi, Florenskij vuole anche suggerire che sbaglia il kantismo nella sua cieca fiducia nella ragione umana: facendo ciò, la filosofia occidentale vuole fondare l'io sull'io stesso con falsi razionalismi. Florenskij è di un'opinione meno celebrativa della ragione, per cui un fenomeno può essere vero senza che tuttavia la ragione lo riconosca.

La parte finale, sulla verità, la parte a mio avviso un po' più tecnica, voleva mostrare come il concetto di Verità assoluta si sposasse, in Florenskij, con l'idea di autocontraddizione.

 

La ragione umana si trova in una realtà composta dal mondo visibile e dal mondo invisibile, realtà abitata da energie divine e da Dio stesso, realtà in cui la conoscenza è una questione primariamente simbolica e solo in un secondo tempo razionale, realtà in cui l'illusione è quotidiana, realtà in cui la i principi logici reggono finché reggono, per poi essere suppliti dall'irrazionalità.

 



[1]   S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, 2006, Bompiani.

[2]   P. A. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull'icona, a cura di Elémir Zolla, 2007, Adelphi, p. 20.

[3]   Ibidem, p. 33.

[4]   Ibidem, p. 42.                                                                                                                  

[5]    Ibidem, p. 42.

[6]   Ibidem, p. 44.

[7]   Ibidem, p. 45.

[8]   Ibidem, p. 54.

[9]   Ibidem, p. 66.

[10] Ibidem, p. 69.

[11] Ibidem, p. 34.

[12] Ibidem, pp. 35-36.

[13] P. A. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell'arte, a cura di N. Misler, Adelphi, 2001.

[14] Ibidem, p. 205.

[15] Ibidem, p. 215.

[16] P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, p. 206 citato in S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij.

[17] S. Tagliagambe, Come leggere Florenskij, p. 145.

[18] Ibidem, p. 146.

[19] P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, p. 579, citato in Tagliagambe, Come leggere Florenskij.



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