HANS GEORG GADAMER
VERITA' E METODO
DOMANDA: La sua opera principale, Verità e metodo, attrae subito per il suo titolo, che sembra promettere molto al lettore, e che pur tuttavia resta enigmatico. Ci può dire, a partire dal titolo, come va letto il suo libro? Qual è il tema principale?
Un titolo è soltanto un mezzo per attirare l'attenzione. Non può essere univoco e può suscitare una molteplicità di interpretazioni. Per il mio libro ho scelto questo titolo, con l'intento di soddisfare una duplice esigenza: far corrispondere il titolo al contenuto del libro e suscitare interesse per la problematica stessa. Il titolo Verità e metodo è stato spesso frainteso; addirittura è stato compreso nel senso opposto. Molti hanno pensato ad un nuovo metodo per raggiungere la verità, altri hanno affermato che per raggiungere la verità non è in generale necessario alcun metodo. Entrambe queste interpretazioni sono insensate. Mi sembra invece giusto interpretare il titolo in questo modo: non tutta la verità è raggiungibile percorrendo il cammino del metodo scientifico. Un esempio ne è l'arte.
Uno dei punti decisivi che intendevo sottolineare in Verità e metodo è che nelle scienze della natura il linguaggio non è un vero linguaggio, bensì un sistema di simboli matematici, che non può pretendere di rappresentare l'unica forma di comunicazione. Nelle cosiddette scienze dello spirito, nelle scienze umane, accade l'opposto. Nella matematica lo schema simbolico è al massimo un ausilio, mentre il vero elemento è dato dalla capacità del linguaggio di render presente qualcosa. Questa è la funzione svolta dal linguaggio nella poesia. E' di questo tipo l'intimo rapporto tra l'arte e la filosofia, in primo luogo tra l'arte della parola - il linguaggio poetico - e la filosofia. Questo rapporto è stato indagato profondamente a partire dal Romanticismo tedesco, al quale mi sono ispirato. Su questo tema è stata decisiva anche la potenza espressiva di Heidegger, pensatore geniale che usa il linguaggio con una nuova forza creativa. Ovviamente la mia non è stata un'imitazione; ho invece tentato di lavorare con i miei mezzi linguistici.
In Verità e metodo ho cercato di dare fondamento all'idea che il linguaggio abbia una funzione evocativa anche per il pensiero e ho tentato di fare dell'ermeneutica una filosofia generale, un approccio generale al mondo e non una tecnica speciale per l'interpretazione dei testi. Rispetto ad Heidegger, nella mia prospettiva, la questione diviene più complessa anche se, in parte, ho sviluppato alcuni motivi della sua filosofia. E' nota a tutti la famosa espressione heideggeriana: "il linguaggio parla". Nel mio libro credo di aver correttamente sviluppato il senso di questa espressione provocatoria senza essere però così provocatorio. Se si pensa, come facciamo comunemente, che non è il linguaggio a parlare, ma che siamo noi a usare il linguaggio, non si comprende il significato della formula heideggeriana; non si capisce, cioè, che quando qualcuno parla è condizionato da un orizzonte linguistico che lo precede, cioè dalle possibilità offertegli dal linguaggio per esprimere i suoi pensieri. La funzione del linguaggio, nel quale il pensiero diviene del tutto concreto, è stata accentuata da me per chiarire la nostra esperienza del mondo. Come ho precedentemente affermato, la matematica non è un linguaggio poiché è un sistema convenzionale. Il linguaggio autentico è invece quello del dialogo sviluppato da tutti gli uomini nel loro reciproco rapporto, un linguaggio precostituito, dentro il quale gli uomini crescono ubbidendo ad esso.
IL MIO CONTRIBUTO ALL’ERMENEUTICA (20/1/1998)
1. Come hanno influito Natorp e Heidegger sulla Sua formazione scientifica e filosofica? Quale significato rivestono Platone e Aristotele per il Suo cammino filosofico?
Quando avviai i miei studi di filosofia ho disatteso in pieno le aspettative e in primo luogo i desideri di mio padre, noto studioso di scienze naturali. Egli era molto scontento del fatto che mi interessassi di filosofia, delle belles lettres. Iniziai dunque i miei studi a Breslavia, in Slesia, con Richard Hönigswald, un eccellente rappresentante della filosofia neokantiana che, per così dire, mi ha preparato al neokantismo della Scuola di Marburgo, uno dei cui rappresentanti più autorevoli era per l'appunto Natorp. Questi era un uomo anziano, molto distinto, piccolo come uno gnomo, ed alquanto austero, una figura che incuteva un certo timore ad un giovane studente. Più tardi, occorre dire, un influsso maggiore di Natorp lo esercitò su di me Nicolai Hartmann. Era un giovane professore che mi accolse nella sua casa come un amico. Proprio per i rapporti conflittuali con mio padre, molto scettico data la sua formazione di scienziato, è stato per me di grande aiuto che Nicolai Hartmann mi abbia sempre lasciata aperta la porta di casa. Ed io ho veramente appreso molto da lui. Solo dopo aver concluso il dottorato andai a Friburgo per continuare i miei studi; lì allora insegnava Husserl, ed Heidegger era suo assistente.
In un certo senso Heidegger ha rappresentato l'appagamento di un desiderio che non mi era stato possibile soddisfare a Marburgo. L'esigenza, cioè, di accogliere la dimensione storica nella stessa filosofia. In effetti, solo grazie ad Heidegger sono stato in grado di assumere come compito e impegno filosofico la speculazione di Dilthey incentrata sull'origine storica del nostro pensiero. L'influsso di Heidegger è stato quindi determinante per me, nel senso che egli ha soddisfatto un'aspettativa in me già presente. Per quanto riguarda Platone, mi permetterei di affermare che è stato uno degli antenati della Scuola di Marburgo. E Natorp, in un libro diventato famoso, ha tentato di mostrare come Platone avesse in effetti già anticipato i concetti fondamentali di Kant. Io comunque sono stato educato a considerare ogni cosa da un punto di vista critico, ad indagare le diversità, e quindi anche quelle prospettive che non sono state concepite ed elaborate nell'epoca moderna. Questo è dovuto, in parte, all'influsso di Nicolai Hartmann e successivamente a quello di Heidegger. Raggiunsi poi Friburgo, dove Husserl mi accolse non tanto per studiare con lui la fenomenologia, quanto per studiare Aristotele con Heidegger. In verità Heidegger ed Aristotele costituivano una stessa cosa, poiché Heidegger allora viveva completamente in Aristotele, e questi riceveva una nuova vita attraverso la tecnica di descrizione fenomenologica di Heidegger. Aristotele ha un ruolo anche nella mia riabilitazione della filosofia pratica, penso per esempio al concetto di phrónesis.. Questo è stato il primo frutto della mia relazione con Heidegger, il primo dono ricevuto da lui. In seguito, ho potuto portare a buon termine la mia carriera di filologo classico in quanto allora mi capitò di ingaggiare una polemica con Werner Jaeger e la Scuola di Berlino; polemica che, peraltro, Jaeger considerò con molta benevolenza. Alla fine ho avuto anche la soddisfazione di aver ragione, benché questo sia emerso molto più tardi. Le mie tesi di allora sullo sviluppo dell'etica aristotelica sono oggi generalmente riconosciute e ritenute valide, ma a quel tempo Jaeger era d'opinione diversa.
2. Vorrei parlare della Sua opera Verità e Metodo. Quale spiegazione e quale chiarimento darebbe al titolo di questa sua opera fondamentale? Quale significato ha l'arte, se confrontata con la scienza, nella ricerca della verità?
Un titolo è sempre un mezzo per attirare l'attenzione. Il suo obiettivo non è quello di essere univoco, bensì di suscitare una molteplicità di pensieri. E così ho scelto questo titolo, ad opera terminata naturalmente, per soddisfare la duplice esigenza di far corrispondere il titolo al contenuto del libro e di suscitare interesse per la problematica stessa. Per questo il titolo Verità e metodo è stato spesso frainteso o, frequentemente, compreso in senso inverso. Molti hanno detto che si tratta di un nuovo metodo per raggiungere la verità, altri hanno affermato che per raggiungere la verità non è in generale necessario alcun metodo. Entrambe queste interpretazioni sono insensate. Mi sembra invece giusto interpretare il titolo in questo modo: non tutta la verità è raggiungibile percorrendo il cammino del metodo scientifico. Un esempio ne è l'arte, quale esperienza extrametodica della verità.
Uno dei punti decisivi per me è che nelle scienze della natura il linguaggio in realtà non è linguaggio, ma un sistema di simboli matematici, il quale rappresenta l'unica modalità espressiva corretta. Nelle cosiddette scienze dello spirito, nelle scienze umane, o, per dirla con un'espressione inglese, the humanities, accade l'opposto. Qui la matematica, o lo schema simbolico, è al massimo un ausilio, mentre il vero elemento è dato dalla capacità del linguaggio di render presente qualcosa. Ciò si avvicina molto alla funzione svolta dal linguaggio nella poesia. È dunque di questo tipo l'intimo rapporto tra l'arte e la filosofia, in primo luogo tra l'arte della parola, il linguaggio poetico e la filosofia. Rapporto questo che ha incontrato molta considerazione ed è stato ampiamente condiviso a partire dal romanticismo tedesco. Da qui ho ripreso qualcosa ed in questo contesto costituirono un invito particolare l'arte e la potenza espressiva di Heidegger, pensatore geniale che in effetti usa il linguaggio con una nuova forza creativa. La mia non è stata un'imitazione, ho invece tentato di lavorare con i miei mezzi linguistici. Nel mio libro ho cercato di dare fondamento all'idea che il linguaggio abbia una funzione evocativa anche per il pensiero.
3. Come esprimerebbe, in modo molto breve e sintetico, il significato della parola "ermeneutica", anche in relazione al concetto di diritto, di attività giuridica?. C'è una qualche analogia con Buber?
La parola ermeneutica deriva da una parola greca, che significa quello che da Lei in Italia viene detto "interprete". Quindi, si tratta di qualcuno che rende comprensibile e trasmette linguisticamente un linguaggio non comprensibile. L'ermeneutica è perciò l'arte di entrare in dialogo con i testi o con le altre formulazioni concettuali. Per questo essa è strettamente connessa al "principio dialogico" della filosofia. E questo è anche il motivo della forza attrattiva che Platone e Socrate esercitano su di me.Certamente la giurisprudenza ha un ruolo nella mia concezione dell'ermeneutica. Ma, soprattutto, nell'elaborazione della problematica mi fu chiaro che nella storia dell'Occidente avevo avuto due grandi maestri: la giurisprudenza, in cui da sempre l'ermeneutica come parola e come disciplina ha avuto diritto di cittadinanza, e, corrispondentemente la teologia.
Ovviamente vi sono forti analogie con Buber. Si trattava infatti della stessa situazione cui pervenni io. Ho conosciuto molto bene Buber. Come dicevo, percepimmo la stessa carenza nell'idealismo tedesco di tipo neokantiano, allora dominante. Secondo quest'ultimo tutto, per così dire, viene sviluppato dalla soggettività, intesa come "io pensante"; "l'altro" diviene qui inutile, privo di significato. Buber con la sua opera è stato uno dei primi a mostrare tale carenza. Quando ho usato l'espressione "principio dialogico" intendevo citare proprio l'opera di Buber. La modalità però in cui Buber si è espresso era per così dire di tipo letterario, legata alla letteratura. Egli non era un pensatore accademico, era piuttosto un grande scrittore: certamente aveva anche una tempra di pensatore, ma soprattutto sulla base della tradizione chassidica che aveva rinnovato come poeta. In questo ambito non era un vero e proprio ricercatore, come invece era Scholem, ma qualcuno che avvertiva l'assenza del "momento dialogico" nella nostra cultura filosofica. Successivamente, dopo la guerra, mi sono spesso incontrato con lui.
4 "Storia degli effetti", Wirkungsgeschichte, è una famosa espressione della Sua opera, Verità e metodo. Potrebbe spiegare brevemente quest'espressione?
Per quanto riguarda la prima domanda la spiegazione non è molto difficile. In primo luogo l'espressione fondamentale, da Lei indicata, è "coscienza della determinazione storica". Essa consiste nel compito di avere coscienza del fatto che il nostro punto di partenza non è un principio primo, una certezza suprema. Noi infatti ci troviamo già sempre in certe condizioni storiche, spirituali, naturali. In questo senso l'"effetto" è qualcosa che ci condiziona. D'altro canto, è chiaro che anche il nostro agire intellettuale dà luogo a un "effetto". La "coscienza della determinazione storica" va per così dire in due direzioni, quella della condizionatezza in cui noi ci troviamo e quella della condizionatezza che noi produciamo. Questo è ciò che si chiama produrre, dar luogo alla tradizione: riconoscere di essere condizionati e nel contempo porre nuove condizioni nel rapporto con il mondo. Ecco come si sviluppa il decorso dell'accadere spirituale dell'umanità. In questa valutazione della tradizione emerge una certa opposizione all'illuminismo. Non c'è da meravigliarsi, poiché l'illuminismo, come del resto tutti sanno, ha provocato la reazione romantica che per prima ha fatto valere la concezione della tradizione contro l'ideale dei Lumi. Naturalmente l'illuminismo rimane un compito umano ovunque il bisogno e la verità spirituale lo giustifichino. Io stesso non lo contesterei mai, in questo senso. Mi trovo però a vivere in un momento successivo all'illuminismo e credo che dobbiamo riconoscere i suoi limiti, proprio in quanto esseri umani. Finora nessun illuminismo è riuscito ad eliminare la morte.
5. Potrebbe brevemente caratterizzare, in base a Verità e Metodo, la peculiarità del Suo contributo alla storia dell'ermeneutica, rispetto ai precursori? Com'è il suo rapporto con Habermas?
Prescindendo in un primo momento da Heidegger, direi che per gli altri la risposta è semplice. Ho tentato di fare dell'ermeneutica una filosofia, ossia ho fatto in modo che essa venisse considerata un approccio generale al mondo e non un semplice ausilio metodico della conoscenza. Rispetto ad Heidegger la questione diviene più complessa poiché, proprio con la posizione fondamentale del linguaggio, ho aderito e sviluppato le sollecitazioni della sua filosofia. Lei conosce la famosa espressione heideggeriana "Il linguaggio parla". Credo di aver correttamente sviluppato il senso di quest'espressione provocatoria senza essere però così provocatorio. Se si afferma che non è il linguaggio a parlare, ma noi stessi, non si è compreso il significato di tale espressione; non si è compreso cioè che quando qualcuno parla è dipendente dalle possibilità offertegli dal linguaggio per esprimere i suoi pensieri. La funzione del linguaggio, secondo cui solo in esso il pensiero diviene del tutto concreto, è stata da me accentuata in primo luogo per chiarire la nostra esperienza del mondo. Come ho precedentemente affermato, la matematica non è un linguaggio poiché si tratta di un sistema convenzionale. Il linguaggio è invece quello del dialogo sviluppato da tutti gli uomini nel loro reciproco rapporto, un linguaggio che è anche precostituito, entro cui gli uomini crescono adeguandovisi. Tutti conoscono la "genialità" del linguaggio infantile nei bambini di circa tre anni. Qui non sussiste alcun limite della grammatica e della correttezza, ed è affascinante vedere quanti nuovi poeti si affaccino al mondo dell'esperienza.
Ho condotto una discussione con Habermas, relativa al rapporto tra scienza e ragion pratica. Prendendo le mosse dall'ermeneutica, come nel mio caso, tale rapporto concerne il modo in cui gli uomini giungono a convinzioni comuni all'interno della società e nei rapporti interumani. Questo non riguarda prioritariamente i procedimenti scientifici, ma la dinamica dello scambio reciproco fra i soggetti del dialogo. Habermas però suppone che esista un controllo scientifico ed una critica del modo in cui gli uomini formano le loro convinzioni. Senz'altro vi è una critica, ed è la critica incessante dell'intero dialogo che gli uomini conducono fra loro. Io mi sono difeso quando Habermas mi ha detto: "Nel Suo pensiero manca il momento critico dell'illuminismo". Direi di no! È Habermas che continua a pensare nei termini dell'illuminismo sviluppandone i presupposti critici. Ma se qualcuno parla con un altro e prende sul serio ciò che questi dice è già consapevole di esercitare una critica. Ascolterei molto volentieri che cosa Lei pensa criticamente, così imparerei qualcosa sui miei pensieri. Certamente ad un uomo che pensa in modo dialogico non si dovrebbe rimproverare l'assenza dell'elemento critico nel pensiero. E se Habermas crede di poter sostituire l'elemento critico con la scienza, allora non sono più d'accordo con lui.
IL COMPITO DELL’INTELLETTUALE (13/1/1999)
Dialogo tra Gerardo Marotta e Hans-Georg Gadamer
MAROTTA: Professor Gadamer nel Suo ultimo libro - da poco uscito in Germania e che viene preparato anche per la pubblicazione in italiano - Lei, parlando della gravità della crisi che investe l'Europa e il mondo, richiama alla mente l'esperienza di Platone nella Grecia della decadenza, ed afferma che la situazione europea è un po' simile, e che i filosofi, i pensatori si trovano oggi di fronte ad una situazione simile a quella nella quale si trovò Platone nell'esperienza che egli ebbe nell'Atene della decadenza. Cioè Platone si trovò di fronte al fallimento della classe politica di quel tempo, di fronte ad errori gravi di quella classe politica, per cui, quando dovette assistere nientemeno che alla condanna a morte del suo maestro Socrate, comprese e dovette concludere che la politica non era la strada attraverso la quale si dovessero risolvere i problemi della democrazia ateniese e della civiltà ateniese; e quindi non restava al vero uomo di cultura, al vero filosofo, che votarsi tutto alla filosofia, dedicarsi tutto alla filosofia, per creare una nuova classe dirigente. Ecco perché Platone fondò l'Accademia. Lei ritiene quindi - constatato che ci troviamo in questa crisi per cui siamo di fronte all'incapacità delle classi dirigenti di risolvere politicamente il problema - che oggi il filosofo debba dedicarsi tutto alla filosofia e che la filosofia possa rappresentare una soluzione per i nostri gravi problemi?
GADAMER: Penso sia molto istruttivo il paragone da cui Lei muove. La situazione di una civiltà in declino, come quella dell'Atene classica, è certamente analoga all'attuale situazione europea. Ciò che allora si intendeva per filosofia, philosophia, è attualmente rappresentato dall'intero mondo delle scienze con l'inclusione di ciò che anche oggi si chiama filosofia. Si tratta quindi di vedere come la cultura scientifica moderna possa intervenire, con il suo sapere e potere, nell'agire politico. Il politico di oggi opera in una situazione in cui diviene difficile l'attuazione delle idee scientifiche e filosofiche. La moderna democrazia si basa su elezioni e su legislature della durata di quattro o cinque anni, ma il destino del mondo dipende da decisioni, da scelte che hanno conseguenze durevoli e vanno molto al di là di questo lasso di tempo. L'attuale problema europeo, davanti al quale stiamo, è questo: quattro anni di governo presentano una sproporzione, una discrepanza rispetto a scelte che decidono di decenni, di secoli e forse dello stesso destino del pianeta.
2)
MAROTTA: Tutti noi ammiriamo che Lei dalla Sua Heidelberg, a novanta anni, ogni anno compie un giro per i paesi d'Europa, specialmente in Italia, e anche negli Stati Uniti, per istruire i giovani: in questo modo Lei dimostra di sentire la responsabilità della Sua posizione di uomo di cultura, Platone direbbe di vero uomo di cultura. È infatti molto importante comprendere la differenza tra intellettuale di mestiere, di professione e il vero uomo di cultura, il vero filosofo. Da tutta la Sua esperienza si ricava come oggi la responsabilità dell'intellettuale, la responsabilità del vero uomo di cultura, sia in primo piano e che dalla cultura dipendono le sorti dell'umanità. Del resto Lei nella Sua risposta - chiarendo come per vera filosofia oggi si intenda il complesso della filosofia e delle scienze, che era tutto riassunto nell'antichità nella sola filosofia, madre di tutte le scienze - dà una responsabilità globale agli intellettuali, siano essi filosofi, siano essi scienziati. Eppure gli uomini di cultura di oggi sembrano chiudersi nel loro "particulare". È difficile trovare una personalità come Lei. Direi che i filosofi si sono chiusi nell'accademia, ed in fondo la figura dell'intellettuale si sia rimpicciolita rispetto agli aumentati bisogni del mondo, al bisogno enorme di vera cultura che ha l'umanità per potersi salvare. Gli uomini di cultura dovrebbero indicare una strada nuova, e i valori per formare un'umanità nuova, un'umanità diversa, che non sia guidata dai vecchi schemi e dai vecchi valori. Direi che l'intellettuale di oggi, l'uomo di cultura di oggi, non solamente si è rimpicciolito nei suoi orizzonti, ma non si può fare alcun paragone con gli uomini di cultura del '500, del '600, del '700, i quali avevano ben più chiara la missione dell'Europa, i doveri dell'Europa verso il mondo, e della cultura europea in particolare. Di fronte a fenomeni ed eventi storici terribili e drammatici - come quelli della conquista del Nuovo Mondo, del genocidio perpetrato nel Nuovo Mondo nella cancellazione delle grandissime civiltà degli Atzechi, degli Incas, dei Maya, degli orribili delitti perpetrati dai colonizzatori spagnoli e portoghesi - i grandi intellettuali e i grandi umanisti, come Bartolomeo de las Casas, Montaigne, Paracelso, Erasmo da Rotterdam, levarono alta la protesta per queste infamie dello spirito di rapina che si era andato formando nella mentalità europea, e seppero affrontare anche le monarchie. Las Casas infatti si è rivolto con grande fermezza a Carlo V, a Filippo II, da pari a pari, protestando per quello che avveniva nel Nuovo Mondo e contestando la politica delle monarchie. Questo coraggio, questa forza enorme che ebbero quei grandi umanisti - anche se essi rimasero sconfitti e vinse e prevalse lo spirito di rapina - questa forza, questa capacità di intervenire nella "cosa pubblica", nella politica, oggi non c'è più. E non c'è più nemmeno quello spirito illuminista degli intellettuali del '700 in Europa i quali, anche attraverso sofisticati mezzi letterari, seppero assumere, nelle loro opere, la parte del persiano, la parte dell'egiziano che giudica l'Europa, e seppero quindi studiare anche queste altre civiltà per mettersi dalla parte degli interlocutori dell'Oriente che, vedendo l'Europa, coglievano la situazione disperata nella quale si trovava. E quindi bisogna riconoscere che di fronte all'altissima coscienza di un Montesquieu, di un Diderot - il quale pubblica un intero volume sotto il nome di Raynal per criticare la politica europea - di fronte a uomini come Ferdinando Galiani, Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri che hanno saputo ergersi contro i governanti, contro coloro che dirigevano la politica europea, per dire che non era quella la via giusta, oggi l'intellettuale è ben poca cosa di fronte ai bisogni dell'umanità. E se noi guardiamo veramente la situazione della cultura europea, dobbiamo dire che non solamente l'intellettuale non riesce ad essere all'altezza della gravità della situazione, ma la sua stessa cultura non ha lo spessore di quella che è stata la cultura dei grandi umanisti, degli illuministi e di quella che è stata la grande cultura tedesca, del romanticismo tedesco, della filosofia classica tedesca, e neanche , voglio dire, lo spessore di quella che era la cultura delle grandi figure come Gadamer, come Löwith, come Husserl. Praticamente non c'è niente di simile. Eppure il bisogno dell'Europa e del mondo è aumentato, nel senso che richiede che sorgano intellettuali di grande coscienza, di grande responsabilità, che sappiano interpretare il loro tempo e sappiano soprattutto comprendere il loro tempo, il compito che Hegel aveva assegnato ai filosofi. Di fronte a questa situazione, di fronte ad una situazione in cui manca anche la coscienza storica, sembra che gli intellettuali si diano tutti da fare a levare clamori alti, ed a confortarsi della crisi del marxismo e della crisi del mondo comunista, quasi per indicare il valore delle vecchie vie della politica europea; quelle vecchie vie che hanno portato al fallimento dell'Europa, alla perdita del suo ruolo di guida della civiltà, come un giorno Atene perse il suo ruolo di guida della civiltà, quando volle organizzare la guerra e la spedizione contro le città greche della Sicilia e andò incontro alla rovina. Rovina che le preannunciavano i grandi uomini di cultura ateniesi, i quali però non furono sentiti, non furono ascoltati. La spedizione partì e la flotta ateniese fu distrutta nei mari di Sicilia. Ora sembra quasi che la soluzione di tutto il problema sia la caduta del mondo comunista, la crisi del mondo comunista, e che questa crisi sia risolutiva di tutto. Gli intellettuali non hanno la capacità e l'altezza di comprendere che i problemi invece rimangono tutti sul tappeto, come è detto nel Suo libro sull'eredità dell'Europa. I problemi restano tutti sul tappeto. E quindi in questa cornice, in questo quadro, si inserisce il problema della crisi del marxismo. Il marxismo è entrato in crisi più volte nel nostro secolo. Cioè praticamente il marxismo indicava semplicemente - e soprattutto l'interpretazione che si faceva del marxismo - come i problemi dell'umanità fossero tutti economici e non si trattasse invece di costruire un nuovo uomo con altri valori, una nuova umanità con altri valori che non fossero quelli del successo, dell'arricchimento, del saccheggio, della rapina. Ed in sostanza l'Europa è rimasta quella dei mercanti, è rimasta quella delle gare economiche, quella delle preoccupazioni finanziarie e delle scalate alla ricchezza. La habendi rabies, "l'avidità di possesso", che caratterizza oggi tanta parte del mondo, e che sembra al centro degli interessi del mondo, fu criticata invece dai grandi intellettuali dei secoli passati. Oggi naturalmente spetta agli economisti, ai filosofi, agli scienziati saper immaginare un nuovo mondo, saper indicare le vie d'uscita da questa gravissima crisi. Lei ha scritto un meraviglioso articolo per "Il Mattino" in cui appunto addita all'Europa la possibilità di una catastrofe se a un certo punto non si cambia la guida del mondo, non si cambiano i criteri di guida del mondo. Questo mi pare debba essere posto al centro invece di irridere semplicemente alla crisi di una ideologia, lasciando sul tappeto invece insoluti i veri, gravi problemi dell'umanità che si sono accumulati e sono diventati sempre più gravi nei secoli. La sconfitta dell'umanesimo è il punto da cui noi dobbiamo ripartire per una ripresa della coscienza storica europea. Non Le sembra Professore?
GADAMER: In un'epoca di transizione, come quella in cui viviamo, è molto difficile considerare compiti a breve scadenza. Nella Sua esposizione Lei ha giustamente incluso non solo Atene, ma anche gli albori dell'Europa. Questa ha esercitato così a lungo la sua egemonia culturale ed economica da porci oggi di fronte a compiti del tutto nuovi, al cui interno però l'impegno dell'Europa non si è rimpicciolito, ma è diverso. Cosa può attendersi dalla cultura l'impegno per il risanamento dell'umanità su questo pianeta? La cultura ha un grande vantaggio rispetto a tutti gli altri beni che hanno un ruolo nella vita politica; questi ultimi sono fatti in modo tale da diminuire se vengono ripartiti, se ne riceve solo una parte. La cultura invece è l'unico bene dell'umanità che diventa più grande se molti partecipano ad essa. Questo è per cosi dire l'impegno, il compito del futuro. Viviamo in un mondo in cui non si tratta più solo di ripartire i beni per avere una più equa distribuzione tra ricchezza e povertà, tra la mancanza di presupposti per una vita sana e buona e la sovrabbondanza di lusso e di civilizzazione. L'Europa ha un pesante destino in quanto potenza economica di primo piano, alleata ad altre due grandi potenze economiche che mettono in opera e sviluppano i fattori determinanti della scienza europea. Perciò dubito molto che l'impresa di risanamento possa riuscire se non eleviamo, non incrementiamo la nostra cultura, ossia se non favoriamo la comprensione reciproca per le cose che determinano la qualità della vita. Qui forse possiamo realmente trovare il giusto insegnamento, l'indicazione del giusto cammino. Partendo dalle mie idee e convinzioni filosofiche parlerei a questo proposito di riflessione ermeneutica. Sono cioè convinto che noi non ci conosciamo così bene come ci conoscono gli altri, e gli altri non si conoscono così bene come li conosciamo noi. Questo è il destino dell'uomo, egli è così dominato dai propri interessi e dalle passioni da non riuscire ad ascoltare, a prestare attenzione a ciò che in fondo anima tutti. La crisi del marxismo è stata in sostanza la crisi dell'applicazione di un'importante forma politico-sociale e politico-economica e dei suoi obiettivi di dominio. Si tratta quindi di qualcosa di completamente diverso dalla cooperazione tra la massa degli uomini, che conducono la loro vita, e la classe dirigente, i politici, gli economisti. Il compito del futuro riguarda la presa di coscienza del fatto che non c'è una realtà ideale, ma possono tuttavia esistere approssimazioni alla comprensione reciproca e si può giungere a forme di solidarietà. Ne è un esempio l'ecologia o il fatto che tutte le decisioni da prendere sono possibili, al giorno d'oggi, solo grazie alla cooperazione di tutti i paesi del mondo. Noi possiamo contribuire alla formazione di una coscienza che ci faccia riconoscere questi compiti come "nostri". A questo scopo dobbiamo indebolire gli egoismi nazionali, gli egoismi personali e distogliere l'uomo dall'ossessione di perseguire le proprie mete. Se vogliamo sopravvivere si devono poter considerare gli altri in relazione con noi, come qualcosa di analogo a noi, come un'istanza che possa continuamente liberarci dall'abbaglio e dall'accecamento. Questo mi sembra essere il compito della cultura. E quella riflessione filosofica, capace di fondare questo compito contro tutte le obiezioni di coloro che la pensano diversamente, mi sembra faccia sperare in un reale esito positivo del futuro processo educativo, il quale, credo, abbia bisogno di molti decenni. Io posso soltanto esortare alla tolleranza, alla perseveranza e alla tenacia. L'avanzare del potere scientifico moderno, la rivoluzione industriale, nella quale viviamo, sono cose che, pian piano, devono trovare nuove forme di adattamento ai compiti politici del futuro. Noi - ossia gli uomini che hanno a che fare con la cultura - possiamo forse preparare l'atmosfera per la disponibilità alla vera cooperazione fra le potenze guida dell'attuale umanità. Questa è la speranza con cui un filosofo guarda al futuro, verso cui nutre preoccupazione, ma anche fiducia; quella fiducia secondo cui, nel corso della storia europea e dei suoi presupposti cristiani, la ragione umana e, in definitiva, il sentimento di solidarietà fra gli uomini sono diventati molto diversi rispetto ai difficili tempi del passato, in cui non si consideravano con molta attenzione gli interessi degli altri, dei popoli limitrofi, degli avversari, dei rivali. Questa è per così dire la visione del ruolo della cultura nella vita dell'umanità che può avere un osservatore misurato, obiettivo e realista.
3)
MAROTTA: Professore, oggi che tutta l'Europa festeggia il Suo novantesimo compleanno e si riconosce in Lei perché La giudica il rappresentante più illustre della cultura europea e vede in Lei la più grande coscienza europea, potrebbe parlarci della Sua esperienza in Italia e spiegarci i motivi della Sua predilezione per l'Italia? Il Suo annuale viaggio in Italia è stato un po' paragonato ai viaggi di Platone nella Magna Grecia per attingere alla filosofia pitagorica e alla filosofia eleatica. Come Lei giustamente ha detto, l'Atene del quarto e del quinto secolo è un luminoso esempio di civiltà, ma tardo rispetto alla Magna Grecia del sesto secolo. Qui Platone è appunto venuto ad attingere il concetto della aletheia, della verità, dalla filosofia eleatica e ha inteso apprendere la matematica, la politica dai pitagorici. Ora Lei è stato chiamato il nuovo Platone, i suoi viaggi sono stati raffigurati e paragonati a quelli di Platone. C'è un'altra domanda che si fanno tutti in Italia: perché Hans-Georg Gadamer predilige soprattutto insegnare i temi della filosofia greca, del pensiero antico ? Ci si chiede come mai il Suo vademecum siano i libri di Platone e di Aristotele e perché Lei tenga a dare ai giovani, a trasmettere ai giovani, questi contenuti del pensiero antico e non insegni che raramente i principi della Sua filosofia. Anche se è vero che la Sua Weltanschauung ed i Suoi principi filosofici poi si inverano nell'insegnamento che Lei fa della filosofia antica e che quindi Lei tiene sempre presente i Suoi principi, la Sua filosofia, quando insegna i temi della filosofia antica. Allora ci racconta questo Suo viaggio di nuovo?
GADAMER: Grazie. Vorrei dire per prima cosa che naturalmente sono uno dei molti che per fortuna esistono ancora in Europa e riconoscono con piena consapevolezza l'impegno del nostro tempo per il futuro come un "compito proprio". Non sono così straordinario. Lei però ha fatto due domande. La prima riguarda il motivo per cui considero tanto importante l'insegnamento e la trasmissione della mia filosofia, delle mie idee filosofiche negli altri paesi. L'altra domanda riguarda il motivo per cui nel mio insegnamento filosofico ha un ruolo decisivo la filosofia greca. In effetti entrambi le questioni sono strettamente connesse. Infatti quello che viviamo nel nostro mondo attuale è la crisi di un'incredibile unilateralità, vediamo l'uomo insorgere contro la natura impugnando l'arma della scienza. L'energia con cui questa piccola Europa, con le sue idee civilizzatrici e con la sua potenza tecnologica, si è estesa in tutto il mondo, ci esorta ad indagare come sia possibile raggiungere un equilibrio migliore nella nostra vita; un equilibrio che permetta di non consumare più le nostre energie solo nella caccia furiosa di progresso, ma di promuovere nuovamente, attraverso l'arte ed il pensiero, il sorgere di grandi creazioni, volte alla cura e all'abbellimento della nostra vita, al suo arricchimento, e a promulgare così altri valori che possano attestarsi fra gli uomini e rendere felice l'umanità. Questo è il nostro peculiare compito. Ciò comporta un ritorno alle radici, alle origini da cui l'Europa si è sviluppata divenendo una potenza egemone nel processo di civilizzazione e nel campo economico. All'Europa appartengono anche gli Stati Uniti d'America e l'odierno Giappone. Entrambi sono in effetti conseguenze, emanazioni dell'enorme processo della rivoluzione industriale. Come possiamo, all'interno della rivoluzione industriale e delle sue conseguenze, scegliere strade ed evidenziare forme che producano in questo mondo nuove forme di solidarietà tra la massa degli uomini e le forze guida e produttive? La mia filosofia è soltanto una delle formulazioni di questo compito, ma con essa spero di risvegliare, di sensibilizzare proprio la coscienza dei giovani e di far dire loro: "Ciò che è ora in gioco ci riguarda. Spetta dunque a noi iniziare a trovare, in modo misurato e tenace, le nuove forze che la vita richiede affinché l'incessante e furioso progresso non ci porti alla rovina ". A questo scopo possiamo apprendere molto dai greci e dalla cultura umanista che si nutre di quella greca. E se l'Italia è così attraente per me, ciò è dovuto principalmente al fatto che in questo paese la tradizione umanista, corrispondente allo spirito del popolo italiano, ha conservato una certa sensibilità per la misura, per la moderazione. Noi tedeschi abbiamo una modalità di vita del tutto opposta, siamo sempre spinti a prendere posizioni estreme e radicali, siamo abituati a lavorare energicamente. Ciò ha delle conseguenze. Nella produzione intellettuale, nella sfera del pensiero non siamo certamente gli ultimi, ma non abbiamo la coscienza naturale della misura, palesemente presente invece nella cultura latina e in quelle particolari forme, assimilate dal mondo culturale italiano, che trovo affascinanti ed istruttive. Questo è anche, in parte, il motivo per cui vengo volentieri in Italia ad insegnare filosofia. Sono andato anche in America e dovunque possa divulgare le mie idee avvalendomi, in una certa misura, della mia conoscenza delle lingue straniere. Non è possibile insegnare filosofia senza l'immediata capacità persuasiva del linguaggio vivo, parlato. Affidandosi soltanto alle traduzioni non si può destare, stimolare e rafforzare la capacità creativa del pensiero, non rimane quindi altro che avvalersi della lingua madre di ogni paese in cui si desidera esporre, divulgare le proprie idee. Questo è il motivo per cui ho iniziato, a questa tarda età, a viaggiare e a non insegnare soltanto nel mio paese, bensì, finché ne sarò in grado, anche in altri continenti, in altri ambiti e cerchie culturali. Purtroppo non parlo il giapponese, il cinese e il russo, ma se avessi saputo anche queste tre lingue avrei senz'altro raggiunto questi paesi per insegnare e divulgare i miei pensieri, e tentare così di rafforzare la solidarietà fra gli uomini, la loro disponibilità a quel colloquio che il futuro ci richiede.
4)
MAROTTA: Lei ha dichiarato, in un'intervista molto nota, che l'incontro della cultura, della filosofia, del pensiero occidentale con le grandi civiltà orientali, si è reso al giorno d'oggi indispensabile per la creazione di nuove categorie di pensiero che possano esprimere nuovi valori per l'umanità futura, e che questo potrebbe essere una delle vie per risolvere la crisi nella quale si trova l'umanità. L'incontro tra la civiltà occidentale e quella orientale può creare nuove categorie di pensiero. Vuole chiarire questo concetto delle nuove categorie di pensiero? Sembra una cosa molto interessante, che è stata seguita con molto interesse. Che cosa intende Lei per creazione di nuove categorie di pensiero attraverso l'incontro di queste civiltà? In effetti tutti coloro che si sono interessati in questo secolo alla civiltà orientale non hanno saputo porre l'accento su questo punto. Hermann Hesse ha espresso la sua grande ammirazione per le civiltà dell'Oriente, però non è stata mai indicata così concretamente, specificamente, come Lei ha indicato nelle Sue interviste, questa via nuova, questa strada della creazione di nuove categorie di pensiero come risultato di questo incontro delle civiltà occidentali e orientali. In fondo, Professore, l'Europa è una cattiva pedagoga, ha usato l'oppio per mettere in ginocchio la classe dirigente cinese. Il Ministro dell'Imperatore chiese: "Perché la Regina Vittoria, che è il capo di una grande nazione, manda qui l'oppio per mettere in ginocchio la nostra burocrazia e la nostra gioventù?". La cultura europea non è riuscita a passare per l'interno degli europei, nell'anima degli europei, ma è diventata qualche cosa di esterno, un patrimonio esterno; come quando si comprano i quadri o si espongono nei musei. Essa non è passata nell'anima occidentale. La tradizione del grande umanesimo e dell'esperienza cristiana non sono passate all'interno; anzi subito dopo la sconfitta dell'umanesimo si è pensato a scristianizzare l'Europa.
GADAMER: Certamente, è proprio dell'egemonia della cultura scientifica basarsi sul monologo. Rispetto alle altre culture noi tutti abbiamo disimparato che non è il monologo e l'impiego delle autorevoli competenze degli esperti scientifici a promulgare la vita, ma lo scambio dialogico, lo scambio che avviene nel dialogo, nella disputa e nella lotta fra le opinioni. Dobbiamo pensare alla retorica, ma non nel senso di un'arma nelle mani dei potenti, bensì come capacità persuasiva delle idee. Ecco perché guardo ai greci con tanta ammirazione. Per questo popolo era naturale discutere in modo sentito, vivace per le strade e nelle piazze di Atene o di altre città. Dobbiamo ritornare alla dimensione del dialogo e sviluppare, completare in questo senso la nostra cultura, divenuta eccessivamente letteraria; dobbiamo cioè tendere ad un dialogo reale all'interno di tutta la cultura dell'umanità. Questo è l'impegno, il compito che riguarda tutti noi. E i nuovi strumenti tecnici, come la radio e la televisione, devono essere impiegati in questa direzione favorendo la diffusione del dialogo. Cosa, del resto, molto difficile poiché si tratta di istituzioni basate sul monologo. I privilegi delle stazioni radio e degli enti televisivi dipendono dal potere di coloro che di volta in volta lo detengono. Ogni rivoluzione del mondo attuale è legata in primo luogo alle stazioni radio e televisive perché l'opinione pubblica trae le sue tendenze di fondo da questi mezzi di divulgazione. Il dialogo dunque, cui pian piano si deve giungere, non è il dialogo degli esperti. Dovrebbero invece essere i popoli, nel loro reciproco scambio e rapporto, a prendere la parola. La mancanza di consenso è stata la catastrofe del comunismo negli ultimi anni. E la mancanza di consenso è catastrofica per la conquista di un'armonica vita sociale e politica. Anche la rivoluzione francese è stata un'esplosione dovuta alla mancanza di consenso, di accordo tra la classe dominante ed il popolo. Abbiamo bisogno di un nuovo accordo tra l'umanità e le grandi forze e potenze, responsabili del destino dell'uomo. Abbiamo bisogno del consenso, dell'accordo fra gli uomini. Seguo con una certa speranza il modo in cui i giovani di tutti i paesi iniziano lentamente a comprendere il problema ecologico. Anche questa è una strada per modificare la coscienza. E solo grazie ad una modificazione della coscienza possiamo sperare di dar vita, di produrre una nuova coscienza comune.
5)
MAROTTA: Pericle, apprendiamo da Tucidide, si rivolgeva ad Atene esortandola seguire i più grandi ideali, a diventare Scuola dell'Ellade, cioè maestra e guida di un mondo più grande. Invece Atene non stette a sentire questi avvertimenti e, dopo la morte di Pericle, si gettò nell'avventura della spedizione contro le città della Sicilia. E - dice Tucidide - da allora cominciò la decadenza di Atene e di tutta l'Ellade.
GADAMER: È giusto, ma allora si trattava di un mondo che aveva modalità di formazione del tutto diverse. Il peculiare destino del nostro mondo è l'interdipendenza. La dipendenza reciproca di tutte le cose è divenuta così enorme, che lo stesso avvicendarsi delle legislature non può incidere in profondità, come a quel tempo poteva incidere l'iniziativa del singolo. Questo vale anche nell'ambito intellettuale e scientifico. Esso è divenuto un sistema in cui effettivamente il semplice intervento di piccoli integrali condiziona la nostra coscienza. Noi non sappiamo, nessuno di noi, né Lei né io, sa cosa può realmente dare, a cosa può realmente contribuire il nostro lavoro per il futuro. Noi tutti però dobbiamo vivere nella consapevolezza che il nostro contributo è teso a favorire la solidarietà e a rasserenare il futuro dei nostri giovani, il futuro della nostra cultura. Si deve sempre considerare che a quei tempi il singolo aveva ancora una considerevole capacità di plasmazione e formazione. Non dobbiamo dimenticare che oggi la stabilità, la solidità delle istituzioni ci preserva in molti casi dal commettere errori. Montesquieu, che Lei ha giustamente citato, nel suddividere i poteri ha indicato un principio con cui è possibile salvaguardarsi dagli errori e dall'abuso del potere. E questo accade anche nelle nuove normative della cooperazione internazionale. La Comunità Europea offre uno scenario in cui costantemente si può vedere come le potenze nazionali ed i loro egoismi debbano di continuo accordarsi con le istanze, le responsabilità internazionali. Non avremo mai condizioni ideali ma, grazie alla ricerca di condizioni ideali, speriamo tuttavia di dare lentamente spazio - non solo in Europa, ma anche in Africa, nell'America del Sud, nel vasto mondo orientale dell'impero russo - a condizioni di vita accettabili, e chissà persino migliori di quelle attuali, sperando così di mettere in atto nuove forme di solidarietà.
6)
MAROTTA: Resta però il problema che la grande voce della cultura, le grandi tradizioni culturali europee non hanno salvato il mondo dalle due guerre mondiali. E quindi ha prevalso l'Europa della barbarie, l'Europa dello spirito di rapina sull'Europa della cultura. L'Europa della cultura ha perso ancora una volta. Come hanno perso i grandi umanisti, così oggi ha perso l'Europa della cultura, perché le due guerre mondiali sono una tragica testimonianza della prevalenza dello spirito di rapina. E riuscirà la cultura europea ad imporsi sugli sviluppi della scienza e delle tecnica? Riuscirà la grande tradizione culturale europea ad imporsi perché gli esiti della rivoluzione industriale non siano nefasti e la scienza e la tecnica servano invece per salvare l'umanità che aspetta, mentre i quattro quinti del mondo sono condannati alla fame, mentre l'Europa continua, attraverso la sua politica finanziaria, a sfruttare tutto il mondo e a condannare il mondo alla fame? Il rapporto che negli Stati Uniti d'America ha fatto il Dipartimento di Stato, dice: "Come abbiamo distrutto il continente africano". Cioè oggi si ha coscienza del male, ma non si riesce a prendere la strada del bene perché la grande tradizione culturale europea non è all'interno dell'anima europea, non è riuscita a convincere. Ecco perché Croce diceva che solo le grandi religioni, i grandi movimenti religiosi riescono a prendere l'anima dell'uomo. E quindi l'uomo è rimasto come deserto di ideali e si arrabatta a sopravvivere in questa lotta stupida e piuttosto insignificante, banale rispetto a quello che sono i grandi compiti dell'umanità.
GADAMER: Sono completamente d'accordo con Lei nel ritenere incredibilmente difficile il compito da attuare. La cultura che una volta ha realmente contribuito alla formazione dell'umanità e del suo destino, oggi, nel mondo produttivo e del lavoro, è divenuta in qualche modo un museo. Come si possa nuovamente trasformare il museo in tempio, e come il sentimento comune degli uomini, ciò che unisce noi tutti, possa tornare ad essere il centro della nostra vita, del nostro senso vitale, tutto questo è un compito infinito. Per questo posso solo ripetere: dobbiamo conoscere la meta ed avere la pazienza, l'accortezza di procedere a passi lenti, misurati. Le guerre mondiali, cui Lei allude, erano infatti anche il frutto dello sviluppo della scienza e della tecnica , le quali hanno fatto in modo che le armi belliche divenissero un pericolo terribile per l'uomo. Lei ha fatto riferimento alla conquista del Nuovo Continente e alle atrocità commesse. Anche lì il pericolo era dato dall'incommensurabile superiorità dei mezzi tecnici dei conquistatori. Oggi, la grande incommensurabile superiorità delle nostre armi e dei nostri mezzi tecnici può comportare il pericolo di distruggere il mondo naturale e di sostituirlo con un mondo costruito artificialmente. Io vedo i pericoli, ma non sono un profeta, un veggente. Come Platone, posso soltanto dire: " vedo che tutti gli Stati vengono male amministrati e per questo è giusto lavorare per la trasformazione della nostra coscienza, ossia fare filosofia".
BIOGRAFIA INTELLETTUALE (20/1/1991)
1. Professor Gadamer, può tracciare un breve profilo della Sua biografia intellettuale, partendo dai suoi primi studi filosofici?
La mia nascita filosofica è stata alquanto travagliata; sono figlio di uno scienziato convinto che i filosofi, in genere, non avessero niente a che fare con la scienza, che fossero dei chiacchieroni: tuttavia mi ha lasciato libero, anche se per tutta la vita è stato scontento per la mia scelta. Iniziai i miei studi durante la Prima Guerra mondiale: il mio primo professore fu il neokantiano Richard Hönigswald; all’epoca studiavo anche sanscrito e seguivo delle lezioni sul Corano. Ebbi i miei primi modesti successi e mi accorsi che tali esiti derivavano dai miei interessi. Andai a Marburgo e lì, molto giovane, frequentai i neokantiani del luogo, ad iniziare da Paul Natorp, di cui divenni assistente; con lui avevo dei dialoghi molto silenziosi, da cui non c’era da apprendere molto: tuttavia ho imparato ugualmente molto con lui. Al tempo stesso incontrai Nicolai Hartmann, un docente più giovane ma di grande qualità: non era uno studioso della statura di Natorp, ma quella di un insegnante acuto e di un amico più anziano: mi ha sempre difeso di fronte alla mia famiglia e si è sempre interessato del mio destino personale. Con lui ho
appreso la prima forma di scetticismo verso il neokantismo, cominciando a provare simpatia per la fenomenologia. Conseguii il mio dottorato molto giovane, durante la grave crisi economica tedesca, quindi mi sposai. Infine incontrai Heidegger, a ragione molto stimato da Natorp: devo infatti riconoscere che incontrare Heidegger significava trovare un nuovo metro di misura. Avendolo conosciuto, mi resi conto di non aver imparato nulla, di non aver preso possesso dei fondamenti di alcuna scienza, tanto da poter dire: "so cos’è la scienza". Così decisi di diventare un filologo classico per insegnare in un liceo. Ma, grazie ad Heidegger, strinsi un’amicizia più stretta anche con Rudolf Bultmann, il grande studioso del Nuovo Testamento e filologo di grande valore. Dal 1924 al 1927 studiai filologia classica con la massima concentrazione; erano gli anni in cui non c’era quasi nessuno studente: l’ideale per lo studente che ci arriva! Ero con il filologo classico Paul Friedländer in un seminario dopo un primo anno di avviamento; grazie a lui conobbi Friedrich Wolters. Non eravamo conservatori, ma liberali: volevamo la Repubblica di Weimar, la democrazia che ci era stata imposta. Sin qui la mia giovinezza fino all’abilitazione all’insegnamento universitario, un ambiente in cui era sorto un grande gruppo di amici: queste amicizie si sono conservate senza eccezione fino alla morte: Karl Löwith, Gerhard Krüger, Walter Bröcker. Dopo il dottorato mi ammalai di poliomielite, che mi colpì le gambe e le mani: per superare gli strascichi della malattia devo aver sviluppato qualche energia. Torniamo ai miei amici: Krüger era un lettore e un declamatore eccezionale, ma anch’io non ero niente male. Posso citare i miei studi su Hölderlin, iniziati negli anni ‘20, prima ancora che Heidegger avesse cominciato ad occuparsene: anzi, lo ha conosciuto grazie a me. La gente pensa che sia stato Heidegger ad influenzare me anche nella poesia e nell’arte, ma è il contrario. La mia prima moglie aveva molto senso musicale e introdusse la musica fiamminga del ‘400 e ‘500, quella musica del Rinascimento che non esisteva come musica viva, in stile "a cappella". Studiavo arte perché avevo un amico poeta e storico dell’arte, Oskar Schürer; più tardi anche Max Kommerell divenne un mio vero amico.
2. Leggendo la Sua biografia, mi ha colpito la descrizione della vita universitaria a Marburgo, dove Lei parla del rapporto tra i professori e gli studenti e tra gli studenti stessi. Può descrivere alcuni momenti di questa vita universitaria di allora, oggi inconcepibile?
Quando mi stavo accingendo a pubblicare la mia autobiografia su invito dell’università di Marburgo, ne inviai due capitoli sui miei anni a Marburgo ad Heidegger, che mi rispose: "La cosa è ben fatta. Essa deve essere letta da tutti i giovani studenti di oggi, per apprendere come si sviluppa la cultura non grazie a finanziamenti, borse, facilitazioni, ma grazie alla concentrazione e alla disciplina". È vero: la situazione era completamente differente perché tutti i seminari erano piccoli e pochi gli studenti che li frequentavano. Al seminario di filologia classica erano con me solamente altri due partecipanti; anche al seminario di storia dell’arte conoscevo tutti gli studenti, come anche i laureati della scuola di Richard Hamann, il mio professore di storia dell’arte. Devo dire che, in effetti, conoscevo anche tutti i giovani colleghi dell’Università che si trovavano nella mia posizione. Erano in massima parte teologi e filologi che vivevano in un clima molto familiare anche con i professori. Nicolai Hartmann mi chiamava con il nome di battesimo, cosa rara in Germania; neanche io chiamavo mai Kommerell con il nome di battesimo, neppure Schörer. Un altro dei miei maestri da ricordare è stato Ernst Robert Curtius, giovane professore di filologia romanza, una delle grandi figure di questa disciplina. Il suo libro sulla letteratura medioevale, La letteratura europea e il medioevo latino, pubblicato per la prima volta nel 1948, è divenuto uno standard book, un libro famoso. Mi aveva concesso il privilegio di fare due volte a settimana una passeggiata nelle foreste, sempre alle due dopo pranzo; faceva una lettura alla liseuse e quando io entravo si alzava. Non si stancava di dare consigli su ciò che si doveva leggere: un giorno pronunciò subito il nome che non bisognava dimenticare: Marcel Proust, del quale Curtius fu il primo lettore in Germania. Mi introdusse, tra l’altro, alla poesia di George; un giorno mi presentò a Max Scheler, suo amico, sebbene egli fosse più giovane di Scheler, il che gli faceva considerare un privilegio questa amicizia. Imparai molto anche da Friedrich Wolters, storico dell’economia. Effettivamente mi furono di grande giovamento i contatti di questo tipo, dove un uomo di cultura, già maturo e produttivo, mi trattava come un partner. Questo è vero nel caso in cui l’occasione sia ben usata, altrimenti diviene anche un po’ pericolosa per l’autocritica che bisogna necessariamente esercitare nei confronti di sé stessi. Nel mio caso tutto andava bene, perché la superiorità di Heidegger mi immunizzava contro ogni forma di sopravvalutazione di me stesso.
3. Cosa può dirci della figura di Max Scheler?
Era un demonio, il più volgare, il più terribile. Aveva un grosso naso e nel mezzo aveva una specie di grondaia: quando parlava, cadevano le gocce di sudore. Era animato da grande entusiasmo. Credo che fosse l’unico ad avere, forse, qualcosa della capacità che mi è propria di affascinare un uditorio: in effetti era molto differente da me, ma indubbiamente il suo entusiasmo suscitava un effetto positivo. Era un vero genio, finì per convincere lo stesso Heidegger che, essendo a quel tempo in competizione con lui, gli era molto ostile. Max Scheler fu certamente una grande personalità: purtroppo morì molto giovane, a 54 anni, ma aveva una capacità straordinaria, era forse comparabile come talento a pochi altri, starei per dire a Walter Benjamin, sebbene fosse un altro tipo, completamente differente, ma anche lui ebreo; Benjamin era un timido, un introverso, mentre Scheler era un vulcano sempre in esplosione.
4. Cosa può dirci della figura di Leo Strauss?
Leo Strauss era amico del mio compagno di studi Jacob Klein, anch’egli ebreo. Klein divenne poi molto noto come il Dean, il decano del Saint John’s College a Indianapolis e come riformatore del sistema educativo nelle università. Era uno degli ispiratori del movimento dei "Cento Libri" negli Stati Uniti, il cui programma era sostanzialmente basato sull’assunto che cultura non è universalità, ma sono cento libri della letteratura mondiale che devono essere studiati: nient’altro. Questo corrisponde in qualche modo alle mie idee: anch’io facevo lo stesso in un certo senso. Da Leo Strauss, che pure era suo amico, rimasi, invece, inizialmente distante: era molto timido e molto orgoglioso, si offendeva facilmente senza che gli altri lo volessero ed io ancora non mi interessavo molto a lui. Un mutamento nei nostri rapporti si verificò solo nel 1933, quando eravamo a Parigi. In quel momento, nella Pasqua del ‘33, mi resi conto che stava arrivando la fine del periodo in cui avrei potuto compiere frequenti viaggi: allora presi gli ultimi soldi che riuscii a mettere insieme e andai Parigi, dove trascorsi due settimane con Leo Strauss e Alexandre Kojève: da quel momento divenimmo amici. Naturalmente più tardi ammirai molto il suo libro su Hobbes, che mi parve molto interessante benché non approvassi la sua linea di pensiero. In ogni modo, Strauss e Klein non erano tanto lontani dalle mie idee: esiste una corrispondenza fra tutti noi che è stata pubblicata. Con Klein esiste un epistolario, anche questo un giorno forse sarà pubblicato. Ho già detto che entrambi erano ebrei; del resto, anche altri miei professori erano ebrei: Friedländer; Leo Spitzer; il romanista Erich Auerbach, con cui divenni molto amico dopo il ‘33. Citerò un episodio significativo, che servirà anche a chiarire certe posizioni di Heidegger. Recentemente venne qui ad Heidelberg il filosofo francese Jacques Derrida, per tenere una conferenza: chiese anche il mio aiuto per discutere dell’affaire Heidegger, perché sono considerato un heideggeriano non oltranzista. In un dibattito con dei giornalisti fu posta la domanda se Heidegger sarebbe divenuto nazista nel caso in cui fosse rimasto a Marburgo. Si tratta di una domanda molto intelligente: in effetti, a Marburgo il cattolicesimo praticamente non esisteva e si può sostenere che Heidegger sia divenuto nazista anche per opporsi all’imperialismo della Chiesa romana. A Marburgo nel ‘33 gli amici erano gli stessi ebrei che menzionavo prima. In seguito, la facoltà di teologia divenne il centro della cosiddetta Chiesa confessante (bekennende Kirche), che animò una forte opposizione al regime nazista: i suoi capi spirituali, von Soden e Bultmann, risiedevano in parte a Marburgo. Per quanto mi riguarda, ci furono due fattori che facilitarono per me la presa di distanza dagli inizi del nazismo. Heidegger era irritato per il cattolicesimo da cui proveniva; in fondo era un homo novus, formato con un’educazione di origine piccolo-borghese, ovviamente molto ammirato dalla sua famiglia. Tornando alla teologia luterana a Marburgo, va detto che costituiva un filone culturale molto vitale, durante i miei studi e anche durante i primi anni del Terzo Reich; non c’era molta politica: la distanza verso il nazismo era comune. Ma tutto faceva di Marburgo una città normale. Lipsia, dove mi trasferii, lo era anche di più: I nazisti erano, per così dire, "nazisti dell’università", nel senso che tutti erano più o meno attestati in un primo momento sul nazionalismo, ma dopo due o tre anni avevano preso le distanze; allora fui il benvenuto a Lipsia.
5. Professore, Lei ha visto nella sua vita le due terribili guerre mondiali e la terribile crisi dell’Europa. A differenza di quanto si poteva aspettare fino a qualche anno fa, oggi ci troviamo di fronte a nuovi scenari di guerra: secondo Lei, quali sono le conseguenze di questa nuova vicenda sul piano culturale per l’Occidente, per l’Europa?
Molto dipende naturalmente dal futuro, dagli eventi che verranno. Nel caso che gli episodi di guerra finiscano, sono del parere che dovrà esserci una nuova organizzazione di tutto l’Est, del Vicino Oriente, perché quella attuale è un’organizzazione artificiale nata dopo la II Guerra Mondiale: tutti questi Paesi sono creazioni della burocrazia diplomatica dopo la guerra. Nel frattempo sono venuti fuori anche altri fattori, perché 40 o 50 anni contano qualcosa per formare una tradizione, nuovi equilibri e anche per la cultura: naturalmente la fondazione di Israele non è revocabile, ma anche gli altri Stati hanno una certa forma di identità. La prima condizione che deve realizzarsi è che ci sia una nuova organizzazione di quella regione con una restrizione delle ambizioni di Israele: questo è chiaro. Ma va garantita la sicurezza per Israele, che non sarà più costretta a militarizzarsi in modo così massiccio. Naturalmente questa è un’evoluzione del tutto nuova, senza dimenticare che i problemi della nostra cultura sono più o meno planetari. Per questo credo che la costante tensione Europa e America con l’Islam sia solamente marginale. Si tratta di capire come sia possibile organizzare una competizione pacifica senza ricorrere ad una forma di politica militare. La fondazione di Israele fu certamente un modo per riequilibrare ragionevolmente e moralmente tutte le sofferenze del popolo ebreo, ma non venne preparato bene l’ambiente per organizzare la coesistenza. Naturalmente di questo sono colpevoli il commercio, il petrolio, il mercato. La mia speranza è che si rimanga abbastanza forti per evitare nuove guerre. Ma lo spettro della guerra rimane naturalmente terribile, un incubo. La III o la IV guerra mondiale sarebbero la catastrofe della cultura umana, tanto è stata sviluppata la tecnica distruttiva: non c’è solo il problema nucleare, ma anche quello dell’ecologia, è uno dei più fatali poiché nessuno conosce il rimedio. L’unica possibilità consisterà nell’organizzare un’economia di libero mercato che sia anche solidale sul problema dell’ecologia. Ma come realizzare questo obiettivo? Le prospettive per il futuro sono terribili, ma si spera che diventi possibile stabilire un nuovo equilibrio mondiale, cosicché potrà porsi anche con urgenza il problema dell’ecologia. È difficile giudicare, perché dipende dal fatto che la nostra possibilità di misurare tutto è una invenzione recente. Vorrei che il buco dell’ozono fosse stato cinquant’anni fa come oggi: semplicemente nessuno allora lo avrebbe potuto misurare.
INTRODUZIONE ALLA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" DI HEGEL (9/4/1991)
1. Qual è il contesto storico in cui Hegel scrive la Fenomenologia dello spirito?
La Fenomenologia dello spirito marca una cesura biografica nella storia dello sviluppo di Hegel. Essa infatti è nata a Jena, dove Hegel era docente durante il periodo del dominio napoleonico e prima della guerra antiprussiana. È noto con quali enormi attese i giovani intellettuali svevi, di Tubinga e in genere della Germania meridionale, abbiano salutato la Rivoluzione Francese: giovani teologi e studenti, furono allora animati dal grande pathos della libertà. Diversamente da quel che in genere si pensa, Hegel sino alla fine della sua vita è rimasto convinto del significato fondamentale della Rivoluzione Francese. Si narra che, in occasione di una visita a Tieck nella città di Dresda, Hegel, ormai famoso, a un certo punto sollevando il bicchiere abbia detto: "Sa Lei che giorno è oggi? È il giorno dell'assalto alla Bastiglia. Beviamo a questo giorno!". La Rivoluzione Francese e il suo pathos della libertà costituivano, com'è comprensibile, la base sulla quale il ceto degli intellettuali borghesi poteva sperare di ottenere un riconoscimento sociale e politico. Si sa con certezza, per esempio, che fu necessario conferire un titolo nobiliare a Goethe e a Schiller prima di presentarli alla corte del Granduca di Weimar. Queste condizioni sociali in conseguenza della Rivoluzione Francese, e quindi anche dopo l'occupazione napoleonica, iniziarono a modificarsi lentamente. Fu allora che si formò una nuova struttura sociale sulla quale si è costruito lo stato nazionale tedesco.
La Fenomenologia dello spirito, questo libro tanto singolare da non potersi quasi riassumere e da essere comprensibile solo in alcune parti, è stato completato da Hegel proprio durante la guerra antinapoleonica della Prussia. Il rombo dei cannoni della città di Jena ha per così dire accompagnato la conclusione del libro. Quando poi Napoleone entrò a Jena Hegel scrisse: "Oggi ho visto la Spirito del mondo a cavallo". Queste sono le circostanze esterne sotto le quali è sorta la Fenomenologia dello spirito.
A Jena Hegel era già un libero docente affermato. Il fatto che venisse capito è e resterà sempre uno dei misteri della storia universale. Come sia possibile che, nonostante il dialetto svevo parlato da Hegel a Berlino, questi abbia potuto influenzare una cerchia di allievi resta affatto misterioso e dimostra che i giovani studenti hanno la meravigliosa capacità di aprirsi senza riserve ad una persona che ha qualcosa da dire, di comprenderla fino in fondo e di trasmettere ad altri quello che hanno capito. I
l vero onore del nostro lavoro universitario non è quello di manifestare occasionalmente una opinione politica razionale o magari irrazionale, ma quello di trasmettere da generazione in generazione lo stimolo a pensare e la propria capacità di giudizio. Con questa digressione intendo sottolineare che pensatori come Hegel, Schelling e naturalmente anche Fichte, che in quel periodo a Jena era la figura predominante, non hanno semplicemente arricchito la scienza filosofica. Essi tutti hanno reso possibile una solidarietà morale, sociale e politica, sulla cui base almeno per un secolo si è edificato lo stato nazionale tedesco.
2. Il sottotitolo della Fenomenologia dello spirito suona: "Scienza dell'esperienza della coscienza" Quali significati assumono nell'opera di Hegel i termini di "fenomeno" e di "coscienza"?
Quando ci si accinge ad esaminare la Fenomenologia dello spirito, bisogna innanzitutto chiarire il termine "fenomenologia". Oggi è molto noto, perché in Germania si è formata una scuola, la cosiddetta "scuola fenomenologica", fondata da Husserl e alla quale appartenevano anche Heidegger e Max Scheler. Questa "scuola fenomenologica" ha fatto proprio il termine "fenomenologia", che originariamente apparteneva alla medicina, dove dava il nome allo studio delle manifestazioni dei diversi tipi di malattia. La fenomenologia è dunque una dottrina delle manifestazioni; in Hegel, delle manifestazioni dello Spirito. La fenomenologia è la storia delle manifestazioni dello Spirito, dei modi in cui lo Spirito si manifesta.
La missione che la generazione di Hegel attribuiva al pensiero di Kant, era il ristabilimento dell'unità laddove lo stesso Kant aveva istituito alcune differenze. La prima di queste differenze è che da un lato le scienze e l'esperienza da esse elaborata costituiscono l'inizio di ogni conoscenza e, se gli oggetti non sono dati nell'intuizione, la metafisica e le sue proposizioni restano vuote; dall'altro la libertà rappresenta un'eccezione a queste limitazioni. La libertà umana, quella determinazione morale con la quale l'uomo sa e sente ciò che in lui o in un altro è buono oppure cattivo, non è un fatto empirico, ma determina l'umanità del nostro comportamento ed anche le possibilità di una metafisica. Con questa missione da svolgere, Fichte, Schelling ed Hegel si misero al lavoro. La Fenomenologia dello spirito fu il capolavoro in cui Hegel ha tentato di mostrare come si possa comprendere l'intera struttura spirituale del mondo a partire dall'autocoscienza, cioè superando quell'atteggiamento fondamentale che si può definire "punto di vista della coscienza".
La coscienza non è infatti nient'altro che quello che in lei stessa appare. Nel mondo antico non era possibile un concetto di autocoscienza o un concetto di Io, di ciò che noi oggi chiamiamo "soggetto"; il pensiero greco era come un enorme occhio aperto che guarda l'ordine celeste, l'ordine umano - cioè quello cittadino -, e l'ordine della propria anima. Con la mediazione del Cristianesimo è iniziato il cammino della interiorizzazione e il "subiectum", che in senso stretto significava solo "sostrato", viene ora a significare la "soggettività", cioè l'autocoscienza che appartiene alla coscienza. Hegel si era posto il compito di mostrare che ogni coscienza è in fondo autocoscienza, di darne la consapevolezza a chi pensa, e si chiedeva come comprendere la totalità della nostra esperienza reale a partire dall'universo interiore dell'autocoscienza. Di qui il lungo cammino che questo libro presenta: dalla coscienza all'autocoscienza, dall'autocoscienza allo spirito e a tutte le forme di organizzazione spirituale della realtà, quali la società, lo Stato, l'arte, la religione e la filosofia. Un programma enorme, che spazia dalla coscienza sino alle forme di quel "sapere assoluto" che arte, religione e filosofia pretendono di essere. Su questa base le nostre riflessioni si devono articolare, a partire dall'autocoscienza, in due passi fondamentali. Il primo passo consiste nell'indicare come si perviene all'autocoscienza e perché in ogni coscienza c'è già autocoscienza; il secondo nel mostrare che ad avere l'ultima parola non è l'autocoscienza, ma lo spirito.
3. Qual è il cammino che dalla coscienza porta all'autocoscienza?
Hegel mostra la presenza dell'autocoscienza nella coscienza muovendo da una prima certezza che chiama "certezza sensibile". Quando qui ed ora si trova qualcosa davanti a noi, è certo che ne siamo coscienti, ma in realtà siamo coscienti solo della sua datità. Che cosa sia ciò che traiamo (nehmen) come vero (Wahr) da essa, che cosa, cioè, la percezione (Wahrmehmung) veramente sia, questo l'esperienza della datità non può ancora dircelo. Né certamente la percezione è compiutamente compresa quando l'oggetto è colto come "oggetto con le sue proprietà". La chimica può offrire una buona rappresentazione di quel che è il mondo; essa studia e ricerca la struttura del percepito - poiché gli oggetti reali che ci vengono incontro consistono di elementi base, l'analisi chimica può mostrarcene la struttura. Ma in realtà questo atteggiamento non è ancora autocoscienza, ma solo un atteggiamento oggettivante che con i mezzi dell'intelletto cerca nel mondo della percezione un ordine legale e si sforza di provarlo. Che genere di ordine è questo?
Inavvertitamente, e perciò sorprendentemente, ci siamo già avvicinati molto a ciò che cerchiamo: alle forze. Il mondo si mostra come un gioco di forze. Cos'è veramente una forza? Una forza che non si estrinseca è una forza? O forse una forza è solo la sua estrinsecazione? Certamente una forza non è solo questo, però la sua estrinsecazione deve essere provocata da un'altra forza. Allora si usava l'espressione di origine latina sollizitieren: il mondo reale delle forze è composto di forze che sollecitano e che vengono sollecitate. È chiaro che la forza in questo senso non è visibile, se non nella sua estrinsecazione. Muovendo dalla percezione, che ci svela l'oggetto con le sue proprietà, siamo passati al mondo dominato dalle leggi di natura. Hegel sente acutamente il limite di ciò che è posto, di quel che chiamava il "positivo" e che propriamente per lui era negativo (in modo particolare in campo religioso, dove la "positività" caratterizza una vita religiosa non veramente sentita). Allo stesso modo ancor oggi i codici e le leggi sono per noi solo degli ideali, che ci permettono di mantenere l'equità, la conformità e l'ordine. Il gioco delle forze è effettivamente un ottimo esempio di dialettica. Una forza è tale solo se si estrinseca. Il fatto che le forze si estrinsechino, che entrino per così dire in gioco tra loro, dà vita a quell'ordine naturale noto come ordine legale della natura. Un tale ordine non è certo sensibile, ed Hegel ne parla infatti come di un ordine soprasensibile. Il mondo delle leggi è per così dire un mondo fenomenico: esse appaiono come forze e come loro estrinsecazioni.
4. Professor Gadamer, non si potrebbe piuttosto dire che sono le leggi la vera realtà?
Secondo il Neokantismo le leggi naturali sono appunto la vera realtà; Natorp ha persino affermato che questo era già il senso delle "idee" platoniche. È dunque importante capire cosa significa che le leggi sarebbero la realtà. Esse lo sono non da sole, ma nell'unione con quel che esse determinano. Questa unione è nota come la dialettica tra la legge ed i suoi "casi". Che cos'è il caso di una legge? In tedesco il caso (Fall) di una legge è ciò che è caduto (fallen) sotto un universale; questo universale, ammesso che abbia realtà, la può avere solo nei suoi "casi". In medicina, per esempio, si parla di un "caso di malattia", e la malattia può esistere solo nei suoi "casi". Quindi la vera realtà non è affatto l'universale, ma l'inscindibile coappartenenza dell'universale e del suo caso. Nella nostra esperienza la incontriamo - e questo è il grande passo che Hegel prepara - nel vivente. L'aveva capito già Kant che, sebbene abbia fondato la fisica di Newton e mostrato che la filosofia può acquisire delle conoscenze effettive solo se è in rapporto con la conoscenza scientifica e non si appoggia alle mere costruzioni concettuali della metafisica, si è però accorto che la scienza matematica della natura non è tutto. Accanto ad essa la nostra ragione ed il nostro intelletto tendono necessariamente a concepire la totalità, e in particolare tutto ciò che si comporta come un vivente, non come una calcolatrice costruita, ma come qualcosa che si comporta rispetto a se stesso. È stato proprio Kant a insegnare che senza il concetto di scopo, senza il giudizio teleologico, non possiamo comprendere che cosa sia davvero il vivente. Il vivente si "comporta": questo è il fenomeno dialettico basilare con cui Hegel prepara il passaggio all'autocoscienza.
In quanto vivente ogni gesto che faccio non dipende dal fatto che qualcosa mi stuzzichi; piuttosto sono io a muovermi. Già per Platone era questa la caratteristica della natura vivente; egli parlava dell'automovimento, dello Autokinoûn. Poiché siamo sulla soglia dell'autocoscienza, vorrei citare una frase per mostrare cosa questa soglia significava per Hegel. Giunto al capitolo sull'autocoscienza, egli scrive la frase seguente, che mostra anche la sua enorme forza stilistica: "(...) nell'autocoscienza come concetto dello spirito, la coscienza raggiunge il suo punto di volta: qui essa, muovendo dalla variopinta parvenza dell'al di qua sensibile e dalla notte vuota dell'al di là ultrasensibile, si inoltra nel giorno spirituale della presenzialità". Quindi aggiunge che per questo motivo il capitolo sull'autocoscienza è l'autentico punto di volta rispetto al quale misurare l'intero sviluppo del pensiero che muovendo dalla certezza sensibile raggiunge nell'arte, nella religione e nella filosofia la più interiore certezza della verità. Cosa significa allora "comportarsi rispetto a se stesso"? Come mai ci si può comportare rispetto a se stessi? Che cosa è questo "se stesso"? Certamente non risulta dalla astratta identificazione che noi facciamo, quando diciamo indicando qualcuno: "è proprio lui, è lui stesso!". Noi ricorriamo a questa espressione quando vogliamo identificare qualcuno, ma questi non identifica se stesso, questi è un Sé. Non è che il Sé si comporti rispetto a se stesso, bensì il "comportarsi rispetto a se stesso" è il Sé medesimo. Ma questo è solo il primo passo che il pensiero compie per elevarsi ad un più alto grado. La vita, la vitalità in quanto tale, chiaramente non si comporta rispetto a se stessa in maniera cosciente. Il vivente in quanto tale è inserito nella grande "circolazione sanguigna dell'organico". Nessun essere vivente è un Sé astratto, ma si trova in un ciclo continuo di assimilazione, eliminazione e ricostruzione della propria materia organica. È noto che il nostro stesso corpo nel giro di pochi anni rinnova completamente le parti materiali che lo compongono. La struttura dialettica della vita è un continuo fluire ed rifluire.
5. Una delle figure più celebri dell'intero percorso fenomenologico è quella del "servo-signore". Di cosa si tratta?
Facciamo un esempio: poniamo di avvertire la fame; questo appetito, per così dire, ci dà la certezza di esistere, ma appena siamo sazi questa autoconferma svanisce. L'appetito ci ha fatto "ricordare di noi", ma è qualcosa di momentaneo. Non posso ancora riconoscermi come un Sé, se subisco il ritmo dell'appetito e della sazietà insieme a tutte le forme di desiderio che vi corrispondono; per diventare un Sé non solo reale, ma anche autocosciente, è necessario ancora qualcos'altro. Cerchiamo palesemente il riconoscimento, ma il semplice riconoscimento attraverso la soddisfazione dei desideri è insufficiente, perché poi, con i desideri, viene meno anche il riconoscimento.
Il concetto di riconoscimento è assai importante per Hegel: il mancato riconoscimento da parte di altri distrugge la propria autoconsiderazione, mentre il riconoscimento avvenuto la rafforza e la arricchisce. Si crede che quel che conta sia di saper dominare l'altro per costringerlo a riconoscerci, ma è una stupida follia ritenere che la nostra autocoscienza possa fondarsi sul riconoscimento di una persona che abbiamo asservito o schiavizzato. È follia, ma è anche una forma di desiderio, un desiderio di possesso che certo non può essere soddisfatto dalla conferma del proprio Sé data dal servo.
Nella società nobiliare valeva il concetto feudale dell'onore. E infatti c'era il duello: chi aveva offeso qualcuno poteva riconciliarsi di nuovo con lui, se accettava di esporsi al rischio comune di un duello a morte. Poi, per il fatto di essersi per così dire posti in comune, non si correva più il pericolo di essere annientati nel proprio Sé; attraverso il duello si dimostrava la propria libertà. Ma anche questa è ovviamente, come si vede subito, una conferma di sé assai momentanea; si supera una offesa, ma non si consolida una autocoscienza durevole. Per questo scopo nella società feudale c'è invece il servo, lo schiavo. La sua è infatti una dedizione continua.
6. Professor Gadamer, l'abnegazione del servo nei confronti del padrone può mai fungere da base all'autocoscienza?
Qui noi facciamo l'esperienza sorprendente: è, infatti, il padrone che non ha una autocoscienza durevole. Egli è per così dire incatenato agli oggetti che il servo gli presenta. Una rivoluzione sociale come quella che nel nostro secolo si è vista in Russia, ha evidenziato in un modo addirittura sconcertante che anche sul patriarcale asservimento dei contadini di un feudo ad un padrone molto umano si sono fondate grandi forme di autocoscienza. Alexandre Kojève - il suo cognome russo era Kojevnikov - divenne hegeliano dopo l'esperienza della rivoluzione russa, durante la quale suo padre, un proprietario fondiario amato e riverito, era stato improvvisamente ucciso dalla folla inferocita.
La base per una autentica autocoscienza non è il dominio sugli altri, ma il lavoro: è avere la capacità di fare qualcosa che dà autocoscienza. Tutti noi sappiamo che negli anni instabili dello sviluppo l'autocoscienza è labile, si oscilla tra una smodata arroganza ed una altrettanto smodata autocommiserazione. Ma conosciamo pure la lenta crescita dell'autocoscienza che si basa sulle proprie capacità. Come educatore della gioventù universitaria cerco di destare in essa la coscienza del proprio poter fare qualcosa. Con questo poter fare si apre lentamente un'autocoscienza che non si cura più narcisisticamente solo di se stessa, com'è caratteristico degli anni dell'adolescenza. Lentamente si diventa più obiettivi, si impara, e lentamente, grazie alle proprie capacità - siano esse scientifiche o letterarie - si viene inseriti in una comunità di lavoro o nell'insieme dei compiti che ci si pone da sé. Tutto ciò forma alla lunga una specie di quasi-visibilità dello spirito: in realtà non è una vera visibilità, ma solo una forma di solidarietà professionale, ad esempio quella dell'associazione dei medici. Naturalmente una autocoscienza inavvicinabile ha anche i suoi pericoli; la traboccante vanità di noi professori è un fatto assai noto di cui dobbiamo essere coscienti e autocritici e dobbiamo moralmente, socialmente e umanamente superare questo senso di superiorità che ci proviene dalla nostra posizione di docenti. Per far questo il miglior mezzo pedagogico è, da un lato, fare in modo che l'Altro si senta riconosciuto e, dall'altro, l'ammissione dei propri errori. Questo atteggiamento crea una nuova apertura tra maestro e allievo, tra padre e figlio, e in genere tra gli uomini.