Introduzione
Nell'introduzione all' “
Archeologia del sapere ”, Foucault osserva che a poco a poco nel lavoro
degli storici si è realizzato uno spostamento dell'attenzione: dalla ricerca
delle vaste unità che si descrivevano come "epoche" o "secoli" verso i "fenomeni
di rottura". Il grande problema che si apre in ogni analisi non è più quello di
rintracciare una tradizione compatta, un unico disegno sottesi alla molteplicità
degli eventi, “ ma quello della frattura e del limite, non più quello del
fondamento che si perpetua, ma quello delle trasformazioni che valgono come
fondazione e rinnovamento delle fondazioni ”. Questa posizione comporta una
serie di conseguenze. Innanzitutto Foucault parla di un “ effetto di
superficie ”, ossia del moltiplicarsi delle fratture nella storia delle
idee ("effetto di superficie" nel senso che non bisogna andare alla ricerca di
qualcosa di più profondo e veritiero rispetto a ciò che appare appunto alla
superficie, ma proprio dei diversi livelli, delle varie relazioni che compaiono
in superficie): il metodo proposto implica l'impossibilità di individuare una
lineare catena di cause per definire le relazioni tra i fatti. Ciò che si
presenta al nostro sguardo sono invece delle serie di avvenimenti di cui
dobbiamo definire di volta in volta gli elementi, i limiti, i rapporti. Ciò
conduce alla denuncia di qualsiasi ricerca storica che chiami in causa la
cronologia continua della ragione, il continuismo fondato sull'idea di una
coscienza che produce e progredisce linearmente. Foucault introduce poi la
nozione di " discontinuità ". Se per la storia classica la discontinuità
coincide con l'insieme di avvenimenti dispersi - dal punto di vista della loro
collocazione temporale e del loro senso - che devono venire delimitati e
ricompresi nell'orizzonte di una continuità progressiva, ora invece essa è
intesa come l'oggetto di studio liberato da qualsiasi pretesa teleologica e,
contemporaneamente, come lo strumento stesso della ricerca: essa diventa quasi
un concetto operativo. E' la stessa discontinuità che individua le diverse aree
da studiare, che “ delimita il campo di cui rappresenta l'effetto ”.
Inizia perciò a perdere forza il progetto di una "storia globale", ossia di
quella storia che vuole rintracciare il significato comune alla base di tutti
gli avvenimenti di uno stesso periodo, una rete fissa di causalità capace di
spiegare linearmente i fatti. Alla storia come continuum narrativo-documentario
si oppone la " storia generale " che problematizza gli scarti, le
fratture, i diversi tipi di relazione esistenti; che rifiuta di riportare i
fenomeni ad un unico centro, ad un'unica visione del mondo, ma che “ dovrebbe
invece mostrare tutto lo spazio di una dispersione ”. Ciò che finora ha
ostacolato lo sviluppo di una "storia generale" è stata la paura di veder
frantumata la sovranità della coscienza. La storia alla ricerca della
continuità, dell'origine e del principio unico ha garantito la sovranità della
coscienza umana, restituendo ad essa, sotto forma di coscienza storica, l'unità
ed il dominio su tutto ciò che appariva lontano, indipendente da essa: “ fare
dell'analisi storica il discorso della continuità e fare della coscienza umana
il soggetto originario di ogni divenire e di ogni pratica, costituiscono i due
aspetti di uno stesso sistema di pensiero ”. Sono state le ricerche della
psicanalisi, della linguistica e dell'etnologia, dopo il colpo mortale inferto
dalla genealogia nietzschiana, a decentrare ulteriormente il soggetto dal suo
luogo di signore della storia, della natura, dei suoi desideri, del suo
linguaggio e a metterne in crisi la presunta attività sintetica. Si colloca in
questo orizzonte il progetto dell' “Archeologia del sapere”: Foucault tenta di
individuare le trasformazioni nel campo della storia, eliminando quella che
definisce la "soggezione antropologica", ossia quel riferimento alla funzione
fondatrice del soggetto come custode di nozioni quali quelle di tradizione,
sviluppo, evoluzione, spirito, autore, opera finalizzate a costruire delle
sintesi poste sotto il segno dell'identità, dell'unità e della continuità.
Queste sintesi sono in realtà delle costruzioni che devono venire
problematizzate, attraverso un movimento che riconduca i concetti dal piano
della produzione ideale a quello dei sistemi enunciativi che ne producono la
formulazione. Il terreno in cui si muove Foucault è dunque quello dei discorsi,
scritti e pronunciati: ma non dei discorsi intesi come il risultato ultimo di
un'elaborazione linguistica e teorica che avverrebbe altrove (nel campo della
lingua o del pensiero), ma come sistemi caratterizzati da precise regole di
emergenza e di esistenza che esercitano una funzione concreta nella storia delle
idee e delle istituzioni. La teoria dell'enunciato arriverà a scardinare i
comuni concetti di soggettività, scienza, storia, mostrando il loro reale
terreno di radicamento e le loro regole di esistenza. Vedremo in seguito come
Foucault approfondisca e precisi sempre più il concetto di enunciato e di
sistema enunciativo. In quale modo spiegare però un tale spostamento teorico? Se
queste sintesi non sono evidenti, e neppure posseggono una struttura concettuale
rigorosa, ma esercitano una funzione ben precisa, sarà allora necessario
individuarne le condizioni di emergenza e le regole di esistenza e
funzionamento. Solo mettendo in questione queste forme "immediate" di
continuità, si libera “ tutta una folla di avvenimenti nello spazio del
discorso… Si delinea in tal modo il progetto di una descrizione pura degli
avvenimenti discorsivi come orizzonte per la ricerca delle unità che vi si
formano ”.
1. Le regolarità discorsive
1.1. Le unità del discorso
Il progetto di
Foucault si presenta quindi come un lavoro negativo teso a smascherare la vera
natura di quei concetti che da sempre hanno costituito il fulcro del tema della
continuità:
Ci sono inoltre due altre unità concettuali, che a prima vista appaiono come le più immediate da accettare, che bisogna smontare: la nozione di " libro " e quella di " opera ". Il libro è un'unità materiale ed economica debole che rimanda sempre ad altri testi, ad altre frasi, che si costituisce quasi come il nodo di un reticolo, a partire da un complesso campo del discorso. L'opera, come somma di testi, viene pensata come l'espressione del pensiero, dell'esperienza, dell'immaginazione, dell'inconscio del suo autore. Ma questa unità non è assolutamente evidente ed immediata, e tanto meno omogenea: essa si costituisce piuttosto a partire da un'operazione interpretativa. Secondo Foucault è necessario abbandonare due atteggiamenti: il primo che va alla ricerca di un'origine segreta e che così rifiuta la possibilità dell'irruzione improvvisa degli avvenimenti; il secondo, collegato al precedente, che cerca di rinvenire dietro ad ogni discorso manifesto un "non detto" che lo condannerebbe ad essere sempre interpretazione di altro. Bisogna, invece, accogliere gli eventi e i discorsi nel momento del loro apparire, accettare la loro irruzione: “ non bisogna rimandare il discorso alla lontana presenza dell'origine; bisogna affrontarlo nel meccanismo della sua istanza ”. Questo significa che il piano dell'indagine si sposta verso l'analisi di queste costruzioni, verso la domanda che chiede ragione delle regole e delle condizioni della loro emergenza ed esistenza, verso il campo dei fatti discorsivi a partire da cui esse si sono costituite. Se Foucault si propone di affrontare il discorso nella limitatezza e singolarità del suo essere evento, ossia cogliendolo nel momento stesso del suo farsi realtà, allora l'attenzione dovrà necessariamente spostarsi sui meccanismi della sua emergenza ed esistenza, bisognerà cioè occuparsi degli enunciati effettivi che sono comparsi, ossia dell'insieme finito e concretamente individuato degli enunciati che sono stati formulati. Questo programma non coincide con quello che appartiene all'analisi della lingua: la lingua è infatti un insieme finito di regole che permettono un numero infinito di produzioni. Il campo degli eventi discorsivi, invece, rappresenta “ l'insieme sempre finito e attualmente limitato delle sole sequenze linguistiche che siano state formulate ”. Anche le domande che i due campi di analisi si pongono sono profondamente diverse: mentre l'analisi della lingua si chiede quali sono state le regole di costruzione di un determinato enunciato e come, quindi, a partire da esse sia possibile costruire altri enunciati simili, la descrizione degli eventi discorsivi si chiede come mai sia apparso in un certo momento proprio un determinato enunciato e non un altro, ossia qual è la ragione della sua comparsa, della sua esistenza. È per questo che l'analisi del campo discorsivo si differenzia dalla storia del pensiero: mentre questa va alla ricerca dell'intenzione di un soggetto parlante o dell'attività inconscia che è all'origine di una certa produzione, l'altra tenta di studiare l'enunciato nella singolarità e nelle condizioni del suo emergere, delimitandone lo spazio effettivo di esistenza, individuando le sue relazioni con gli altri enunciati e rispondendo, perciò, ad una precisa domanda: “ qual è dunque quella esistenza singolare che viene alla luce in quello che si dice, e non mai altrove? ”. Cercare di cogliere quella che è stata definita la "singolarità" di un enunciato non significa, però, isolarlo facendone quasi una nuova unità autonoma o cercando in esso un qualche discorso segreto, ma significa, invece, poterlo descrivere nei meccanismi di relazioni in esso e fuori di esso. Ma come scampare al pericolo che sembra sempre incombente di riutilizzare quelle stesse categorie che abbiamo sottoposto a profonda critica? Come essere certi che non ci riferiremo nuovamente alle nozioni di opera, autore, spirito, evoluzione, insomma a tutte le vecchie categorie antropologiche? Secondo l'autore, l'unico modo, forse, per sottrarsi a questa tirannia consiste nell'analizzare gli enunciati attraverso i quali queste stesse categorie si sono costituite, “ l'insieme degli enunciati che hanno scelto come oggetto il soggetto dei discorsi (il loro soggetto) e si sono messi ad analizzarlo come campo di conoscenza ” . Si spiega così la preferenza, comunque provvisoria, accordata da Foucault ai discorsi appartenenti al campo delle "scienze dell'uomo": in esse i differenti enunciati sembrano mostrare più chiaramente le relazioni che li legano; l'analisi di ampi campi del sapere pare favorire la rinuncia alle cosiddette "categorie antropologiche"; e, infine, il soggetto dei discorsi si trasforma in oggetto da studiare. Iniziamo allora a vedere più da vicino che cosa sono queste formazioni discorsive.
1.2. Le formazioni discorsive
Nella descrizione
degli enunciati si presentano subito una serie di problemi. Quando si parla di
quelle unità come la grammatica, la medicina, l'economia politica, a cosa ci si
sta effettivamente riferendo? Che tipo di legami si instaurano tra gli enunciati
che le contraddistinguono? La prima ipotesi ritiene che diversi enunciati
formino un unico insieme in quanto si riferiscono ad uno stesso oggetto, ad
esempio l'oggetto "pazzia" per la psicopatologia. Ma si tratta sempre e
veramente dello stesso oggetto? Secondo Foucault questa convinzione è frutto di
una pura illusione, in quanto ogni oggetto di cui parliamo si forma in modo
diverso a seconda degli enunciati che lo nominano, lo spiegano, lo delimitano.
Il problema subisce quindi una curvatura: non consiste più nella ricerca
dell'unicità e della persistenza di un oggetto, ma nell'individuazione “
dello spazio in cui si profilano e continuamente si trasformano diversi
oggetti ”. Quindi l'unità di un discorso non si baserebbe più sull'esistenza
di un oggetto determinato e classificato una volta per tutte, ma consisterebbe
nel "meccanismo delle regole che rendono possibile per un dato periodo la
comparsa di oggetti" (oggetti individuati, quindi, da meccanismi di repressione,
da pratiche quotidiane, dalle regole della giurisprudenza, ecc.). E allora
descrivere un insieme di enunciati assume paradossalmente la forma di una
descrizione della loro "dispersione", ossia delle trasformazioni che si
producono nella loro presunta identità nel corso del tempo. La seconda ipotesi
individua l'unità di un gruppo di enunciati nella loro "forma" o
"concatenazione", ossia nel loro comune riferimento ad uno stesso vocabolario,
ad un medesimo stile enunciativo, ad una stessa modalità di guardare le cose
ossia di stile percettivo. In realtà si deve abbandonare anche questa ipotesi
perché continuamente cambiano le scale di riferimento, i tipi di sguardo verso
gli oggetti, i sistemi di informazione. Altra ipotesi: gli enunciati potrebbero
avere il loro filo conduttore nei concetti permanenti e coerenti da essi
utilizzati. Ma se ad esempio pensiamo ai concetti utilizzati dalla grammatica,
vediamo che nozioni come quelle di soggetto, attributo, verbo, parola,
sufficienti forse per descrivere le analisi fatte dagli autori di Port-Royal,
risultano addirittura incompatibili con gli studi successivi. Forse tale unità
non è tanto da cercare nella permanenza dei concetti, nella loro architettura
più o meno nascosta, quanto nella loro differenza, distanza, nell'analisi di ciò
che Foucault definisce "il meccanismo delle loro apparizioni e della loro
dispersione" . Ultima ipotesi proposta è quella della ricerca della persistenza
e identità dei temi. In realtà ad un'attenta analisi, considerando ad esempio il
tema evoluzionista, si scopre che lo stesso tema conduce a discorsi differenti
(il tema evoluzionista nel XVIII secolo considerava come centrale il continuum
della specie prestabilito fin dall'inizio o costituito nel tempo; lo stessa tema
nel XIX secolo partiva, invece, dalla descrizione di gruppi discontinui e dalle
modalità di interazione tra organismi simili e l'ambiente circostante). Forse
non nella persistenza dei temi, ma proprio nella descrizione di questi momenti
di rottura, di dispersione, si possono individuare delle correlazioni fra gli
enunciati, uno spazio comune, un collegamento nelle loro trasformazioni. Nel
caso in cui si possa descrivere un simile sistema di dispersione, individuandone
le regolarità - un ordine, delle trasformazioni, delle correlazioni, dei
funzionamenti -, allora avremo di fronte una formazione discorsiva. Le
condizioni di esistenza a cui rispondono gli elementi di questo insieme saranno
le regole di formazione che caratterizzano una data ripartizione discorsiva.
Questo è il campo che Foucault si propone di studiare.
1.3. La formazione degli oggetti
A questo punto
è necessario riempire queste regole di formazione con dei contenuti, per capire
quali sono state le modalità di comparsa degli oggetti, le ragioni della loro
esistenza come oggetti di discorso. Foucault parla innanzitutto di "superfici di
emergenza" dei concetti che cambiano a seconda delle epoche; poi di "istanze di
delimitazione", riferendosi ai vari campi del sapere che individuano in modo
differente e così delimitano gli oggetti; e infine di "griglie di
specificazione", ossia di quei "contenitori" a cui ci si riferisce parlando di
un certo oggetto (ad esempio l'anima, il corpo, la vita e la storia degli
uomini, i meccanismi delle correlazioni neuro-psicologiche come griglie del
discorso psichiatrico del XIX secolo). Ma il discorso non coincide solamente con
il luogo in cui si sovrappongono e si incontrano degli oggetti già
precedentemente strutturati: "l'oggetto non aspetta nel limbo l'ordine che lo
libererà e gli permetterà di incarnarsi in una visibile e loquace oggettività;
non preesiste a se stesso, quasi fosse trattenuto da qualche ostacolo alle
soglie della luce. Esiste nelle positive condizioni di un complesso ventaglio di
rapporti". Queste relazioni, in cui emergono le condizioni di esistenza degli
oggetti e che si stabiliscono tra istituzioni, processi economici e sociali,
forme di comportamento, norme, ecc., non determinano l'oggetto nella sua trama
interna, non ne definiscono la razionalità immanente, ma ciò che permette ad
esso di apparire e di apparire in quel determinato modo. Le relazioni
discorsive, allora, non sono qualcosa di interno al discorso, quasi
un'architettura o una gerarchia che si instaura tra le proposizioni; ma non sono
neppure esterne, quasi fossero delle forme di costrizione applicate al discorso:
esse caratterizzano, invece, il discorso in quanto pratica, ossia "determinano
il fascio di rapporti che il discorso deve effettuare per poter parlare di
questi e di quegli oggetti, per poterli trattare, nominare, analizzare,
classificare, spiegare, ecc." . Questo non significa cercare oltre il discorso,
fare di esso il segno di qualcos'altro, ma anzi farlo emergere in tutta la sua
ricca complessità: dimenticare in qualche modo le cose che si darebbero prima
del discorso, a favore delle formazioni degli oggetti che si danno, invece, solo
al suo interno; non considerare insomma solo i significati degli oggetti
stabiliti dai soggetti parlanti, ma la pratica discorsiva come luogo in cui si
forma e si deforma, compare e scompare un certo insieme di oggetti. Il compito
che Foucault si propone, dunque, è quello di mostrare che i discorsi non sono un
semplice intreccio di cose e parole, di realtà e lingua. Analizzando i discorsi
si scopre l'esistenza di un insieme di regole che non concernono la muta realtà
degli oggetti, ma il loro stesso regime di esistenza: ciò significa non poter
più considerare i discorsi come un insieme di segni che si riferiscono a dei
contenuti o a delle rappresentazioni già date, ma come delle pratiche che
formano gli stessi oggetti di cui parlano.
1.4. La formazione delle modalità
enunciative
Quali sono le domande che bisogna porsi per trovare le
leggi degli enunciati?
a) Chi parla? Ossia qual è lo status - legato alle competenze - posseduto da
coloro che sono autorizzati a pronunciare un certo discorso?
b) Quali sono
le posizioni istituzionali da cui le persone tengono i loro discorsi (ad esempio
l'ospedale pubblico o l'ambulatorio privato per il medico)?
c) Quali sono le
posizioni dei soggetti in rapporto ai campi o ai gruppi di oggetti (soggetti che
parlano, che guardano, che ascoltano, che utilizzano determinati strumenti,
ecc.)?
Come si vede dal tipo di domande formulate, non si possono riferire le differenti modalità di enunciazione all'unità del soggetto e alla sua sintesi unificatrice; anzi, i diversi enunciati rimandano piuttosto alla sua "dispersione", alla differenziazione continua dei piani da cui esso parla: "perciò rinunceremo a vedere nel discorso un fenomeno di espressione, la traduzione verbale di una sintesi operata altrove, vi cercheremo piuttosto un campo di regolarità per diverse posizioni di soggettività". Se quindi né le parole né le cose possono definire una formazione discorsiva, adesso possiamo anche affermare che neppure il ricorso a una soggettività psicologica o a un soggetto trascendentale è in grado di definire il regime delle enunciazioni.
1.5. La formazione dei concetti
Il problema
ancora una volta non è tanto quello di costruire un edificio i cui mattoni
sarebbero i concetti, quanto quello di descrivere l'organizzazione del campo di
enunciati in cui i concetti compaiono. Foucault individua alcuni piani di questa
organizzazione/descrizione:
a) le forme di successione, ossia i diversi tipi di dipendenza degli
enunciati (ipotesi-verifica, legge-applicazione, ecc.), gli schemi retorici
secondo cui si combinano gli enunciati (rapporti di dipendenza, deduzione,
ecc.);
b) le forme di coesistenza (enunciati già formulati che vengono
ripresi o rifiutati o accettati implicitamente);
c) le procedure
d'intervento che si applicano ai vari enunciati sotto forma di tecniche di
riscrittura di enunciati già esistenti adottando altri schemi o quadri
classificatori, di metodi di trascrizione secondo linguaggi più o meno
formalizzati, di modi di traduzione degli enunciati qualitativi in quantitativi
e viceversa.
Sono tutti questi elementi che concorrono a costruire una formazione concettuale. Ma ancora una volta Foucault precisa che attraverso essi non si ricostruisce la genesi dei concetti nello spirito degli uomini o la loro articolazione interna, quanto la loro dispersione in opere e testi, dispersione che definisce tra i concetti relazioni di deduzione, coerenza, incompatibilità, esclusione, ecc.: "una simile analisi concerne […] il campo in cui i concetti possono coesistere e le regole a cui questo campo è soggetto" , non rimandando quindi a un orizzonte di idealità posto o scoperto da un gesto fondatore e neppure ad un a priori collocato ai confini della storia, ma allo spazio di emergenza, di formazione dei concetti e alle regole effettivamente in funzione che caratterizzano una pratica discorsiva. Le regole di cui parliamo si collocano quindi nel discorso stesso, nella sua determinata e specifica realtà, senza rimandare ad alcun orizzonte ideale.
1.6. La formazione delle strategie
Le
"strategie" sono delle organizzazioni di concetti; potremmo pensare ad esse come
ad una sorta di temi e teorie, che sorgono all'interno di certi discorsi: ad
esempio la grammatica del XVIII secolo diede luogo al tema della lingua
originaria, la fonologia del XIX secolo al tema della parentela tra tutte le
lingue indoeuropee. In che modo sorgono e si distribuiscono nella storia queste
"strategie"? È una necessità che le fa sorgere o si tratta di incontri casuali
tra diverse idee? Anche in questo caso Foucault afferma che dietro esse non
esiste una scelta originaria, un progetto unitario che determinerebbe in
anticipo i discorsi e i temi: bisogna invece mostrare come esse derivino, pur
nella loro diversità, da uno stesso meccanismo di relazioni, come siano modi
differenti di trattare gli stessi oggetti del discorso.
1.7. Osservazioni e conseguenze
L'obiezione che può venire immediatamente avanzata a questo discorso riguarda proprio il tema dell'unità: se fin dall'inizio ci si è mossi nella direzione della critica alle sintesi operate dal pensiero, non tanto per proibirle, quanto per descriverne la formazione, perché introdurre nuovi tipi di unità, di raggruppamenti? E non si era inoltre affermato che in discorsi come quelli della medicina clinica o dell'economia politica ci si imbatteva piuttosto in una dispersione di elementi? Il fulcro della risposta sta proprio nella nozione di dispersione: se essa viene descritta nella sua singolarità, l'unità che allora si individua non risiede in una sorta di coerenza visibile degli elementi che la compongono, ma nel sistema che rende possibile e governa la formazione dei suoi stessi elementi (le scelte strategiche, i concetti, le modalità di enunciazione), nel loro essere posti in una determinata relazione da parte della pratica discorsiva. Questi sistemi di formazione non sono delle gabbie originate dai pensieri e dalle rappresentazioni degli uomini e neppure sono delle determinazioni che si formano nei diversi campi del sapere e che costringono, quasi dal di fuori, il discorso: essi, al contrario, sono insiti nel discorso stesso. "Per sistema di formazione si deve dunque intendere un complesso fascio di relazioni che funzionano come regola: esso prescrive ciò che si è dovuto mettere in rapporto, in una pratica discorsiva, perché essa si riferisca a questo e a quell'oggetto, perché essa faccia intervenire questa e quella enunciazione, perché essa utilizzi questo e quel concetto, perché essa organizzi questa e quella strategia." (p. 98). L'analisi delle formazioni discorsive si distingue, pertanto, da tutti gli altri tipi di descrizioni, in quanto non ricerca ciò che dovrebbe stare, nascosto, dietro o oltre i discorsi, racchiuso in una sorta di silenzio pre-discorsivo, appartenente al puro pensiero o ad una pura coscienza che poi lo trascriverebbero sulla superficie del discorso: questo genere di analisi rimane, invece, nella dimensione del discorso, definendo le regole che esso applica in quanto pratica e scoprendo non "la vita ribollente, la vita non ancora catturata, ma un immenso spessore di sistematicità, un folto insieme di molteplici relazioni."
2. L'enunciato e l'archivio
2.1. definire l'enunciato 2.2. La funzione enunciativa Non esiste quindi alcun enunciato che si trovi libero da tutto un campo di
coesistenza, di funzioni, di ruoli; ed ogni frase ed ogni proposizione non
possono venire analizzate se non a partire dal campo enunciativo in cui
esistono. Ultima condizione affinché una sequenza di segni linguistici possa
essere considerata un enunciato è che essa deve avere un'esistenza materiale.
L'enunciato ha sempre bisogno di una voce che lo articoli, di una memoria, di
uno spazio dove esistere ed è proprio questa materialità dell'enunciato che fa
sì che una frase cambi a seconda che compaia in una pagina stampata, sia
pronunciata da una voce, ecc. Parlando di materialità dell'enunciato Foucault
non si riferisce alla materialità sensibile (ad esempio le diverse edizioni di
un libro o le diverse copie di una stessa edizione non danno luogo a differenti
enunciati), ma ad un più complesso regime di istituzioni materiali. Facciamo
degli esempi: un enunciato può essere lo stesso se scritto su un manoscritto o
pubblicato in un libro; non è più lo stesso quando un romanziere pronuncia una
frase nella vita quotidiana e poi la attribuisce ad un personaggio in un libro.
Con questo Foucault intende dire che la materialità di un enunciato non è da
riportare tanto alle coordinate spazio-temporali, quanto piuttosto all'ordine
dell'istituzione che definisce le possibilità di trascrizione e di reiscrizione
(la stessa frase "i sogni realizzano i desideri" non costituisce lo stesso
enunciato in Platone e in Freud; e al contrario un testo in inglese e lo stesso
testo tradotto in un'altra lingua costituiscono lo stesso enunciato). Ancora una
volta appare la fondamentale importanza di saper collocare un enunciato in un
determinato campo di utilizzazione, saper individuare i modi e le condizioni
della sua ripetibilità, il suo statuto, il reticolo di relazioni in cui vive e
in cui la sua identità si conserva o scompare.
2.3. La descrizione degli enunciati Ciò che Foucault si propone di dimostrare è che quello che finora ha chiamato
formazione discorsiva è la legge degli enunciati, della loro dispersione e
ripartizione e che quindi il termine discorso costituisce "l'insieme degli
enunciati che appartengono a uno stesso sistema di formazione; in questo modo
potrò parlare di discorso clinico, di discorso economico, di discorso della
storia naturale, di discorso psichiatrico" . b) Descrivere un enunciato
significa allora non isolare un elemento come si può fare con una proposizione,
ma individuare le condizioni di attuazione di una funzione che ha dato luogo ad
una serie specifica di segni. Ma come ci appare l'enunciato? Foucault afferma
che esso è contemporaneamente non visibile e non nascosto: non nascosto perché
caratterizza le modalità di esistenza di un insieme di segni effettivamente
prodotti a cui si chiede non ciò che non hanno detto o che tengono celato, "ma
in che modo esistano, che cosa significhi per loro esser state manifestate, aver
lasciato delle tracce e forse restare lì per una eventuale riutilizzazione, che
cosa significhi per loro essere apparse proprio loro, e nessun'altra al loro
posto" : ciò che si guarda è insomma l'evidenza del linguaggio effettivo (e se
anche scopriamo più sensi e significati, lo sfondo enunciativo può essere il
medesimo o comunque essi possono dipendere proprio dalle precise modalità di
enunciazione in cui si nascondono). c) Ma l'enunciato è anche non direttamente
visibile, nel senso che non si offre immediatamente alla nostra percezione.
Questo perché esso non si trova accanto alle proposizioni, non caratterizza ciò
che si trova in loro, ma il fatto stesso che esse si diano e che si diano in un
certo modo. Anche se il linguaggio sembra sempre rimandare ad altro (a degli
oggetti, ad un senso, ad un soggetto esterni e lontani), dobbiamo invece
soffermarci sulla sua dimensione attuale che determina la sua stessa esistenza
singola e limitata, lo spazio della sua possibilità. La comparsa di una frase,
di una proposizione, di un senso non provengono da quella che Foucault chiama
ironicamente "la primitiva notte del silenzio". È vano cercare un campo libero
da qualsiasi forma di positività dove si librerebbe un soggetto autonomo o dove
si rivelerebbe l'apertura di una qualche destinazione trascendentale: prima di
tutto esistono le condizioni in base alle quali si effettua la funzione
enunciativa. Consideriamo ora la seconda domanda che riguarda la relazione che
si viene a creare tra la descrizione degli enunciati e l'analisi delle
formazioni discorsive: Foucault vuole cioè mostrare come l'analisi delle
formazioni discorsive si centri proprio sulla descrizione degli enunciati nella
loro specificità. Abbiamo visto come parlando di enunciato ci siamo riferiti ad
una posizione occupata dal soggetto, ad un campo associato, ad una materialità.
Descrivere gli enunciati significa descrivere la funzione enunciativa che essi
esercitano e a cui obbediscono i gruppi di performances verbali. Le quattro
direzioni in cui si è analizzato il livello enunciativo (formazione degli
oggetti, delle posizioni del soggetto, dei concetti, delle scelte strategiche)
corrispondono anche ai campi in cui questo livello esercita la sua funzione.
Formazione degli oggetti : Campo di formazione degli oggetti (superfici
di emergenza, griglie di specificazione, istanze di delimitazione) Posizione
del soggetto : Campo di regolarità per diverse posizioni di soggettività
(status, posizioni istituzionali, ecc.) Formazione dei concetti : Campo
di emergenza dei concetti (forme di successione, forme di coesistenza, procedure
d'intervento) Formazione delle scelte strategiche : Campo delle relazioni
tra temi e teorie (incompatibilità, equivalenza, appropriazione da parte di un
determinato gruppo di individui) E se le formazioni discorsive si sono liberate
dalle vecchie unità rappresentate dal testo, dall'architettura deduttiva, dalla
figura dell'autore, questo è potuto succedere perché esse implicano il livello
enunciativo con tutti gli elementi che lo caratterizzano. A partire da qui è
possibile avanzare una serie di conclusioni:
1) la descrizione dell'enunciato e dei modi della sua esistenza permette
l'individuazione delle formazioni discorsive e viceversa l'individuazione delle
formazioni discorsive permette l'enucleazione dei diversi enunciati; Prima di indagare che cosa sia possibile scoprire attraverso questo genere di
analisi, quali conseguenze scaturiscono per il campo della storia delle idee,
vediamo di descrivere che cosa sia necessario e che cosa escluda l'analisi del
campo enunciativo.
2.4. Rarità, esteriorità, cumulo Il più delle
volte l'analisi del discorso tenta di riportare la molteplicità degli enunciati
ad un unico senso che dovrebbe emergere al di sotto di questa proliferazione.
L'analisi degli enunciati, invece, va in direzione opposta: essa vuole
descrivere il principio che ha fatto apparire solo quegli insiemi significanti
che sono stati enunciati. Foucault chiama questo principio legge di rarità.
Vediamo di cosa si tratta. Si parte dalla consapevolezza che non si dica mai
tutto, ossia che rispetto alla combinatoria illimitata del linguaggio, gli
enunciati non esauriscano tutta la gamma di possibilità. La formazione
discorsiva appare allora come "principio di scansione" dei discorsi e come
"principio di vacuità" nel linguaggio. Si tratta di studiare gli enunciati nel
momento e nei modi in cui sorgono, a partire dall'esclusione di altri enunciati,
non perché rimasti non detti o nascosti, ma perché ciò che interessa è un
limitato sistema di presenze. Non si va dunque alla ricerca di un testo
sottostante, in quanto il campo enunciativo è tutto quanto in superficie: si
tratta di vedere come esso si ramifichi, quale sia la posizione occupata dai
singoli enunciati. L'analisi delle formazioni discorsive si rivolge proprio a
questa rarità, prendendo come oggetto il valore degli enunciati, determinato non
dalla loro verità, ma dalla loro posizione, dalle loro trasformazioni, dai loro
rapporti. Altra caratteristica della descrizione degli enunciati: questi vengono
trattati nella forma dell'esteriorità. Se la storia tradizionale ha sempre
cercato di passare da queste esteriorità - intese come pura contingenza o dato
materiale - ad una essenziale interiorità, al nucleo della soggettività
fondatrice, ad un Logos che scorrerebbe sotto la storia manifesta (ciò che
Foucault definisce "tema storico-trascendentale"), l'analisi enunciativa tenta
di liberarsi da tutto ciò, descrivendo gli enunciati nella loro dispersione "per
analizzarli in una esteriorità indubbiamente paradossale poiché non rimanda a
nessuna forma contraria di interiorità. [...] Per riafferrare proprio la loro
irruzione, nel luogo e nel momento in cui si è prodotta. Per ritrovare la loro
incidenza di evento". Ciò significa che il campo enunciativo non deve essere
considerato come la traduzione di qualcosa che ha la sua origine in un altro
luogo (nel pensiero o nell'inconscio degli uomini considerati il modello di ciò
che diventa visibile), ma come un campo effettivo di relazioni, di regolarità,
di avvenimenti. L'analisi degli enunciati si effettua senza alcun riferimento ad
un cogito, non chiama in causa colui che parla o che si nasconde dietro ciò che
viene detto: essa si colloca piuttosto in quel piano che Foucault definisce
"livello del "si dice"", non da intendersi come una sorta di opinione comune o
collettiva o di grande voce anonima, ma come "l'insieme delle cose dette, le
relazioni, le regolarità e le trasformazioni che vi si possono osservare, il
campo che con certe figure, con certe intersecazioni indica la posizione
particolare di un soggetto parlante che può ricevere il nome di autore.
"Chiunque parla", ma quello che dice, non lo dice da una posizione qualunque. È
necessariamente implicato nel meccanismo di una esteriorità". Ultimo carattere
dell'analisi enunciativa: essa si rivolge a delle forme di "cumulo" che non si
presentano né come ricordo né come totalità di documenti. In realtà non si
tratta di far risvegliare dal loro sonno o dal loro passato gli enunciati: si
tratta, invece, di seguirli lungo la loro vita, per scoprire che cosa li
caratterizza in quanto conservati, riutilizzati, dimenticati o anche distrutti.
Questo tipo di analisi presuppone che gli enunciati vengano considerati:
E' necessario liberarsi dalla figura del ritorno come recupero della purezza
della parola e del linguaggio non immersi ancora in nessuna materialità; dalla
figura della soggettività come origine o intenzione a cui obbedirebbero gli
enunciati; dalla figura dell'origine come totalità o punto zero da cui
deriverebbero tutti gli enunciati e a partire da cui tutti sarebbero
interpretabili. Gli enunciati devono invece essere considerati nello spessore
del cumulo in cui si trovano e che continuano a modificare: ciò "significa
stabilire quel che volentieri chiamerei una positività".
2.5. L'a priori storico e l'archivio 3. La descrizione archeologica
3.1. Archeologia e storia delle idee 1) L'archeologia non vuole descrivere ciò che si cela dietro i discorsi -
intenzioni, pensieri, rappresentazioni - ma proprio i discorsi in quanto
pratiche governate da precise regole. Non però i discorsi in quanto documenti
interpretabili, in quanto segni di qualcos'altro, ma i discorsi nel loro
spessore concreto e specifico. 3.2. L'originale e il regolare 3.3. Le contraddizioni 3.4. I fatti comparativi Ciò che interessa alla descrizione archeologica non sono tanto le influenze,
gli scambi, ma piuttosto ciò che li ha resi possibili. Si descrive cioè il campo
che ha costituito la condizione di possibilità storica per tutti questi scambi.
L'archeologia vuole anche studiare i rapporti tra le formazioni discorsive e
quelle non discorsive (le istituzioni, gli avvenimenti politici, i processi
economici). Essa però non cerca di rinvenire le motivazioni di un certo insieme
di fatti enunciativi (ricerca del contesto di formulazione) e neppure ciò che si
esprime in esso (compito dell'ermeneutica), ma vuole individuare i modi in cui
si articolano questi due generi di formazioni. Relazioni di causalità, di
riflesso, di simbolizzazione si possono individuare, secondo l'analisi
archeologica, soltanto dopo la descrizione delle positività e delle regole di
formazione di queste positività. Ma se l'archeologia rifiuta la ricerca delle
cause come metodo del suo lavoro, se non vuole vedere nel discorso la superficie
di riflesso di avvenimenti che accadono altrove, se vuole eliminare il ricorso
alla figura di un soggetto-padrone , non è per affermare di contro l'assoluta
indipendenza del discorso, ma per scoprire che questo non possiede uno statuto
puramente ideale e astorico, ma vive all'interno di un vasto campo di
istituzioni, di processi economici, politici e di rapporti sociali.
3.5. Il cambiamento e le
trasformazioni 3.6. Scienza e sapere Lo studio di queste soglie e della loro cronologia (che non è automatica, in
quanto non tutte le formazioni discorsive passano attraverso tutte queste soglie
e non sempre secondo lo stesso ordine) costituisce un importante campo di studio
per l'archeologia. La descrizione dell'episteme non può dunque mai dirsi conclusa; e così pure
l'episteme stessa non costituisce un campo immobile, proprio perché è l'insieme
mobile di relazioni tra le positività, le pratiche discorsive, le figure
epistemologiche e le scienze. Questo tipo di analisi si differenzia quindi da
tutte quelle che individuano il diritto di una scienza a ritenersi tale nel
fondamento costituito dal soggetto trascendentale, in quanto essa guarda invece
all'esistenza stessa della scienza e ai suoi processi in quanto pratica storica.
Conclusione
Foucault ha interrogato il discorso a livello delle regole della sua
formazione: questo significa dunque chiedersi secondo quali regole di volta in
volta un insieme di segni costituisce un campo definito di significati. Finora
però il termine "discorso" è stato utilizzato in molti modi, in riferimento a
tutti gli enunciati o a certe pratiche che individuano determinati enunciati. È
necessario dunque definire prima di tutto che cosa si intenda esattamente quando
si parla di "enunciato". L'enunciato è identificabile con quell'unità elementare
del discorso che potrebbe coincidere con la proposizione? Secondo Foucault no,
perché mentre le proposizioni possono essere tra loro equivalenti in relazione
al significato anche al variare di alcuni elementi che le compongono, non lo
stesso si può dire rispetto alla loro enunciazione. Le proposizioni "Nessuno ha
sentito" e "È vero che nessuno ha sentito" non differiscono rispetto al loro
significato, ma in quanto enunciati non svolgono la stessa funzione né possono
occupare lo stesso posto nel discorso. "Se si trova la formula "Nessuno ha
sentito" nella prima riga di un romanzo, si sa, fino a nuovo ordine, che si
tratta di una constatazione fatta o dall'autore o da un personaggio (ad alta
voce o sotto forma di un monologo interiore); se si trova la seconda formula "È
vero che nessuno ha sentito", ci si può trovare soltanto all'interno di un
complesso di enunciati che costituiscano un monologo interiore, una discussione
muta, una contestazione con se stessi, o un frammento di dialogo, un insieme di
domande e di risposte." È forse l'enunciato identificabile con la frase? Neppure
questo è vero, perché vi può essere un enunciato laddove ci sia una frase, ma
non vale il contrario, in quanto è possibile enunciare qualcosa senza aver
bisogno di alcuna struttura fraseologica. "Un albero genealogico, un libro
contabile, le stime di una bilancia commerciale sono degli enunciati: dove sono
le frasi?" L'enunciato non è neppure un atto illocutorio (lo speech act degli
analisti inglesi, ossia l'atto di formulazione: si riferisce a quelle
espressioni come la preghiera, il giuramento, l'ordine, la promessa, il
contratto e simili, dove non è in questione l'intenzione del parlante, né
l'effetto prodotto dall'espressione, ma il fatto stesso della formulazione in
quanto si è prodotto nel modo in cui si è prodotto): se questo si risolve nella
sua formulazione, non lo stesso si può dire per il suo senso che ha bisogno a
volte, per apparire, di una reiterazione: "Giuramento, preghiera, contratto,
promessa, dimostrazione richiedono il più delle volte un certo numero di formule
distinte o di frasi separate: sarebbe difficile rifiutare a ciascuna di esse lo
statuto di enunciato con il pretesto che tutte quante sono attraversate da un
unico atto illocutorio" . Ma allora che cos'è veramente un enunciato? Dobbiamo
pensare forse che qualunque serie di segni dia luogo ad un enunciato? La
tastiera di una macchina da scrivere non è un enunciato, ma la serie di lettere
Q, Z, E, R, T, scritta in un manuale di dattilografia rappresenta l'enunciato
dell'ordine alfabetico adottato dalle macchine italiane. I primi risultati sono
ancora solamente negativi: l'enunciato non richiede una costruzione linguistica
regolare, ma neppure è sufficiente, perché esso esista, un semplice insieme
materiale di elementi linguistici. L'enunciato non è quindi una struttura che
mette in relazione degli elementi variabili, ma è invece "una funzione di
esistenza che appartiene in proprio ai segni e a partire dalla quale si può
decidere successivamente […] se essi "hanno senso" oppure no, in base a quale
regola si succedano o si sovrappongano, di che cosa siano segno e quale tipo di
atto si trovi ad essere effettuato grazie alla loro formulazione." È questa
"funzione di esistenza" che ora Foucault si propone di descrivere, nelle sue
regole, nelle sue condizioni e nel campo in cui si effettua.
In che modo
singolare l'enunciato esercita la sua funzione d'esistenza? Foucault ripropone
l'esempio delle lettere della tastiera della macchina da scrivere. È il fatto di
ricopiarle su un foglio che le fa diventare un enunciato e non un gruppo
aleatorio di lettere? È l'intervento di un soggetto? In realtà il problema
consiste nella speciale relazione che si instaura tra queste due serie di
lettere. Ma non potrebbe questo rapporto consistere in una semplice relazione
tra significante e significato, tra nome e suo referente, tra frase e suo senso?
Secondo Foucault il rapporto tra l'enunciato e ciò che esso enuncia è qualcosa
di diverso. Mentre un nome può occupare diverse posizioni all'interno delle
varie costruzioni grammaticali, un enunciato, anche se ripetiamo i nomi, le
parole e le frasi da cui è composto, non sarà necessariamente lo stesso
enunciato. Un enunciato ha un rapporto diverso con ciò che enuncia anche
rispetto a quello esistente tra la proposizione ed il suo referente. Infatti
mentre la proposizione "La montagna d'oro è in California" risulta priva di
referente, non lo stesso possiamo dire dell'enunciazione di cui essa potrebbe
far parte: "Supponiamo infatti che la formulazione "La montagna d'oro è in
California" non si trovi in un manuale di geografia né in un racconto di viaggi,
ma in un romanzo, o in una invenzione qualunque: le si potrà riconoscere un
valore di verità o di errore (a seconda che il mondo immaginario a cui si
riferisce autorizzi oppure no una simile fantasia geologica e geografica)."
L'enunciato sembra essere allora l'antecedente della proposizione, nel senso che
è esso a fissare lo spazio ed il tipo di relazione tra questa ed il suo
referente. Il rapporto tra l'enunciato e ciò che esso enuncia non è poi neppure
identificabile con il rapporto tra la frase ed il suo senso. Se consideriamo,
infatti, una frase senza senso, stiamo già pensando ad una precisa possibilità
di esistenza, ad esempio ad una realtà visibile, in cui tale frase è appunto
priva di senso. Significa che abbiamo già stabilito il piano della sua
enunciazione: se fossimo, infatti, all'interno di un sogno o di un testo
poetico, quella frase avrebbe una precisa e diversa relazione con il suo senso:
possederebbe, ad esempio, il senso datole dall'appartenere all'enunciazione del
sogno. Ma allora come spiegare la funzione svolta dall'enunciato prescindendo
dai rapporti di senso e dai valori di verità a cui solitamente ci si riferisce?
Dopo aver escluso che il correlato dell'enunciato possa essere un individuo o un
oggetto singolo identificato da un nome oppure uno stato di cose che
verificherebbe la validità di una proposizione, è possibile affermare che "ciò
che si può definire come correlato dell'enunciato è un insieme di campi in cui
possono apparire simili oggetti o si possono determinare simili relazioni"
Foucault intende dire con questo che l'enunciato non ha di fronte a sé un
correlato come qualcosa di immobile e già dato; l'enunciato cioè non si
riferisce a delle cose, a degli oggetti, a delle realtà precostituiti, ma apre
esso stesso un orizzonte di possibilità di esistenza per gli oggetti: "La
referenzialità dell'enunciato forma il luogo, le condizione, il campo di
emergenza, l'istanza di differenziazione degli individui o degli oggetti, degli
stati di cose e delle relazioni che vengono messe in opera dall'enunciato
stesso; definisce le possibilità di apparizione e di delimitazione di ciò che dà
il senso alla frase, e alla proposizione il suo valore di verità". Questa
referenzialità è propriamente ciò in cui consiste il livello enunciativo della
formulazione e che si distingue tanto dal livello grammaticale quanto dal
livello logico. Foucault passa poi ad analizzare la speciale relazione tra
l'enunciato ed il suo soggetto. Il soggetto dell'enunciato coincide forse con
l'individuo reale che ha scritto o pronunciato una frase? Secondo Foucault il
soggetto dell'enunciato si distingue dall'autore di una formulazione. Prendiamo
l'esempio di un trattato di matematica: sicuramente nella spiegazione del perché
il trattato sia stato scritto, in quali circostanze, con quali metodi, ecc., il
soggetto coincide con l'autore di tali formulazioni; ma se si considera la
proposizione "Due quantità uguali ad una terza sono uguali tra di loro", il
soggetto dell'enunciato è la posizione neutra, indifferente al tempo e allo
spazio, identica in qualsiasi sistema linguistico e che ogni individuo occupa
quando pronuncia una simile proposizione. Ciò che Foucault vuol dire è che il
soggetto di un enunciato non è identico all'autore di una formulazione, né è la
causa o l'istanza intenzionale che articola gli enunciati facendoli comparire
alla superficie del discorso. Esso è piuttosto "un posto determinato e vuoto che
può essere effettivamente colmato da individui differenti…" Descrivere quindi
una formulazione non significa analizzare il rapporto tra l'autore e ciò che ha
detto, ma determinare quale sia la posizione che ogni individuo può occupare per
esserne il soggetto. Altro carattere della funzione enunciativa analizzato da
Foucault è quello dell'esistenza di un campo associato. Per determinare quando
siamo in presenza di una proposizione o di una frase, è sufficiente individuare
se esse rispettano determinate regole (ad esempio un certo ordine sintattico dei
loro elementi). Questo sistema di regole non è però un campo associato quanto
piuttosto un qualcosa che viene supposto affinché si possa costruire una
proposizione o una frase. Ma quando parliamo di funzione enunciativa, non è
sufficiente considerare una frase o una proposizione in rapporto ad un soggetto
o ad un campo di oggetti affinché si dia un enunciato. Quando parliamo di
enunciato è necessario riferirsi a tutto un campo più vasto che non coincide
semplicemente con il contesto, in quanto è proprio questo più ampio campo a
rendere possibile il contesto. Il campo associato è qualcosa di più complesso:
Nel corso
dell'analisi la descrizione dell'enunciato ha assunto una nuova prospettiva: non
più descrizione dell'enunciato atomico, ma del campo d'esistenza della funzione
enunciativa. Sorgono a questo punto due domande: come intendere ora il progetto
iniziale della descrizione degli enunciati? In che modo si intrecciano la teoria
dell'enunciato e l'analisi delle formazioni discorsive? Iniziamo con la prima
domanda. a) Innanzitutto è necessario precisare il vocabolario utilizzato:
< li> Enunciato: le modalità di esistenza di questi insiemi di segni;
2) la
regolarità degli enunciati è definita dalla formazione discorsiva stessa
"poiché, per gli enunciati, essa costituisce non una condizione di possibilità
ma una legge di coesistenza";
3) il discorso sarà allora quell'insieme di
enunciati che appartengono alla stessa formazione discorsiva e che sono
caratterizzati dalle medesime condizioni di esistenza;
4) è possibile ora
specificare che cosa si intende per "pratica discorsiva": essa non è tanto
l'operazione con cui un soggetto formula un'idea, ma "è un insieme di regole
anonime, storiche, sempre determinate nel tempo e nello spazio che hanno
definito in una data epoca, e per una data area sociale, economica, geografica o
linguistica, le condizioni di esercizio della funzione enunciativa".
Questa
positività non è ciò che permette di stabilire, ad esempio, quale di due
discorsi possiede la verità, ma ciò che consente di definire tra essi uno spazio
di comunicazione ossia di manifestare delle identità formali, delle continuità o
discontinuità tematiche: " In tal modo la positività riveste il ruolo di quello
che si potrebbe chiamare un a priori storico. […] Con esse [queste due parole
giustapposte] intendo designare un a priori che sia non condizione di validità
per dei giudizi, ma condizione di realtà per degli enunciati". Questo concetto
qui introdotto per la prima volta è fondamentale per capire cosa Foucault
intenda per positività e in che modo abbia finora concepito il suo progetto di
descrizione dei sistemi enunciativi. Foucault specifica che la ricerca non deve
voler rintracciare ciò che rende legittima una affermazione, ma evidenziare le
condizioni di emergenza degli enunciati, la specificità della loro esistenza, le
leggi di coesistenza con altri enunciati, i principi delle loro trasformazioni.
Il termine "a priori" si riferisce alla storia che si è effettivamente data,
alle cose che sono state effettivamente dette e non ad una verità o ad un
divenire estranei alla storia specifica. Proprio per questo l'a priori di cui
parla Foucault non è estraneo alla storicità, non costituisce una struttura
atemporale che domina dall'alto gli avvenimenti: esso può essere definito come
l'insieme di regole che caratterizzano e che appartengono ad una certa pratica
discorsiva. "L'a priori delle positività non è soltanto il sistema di una
dispersione temporale; è esso stesso un insieme trasformabile" e questo proprio
perché è storico, assolutamente empirico a differenza di tutti gli a priori
formali. Non vi sono più pensieri costituiti che si traducono in parole, ma si
hanno, nelle pratiche discorsive, dei sistemi che instaurano gli enunciati come
degli eventi. Foucault chiama questi sistemi di enunciati con la parola
archivio. "L'archivio è anzitutto la legge di ciò che può essere detto, il
sistema che governa l'apparizione degli enunciati come avvenimenti singoli".
Esso è ciò che fa sì che le cose dette sorgano secondo certe regolarità,
inserite in un sistema enunciativo che predispone determinate possibilità di
esistenza per esse. L'archivio è ciò che definisce il modo di esistenza attuale
dell'enunciato, costituendone il sistema di funzionamento. Esso si distingue
dalla lingua: se questa stabilisce il sistema di costruzione delle frasi
possibili, l'archivio definisce il campo di una pratica che fa sorgere
determinati enunciati, è insomma "il sistema generale della formazione e della
trasformazione degli enunciati", costituendo quindi per l'enunciato-evento il
sistema della sua enunciabilità. L'archivio non è però descrivibile nella sua
totalità in quanto noi stessi parliamo al suo interno, siamo dentro le sue
regole, le sue possibilità. Esso si dà invece per frammenti, per regioni. In
questo senso è possibile affermare che esso ci delimita, stabilendo delle soglie
di esistenza che via via cambiano, compaiono e scompaiono. Ecco perché Foucault
afferma che l'archivio spezza il filo di tutte le telelologie trascendentali,
dissipa la categoria antropologica della soggettività sovrana ed autonoma:
proprio perché storico ed empirico, esso "fa brillare l'altro e l'esterno. […]
Stabilisce che noi siamo differenza, che la nostra ragione è la differenza dei
discorsi, la nostra storia la differenza dei tempi, il nostro io la differenza
delle maschere. Che la differenza non è origine dimenticata e sepolta, ma quella
dispersione che noi siamo e facciamo. " La descrizione mai definitiva
dell'archivio rappresenta l'orizzonte che abbraccia l'analisi delle formazioni
discorsive, l'analisi delle positività e del campo enunciativo. Questo tipo di
ricerca assume il nome di "archeologia", non come rinvenimento di un origine
lontana, ma come descrizione del già detto a livello dei modi della sua
esistenza, come descrizione dei discorsi in quanto pratiche specifiche
appartenenti all'archivio.
Una volta introdotte tutte queste nuove nozioni, queste nuove unità,
questi nuovi campi di indagine, è necessario però analizzare cosa effettivamente
sia in grado di offrire, a differenza di altri tipi di descrizioni,
l'"archeologia". Questa analisi si differenzia veramente da quella che finora è
stata chiamata "storia delle idee" (come tipo di analisi che reinterpreta le
diverse discipline, che va alla ricerca dell'esperienza originaria nascosta
dietro i discorsi, della continuità e del progresso lineare dietro la differenza
dei temi e dei discorsi)? La storia delle idee, e con essa anche molti tipi di
analisi storica, è caratterizzata dalla ricerca della genesi, della continuità e
della totalizzazione; l'archeologia è invece proprio abbandono della storia
delle idee e delle sue procedure. Sono quattro le principali differenze
individuate da Foucault tra i due tipi di analisi:
2) L'archeologia si presenta come un'analisi
differenziale delle modalità del discorso: essa vuole cioè definire i discorsi
nella loro specificità, mostrando i sistemi di regole che li governano e non
cercando di risalire ad una identità unica e costante sottesa ad essi.
3)
L'archeologia non si rifà alla figura dell'opera, ma si riferisce a delle
pratiche discorsive che attraversano le singole opere: rifiuta così l'istanza
del soggetto creatore come principio di unità e ragione d'essere dell'opera.
4) L'archeologia, infine, non cerca di rinvenire ciò che si è effettivamente
pensato, desiderato, immaginato con un certo discorso; non cerca un'identità che
sarebbe stata squarciata e persa dal discorso. Essa è invece una sorta di
riscrittura di un discorso fatto oggetto, di ciò che è stato detto o scritto.
Abbiamo visto
come secondo Foucault nella storia delle idee sia centrale la problematica
dell'origine. Questa ricerca apre da subito due problemi metodologici: quello
della "somiglianza" e quello della "precessione". La storia delle idee ritiene
che tutti gli avvenimenti e i discorsi siano collocabili in un'unica grande
serie in grado di fissare dei punti di riferimento cronologici omogenei, che tra
i vari dati sia possibile, cioè, distinguere l'elemento originario, primario dal
punto di vista temporale (tema della precessione) e l'elemento somigliante o
identico tra i diversi tipi di formulazioni (tema della somiglianza). Secondo
Foucault non è possibile parlare allo stato puro né di precessione né di
somiglianza, in quanto entrambe sono rinvenibili solo a partire dall'analisi del
campo discorsivo in cui le si rintraccia. L'archeologia non vuole stabilire tra
le varie frasi una gerarchia, ma rinvenire le "regolarità" degli enunciati:
regolarità intesa non come ciò che si ripete opponendosi a ciò che è apparso per
la prima volta in modo originario ed unico, ma come l'insieme delle condizioni
secondo cui si esercita ogni funzione enunciativa. La regolarità non consiste in
una sorta di indice di frequenza o di probabilità; essa specifica, invece, un
campo effettivo di apparizione. Ciò che si contrappone non è la regolarità di un
enunciato all'irregolarità di un altro (che sarebbe più innovativo, singolare),
ma le diverse regolarità che caratterizzano gli enunciati le quali concernono,
quindi, tanto le affermazioni che fanno apparire qualcosa di nuovo, quanto
quelle che riprendono ciò che è stato detto. "Il campo degli enunciati non è un
insieme di plaghe inerti scandito da momenti fecondi; è un campo attivo da cima
a fondo". Nel momento in cui l'archeologia si interessa ai campi delle
regolarità enunciative sta dunque differenziandosi tanto dall'analogia
linguistica (ossia la traducibilità degli enunciati) quanto dall'identità o
equivalenza logica: possono esserci, infatti, frasi equivalenti dal punto di
vista grammaticale o logico che si differenziano però per la pratica enunciativa
a cui appartengono. Ciò non significa che ogni enunciato apre un nuovo campo
discorsivo, in quanto molti enunciati derivano, all'interno dello stesso
discorso, da altri che costituiscono degli "enunciati rettori" i quali
definiscono le strutture osservabili, il campo degli oggetti, i codici
percettivi. Questo sistema di derivazione non è da confondere con una struttura
deduttiva in cui i significati delle esperienze e delle concettualizzazioni
verrebbero fatti derivare da un certo numero di assiomi o da un nucleo
filosofico originario: "L'ordine archeologico non è quello delle sistematicità
né quello delle successioni cronologiche", anche se tra questi diversi ordini
possono esserci dei parallelismi. L'analisi delle formazioni discorsive in
Foucault non vuole essere un tentativo di periodizzazione totalitaria, come se
in un certo periodo tutti pensassero allo stesso modo pur con delle differenze
di superficie. L'archeologia descrive dei livelli di omogeneità enunciativa,
individuando degli ordini, delle relazioni, delle gerarchie e non, invece, una
sincronia globale e data una volta per tutte.
La storia delle idee di
fronte alle contraddizioni, all'incompatibilità tra le proposizioni o
all'irregolarità nell'uso delle parole ha sempre cercato di restituire al
discorso la sua unità, la sua coerenza. Ma questa coerenza ed unità, proprio
perché spesso non esplicite, sono il risultato della ricerca e dell'analisi le
quali le hanno dovute supporre, dare per certamente esistenti al di là delle
superficiali contraddizioni, per poterle ricostruire: si possono cercare a
livello del soggetto parlante, il cui discorso però non è stato capace di
rivelare; o si possono cercare nelle strutture utilizzate, anche inconsciamente,
dall'autore, o nell'epoca, nelle tradizioni a cui un individuo appartiene. La
coerenza così trovata mostrerebbe che ciò che ci è inizialmente sembrato
contraddittorio non è altro che "luccichio superficiale; e che bisogna
ricondurre ad un unico centro focale tutto questo insieme di bagliori dispersi”.
L'analisi proposta dalla storia delle idee vuole smascherare questa
contraddizione e ricondurla alla pacificazione di un'unità e una coerenza
nascoste. Dopo questo lavoro, per lo storico delle idee rimangono o delle
contraddizioni accidentali oppure la contraddizione fondamentale, che consiste
nello scontro all'origine del sistema stesso di princìpi e postulati tra loro
incompatibili: il primo genere di contraddizioni è ciò che bisogna superare
facendo emergere l'unità profonda del discorso che rappresenta, quindi, la
figura ideale da rinvenire al di là degli elementi accidentali; l'altro tipo di
contraddizione è ciò che emerge attraverso il discorso, il quale ne diventa così
la figura empirica. Analizzare il discorso significa allora far scomparire
alcune contraddizioni e renderne manifeste altre. Per l'analisi archeologica le
cose cambiano radicalmente: le contraddizioni non devono essere né superate in
quanto accidentali né evidenziate in quanto principi segreti da portare alla
luce: sono invece degli oggetti da descrivere, da collocare in un luogo preciso
di emergenza e di esistenza. Non si cerca di scoprire dietro esse una tematica
comune, ma la misura del loro divario: "In rapporto a una storia delle idee che
voglia risolvere le contraddizioni nell'unità semioscura di una figura globale,
o che voglia trasferirle in un principio generale, astratto ed uniforme
d'interpretazione o di spiegazione, l'archeologia descrive i differenti spazi di
dissenso". L'archeologia studia quindi i diversi tipi di contraddizione, i
diversi livelli in cui esse si possono rintracciare e le diverse funzioni che
possono esercitare. Una formazione discorsiva, quindi, non è un testo lineare,
privo di contraddizioni o in grado di risolverle riportandole ad un qualche tipo
di unità pacificante: essa è invece uno spazio di dissensi, di trasformazioni di
cui l'archeologia si propone di descrivere i livelli ed il funzionamento. "Si
tratta insomma di mantenere il discorso nelle sue molteplici asperità; e
conseguentemente di sopprimere il tema di una contraddizione uniformemente
perduta e ritrovata, risolta e sempre rinascente, nell'elemento indifferenziato
del Logos".
Nel descrivere le
formazioni discorsive, l'archeologia deve confrontarle, contrapporle, fissarne i
limiti cronologici, presentandosi così come uno studio al plurale e
distinguendosi allo stesso tempo da tutti gli altri tipi di descrizione. Quando
infatti si comparano diverse formazioni discorsive non si va alla ricerca di
forme generali, ma di configurazioni particolari (ad esempio, confrontando la
Grammatica generale, l'Analisi delle ricchezze e la Storia naturale nell'epoca
classica non si ricerca la mentalità generale o la forma di razionalità a loro
sottesa, ma gli insiemi determinati di formazioni discorsive che posseggono
specifici rapporti descrivibili). Queste configurazioni si trovano poi in
relazione con altri gruppi di discorso formando quella che Foucault definisce
una "configurazione interdiscorsiva". Di conseguenza, questa analisi non vuole
essere esaustiva, proprio perché il suo obiettivo non è la descrizione dello
spirito di un'epoca, del volto di una cultura ma la descrizione di una "regione
d'interpositività"; e proprio perché sceglie solo alcune delle formazioni
discorsive esistenti tra tutte quelle appartenenti ad una data epoca, essa
presenta solo uno degli insiemi descrivibili: "L'orizzonte a cui si rivolge
l'archeologia, non è una scienza, una razionalità, una mentalità, una cultura; è
un groviglio d'interpositività di cui non si possono fissare di colpo i confini
e i punti d'incontro. L'archeologia: un'analisi comparativa che non è destinata
a ridurre la diversità dei discorsi e a delineare l'unità che li deve
totalizzare, ma è destinata a suddividere la loro diversità in figure
differenti. Il confronto archeologico non ha un effetto unificatore, ma
moltiplicatore". Ma cosa vuole effettivamente mettere in luce l'analisi
archeologica? Essa vuole analizzare il meccanismo delle analogie e delle
differenze che caratterizzano le formazioni discorsive così come esse appaiono a
livello delle regole di formazione. Questo significa:
L'archeologia pare però in qualche modo pietrificare la
storia nella miriade di unità che vuole descrivere, spesso prescindendo dalle
loro concatenazioni temporali: "Più eternità che si succedono, un complesso di
immagini fisse che si eclissano a turno, tutto ciò non realizza né un movimento,
né un tempo, né una storia". La descrizione delle regole di formazione degli
enunciati, del campo in cui esse funzionano, non elimina l'elemento temporale,
ma mette semplicemente da parte l'idea che la successone sia un assoluto,
evidenziando invece le diverse forme di successione che si intersecano nel
discorso. L'archeologia vuole liberarsi di due modelli: il modello lineare della
parola secondo il quale gli avvenimenti si succedono gli uni agli altri e il
modello del flusso della coscienza in cui il presente è considerato come
conservazione del passato e apertura del futuro. Il discorso considerato
dall'archeologia non consiste in una coscienza che esterna il suo progetto sotto
forma di linguaggio, ma è una pratica che presenta determinate forme di
concatenazione e di successione. Secondo aspetto che dobbiamo specificare:
l'archeologia, come abbiamo visto, invece di riannodare i fili che dovrebbero
unire i discorsi, gli avvenimenti, ricerca piuttosto le differenze, le
discontinuità e cerca di analizzarle, di differenziarle. Ma in quale senso
avviene questo? Innanzitutto l'archeologia distingue diversi piani di eventi:
quello degli enunciati, dei concetti, degli oggetti, delle scelte strategiche;
in secondo luogo li analizza, ma riportandoli non al modello teleologico o
psicologico e cioè riferendosi non in modo generale al cambiamento, ma
analizzandone le trasformazioni (gli elementi di un sistema, i rapporti tra le
regole di formazione, tra le diverse positività, ecc.). Trasformazioni che non
implicano la scomparsa improvvisa dei concetti, degli oggetti, delle
enunciazioni, ma il sorgere di nuove regole di formazione (che, ripetiamo, è il
principio della molteplicità e della dispersione dei concetti e degli oggetti e
non della loro determinazione). Non c'è opposizione tra continuo e discontinuo,
quasi che il secondo fosse sinonimo di irrazionalità: l'archeologia vuole
"mostrare come il continuo si formi secondo le stesse condizioni e in base alle
stesse regole della dispersione; e che esso rientra [...] nel campo della
pratica discorsiva". La frattura non deve quindi essere vista come
un'interruzione rispetto a due epoche: essa è una discontinuità tra due
positività caratterizzata da specifiche trasformazioni. L'archeologia non si
concentra allora né solo sulle epoche, che non rappresentano più il suo
orizzonte ed unico oggetto, né solo sulle fratture come confine dell'analisi
condotta, ma sulle pratiche discorsive che attraversano con le loro
trasformazioni le epoche e i discorsi.
Ma l'archeologia, con i
nuovi concetti introdotti, le nuove unità di riferimento, che rapporto può
instaurare con l'analisi delle scienze?
a) Positività, discipline,
scienze
Si potrebbe forse credere che l'archeologia con i termini "formazione
discorsiva" e "positività" non sia in grado di affrontare l'analisi del discorso
scientifico, concentrandosi piuttosto su altri tipi di discipline. Insomma
l'archeologia parrebbe poter analizzare quelle discipline che non sono delle
vere e proprie scienze, ma degli abbozzi di scienze future. Secondo Foucault, al
contrario, l'archeologia non descrive delle discipline ma delle positività,
delle formazioni discorsive, che in alcuni casi possono coincidere con delle
discipline ma in altri no. Non c'è infatti alcuna relazione biunivoca tra le
discipline istituite e le formazioni discorsive (questo è quanto scoperto, ad
esempio, nella Storia della follia, in cui analizzando la nuova disciplina
psichiatrica comparsa nel XIX secolo sono emerse una serie di formazioni
discorsive, di relazioni tra istituzioni che non si sono potute descrivere come
semplici elementi di una disciplina: tutte queste pratiche oltrepassavano la
disciplina stessa appartenendo a diversi campi - a quello dell'amministrazione,
della filosofia e della letteratura, dell'organizzazione del lavoro e
dell'assistenza, ecc.). Ma allora ciò che è stato indicato con il nome di
formazione discorsiva non potrebbe essere il nucleo delle futura scienza?
L'archeologia non andrebbe così alla ricerca di tutti quegli elementi eterogenei
che andranno poi a costituire la base da cui prenderà avvio una scienza? Anche
qui Foucault dà una risposta negativa: ciò che ad esempio è stato chiamato
grammatica generale non comprende tutto ciò che poi si è detto sul linguaggio o
di cui si è occupata la filologia. Ma allora la relazione tra le positività e le
scienze è cronologica o forse di esclusione? Se non si possono identificare le
formazioni discorsive con le scienze ma neppure con le discipline in generale e
se neppure è lecito escludere una qualche relazione tra esse, quale rapporto
esiste tra le positività e le scienze?
b) Il sapere
Le positività non
definiscono una forma di conoscenza e neppure il grado raggiunto da una
conoscenza in un dato momento: "analizzare delle positività significa mostrare
in base a quali regole una pratica discorsiva possa formare dei gruppi di
oggetti, degli insiemi di enunciazioni, dei complessi di concetti, delle serie
di scelte teoriche" . Esse non costituiscono né una scienza né, però, delle
conoscenze eterogenee e raggruppate insieme magari da un soggetto. Possiamo
pensare ad esse come la condizione preliminare di ciò che in seguito si rivelerà
e funzionerà come conoscenza o errore, acquisizione o perdita. "Questo insieme
di elementi, regolarmente formati da una pratica discorsiva e indispensabili
alla costituzione di una scienza, benché non necessariamente destinati a darle
vita, si può chiamare sapere." L'archeologia segue un cammino diverso da quello
coscienza-conoscenza-scienza: essa infatti segue il percorso pratica
discorsiva-sapere-scienza in cui il soggetto non è più il fulcro ma è sempre
situato e dipendente (posizione del soggetto). Ecco perché è necessario
distinguere tra campi scientifici e territori archeologici: allo stesso campo di
scientificità appartengono le proposizioni che rispettano determinate leggi di
costruzione; i territori archeologici attraversano invece testi letterari,
scientifici, filosofici perché il sapere non corrisponde solo alle dimostrazioni
ma comprende anche testi fantastici, racconti, decisioni politiche. La pratica
discorsiva allora non coincide con l'elaborazione scientifica che può sorgere da
essa: piuttosto si può dire che le scienze appaiono sullo sfondo di un sapere.
Si aprono così nuovi problemi a cui Foucault non darà risposta, ma proporrà una
direzione di analisi: come collocare e definire la funzione di una regione di
scientificità all'interno di un territorio archeologico? Secondo quali processi
emerge una regione di scientificità in una formazione discorsiva?
c) Sapere
e ideologia
Una scienza una volta costituita non assorbe in sé la formazione
discorsiva in cui era comparsa, ma neppure la cancella: essa svolge la sua
funzione collocandosi in un campo di sapere e modificandosi insieme alle
trasformazioni delle formazioni discorsive. L'analisi archeologica vuole
studiare il rapporto tra scienza e sapere, mostrando come la prima funzioni
all'interno del secondo. Proprio in questo spazio si determinano i rapporti tra
l'ideologia e le scienze, ossia nel punto di contatto tra il sapere e le
scienze, laddove queste modificano e insieme confermano il sapere. Foucault
porta come esempio quello dell'economia politica: essa svolge una precisa
funzione all'interno dell'economia capitalistica che può essere rinvenuta nella
difesa degli interessi della società borghese; ma ciò non basta per descrivere a
fondo i rapporti tra la struttura epistemologica dell'economia e la sua funzione
ideologica: sarà necessario "passare attraverso l'analisi della formazione
discorsiva che le ha dato luogo e dell'insieme degli oggetti, dei concetti,
delle scelte teoriche che ha dovuto elaborare e sistematizzare", oltre che
attraverso l'analisi dei rapporti con le altre pratiche discorsive e non
discorsive con cui è entrata in contatto.
d) Le diverse soglie e la loro
cronologia
Per una formazione discorsiva si possono descrivere diverse soglie
di emergenza:
e) I diversi tipi di storia delle scienze
Ad ognuna
delle soglie individuate corrisponde un diverso tipo di analisi storica.
f) Altre archeologie
Ultimo problema esaminato da Foucault: è proprio
necessario che la descrizione archeologica guardi sempre all'episteme, ai
discorsi scientifici o può interessarsi anche ad altre regioni? Foucault prende
come esempio un possibile studio futuro sulla sessualità. Invece di analizzare
come siano sorte le figure epistemologiche della sessualità elaborate dalla
biologia o dalla psicologia, ci si potrebbe chiedere quale pratica discorsiva
fosse implicata dai comportamenti e dalle rappresentazioni sessuali; ossia se la
sessualità, al di fuori del discorso scientifico, costituisse un campo di
oggetti di cui parlare, un campo di enunciazioni (liriche, giuridiche o altro),
un insieme di concetti e di scelte. Un'analisi archeologica di questo tipo si
chiederebbe come i divieti, i limiti, le manifestazioni verbali e non
concernenti la sessualità possano essere legate a una determinata pratica
discorsiva. E mostrerebbe come un certo modo di parlare possa essere una delle
forme, anche se non scientifiche, secondo cui descrivere la sessualità: in
questo caso, ad esempio, l'analisi non andrebbe in direzione dell'episteme,
quanto piuttosto dell'etica. Altro esempio: l'analisi di un quadro. Per
analizzarlo è possibile indagare il discorso non detto del pittore, la sua
nascosta visione del mondo, l'epoca in cui si trovò a vivere e operare.
L'analisi archeologica, invece, segue un'altra direzione: considera se lo
spazio, i colori, la luce, le proporzioni, ecc. non siano stati concettualizzati
e enunciati in una certa pratica discorsiva, secondo precise forme di
insegnamento, di tecniche. Essa non vuole far vedere come la pittura sia un modo
di dire che non ricorre alle parole, ma dimostrare che la pittura è una
particolare pratica discorsiva caratterizzata da tecniche ed effetti: "… la
pittura non è una pura visione che si debba poi trascrivere nella materialità
dello spazio; tanto meno è un gesto nudo i cui significati muti e infinitamente
vuoti debbano venire enucleati da ulteriori interpretazioni. Essa è permeata
tutta quanta - e indipendentemente dalle conoscenze scientifiche e dai temi
filosofici - dalla positività di un sapere." È vero. Finora Foucault ha indagato
in direzione dell'episteme, ma solo perché le formazioni discorsive nelle nostre
culture tendono ad epistemologizzarsi. Ma come già detto all'inizio si tratta
solamente di un punto di partenza provvisorio e preferenziale per l'archeologia,
non di certo obbligato.
Nella conclusione del libro
Foucault presenta una serie di possibili obiezioni che potrebbero venirgli
mosse.