UMBERTO GALIMBERTI
A cura di Simone Tunesi
Nelle
sue opere più importanti come Heidegger, Jaspers
e il tramonto dell'Occidente (1975), Psichiatria
e Fenomenologia (1979), Il corpo (1983), La terra senza il male. Jung dall'inconscio al simbolo (1984), Gli
equivoci dell’anima (1987) e Psiche e techne. L'uomo nell'età della
tecnica (1999), Galimberti indaga il rapporto che effettivamente sussiste
tra l’uomo e la società della tecnica. Memore della lezione di Emanuele Severino (di cui è stato
allievo) e di Heidegger, Galimberti sostiene che nelle condizioni attuali
l’uomo non è più al centro dell’universo come intendeva l’età umanistica: tutti
i concetti chiave della filosofia (individuo, identità, libertà, salvezza,
verità, senso, scopo, natura, etica, politica, religione, storia) dovranno
essere riconsiderati in funzione della società tecnologica attuale. Al centro del discorso filosofico di Galimberti c’è la
tecnica, che secondo il filosofo è il tratto comune e caratteristico
dell’occidente. La tecnica è il luogo della razionalità assoluta, in cui non
c’è spazio per le passioni o le pulsioni, è quindi il luogo specifico in cui la
funzionalità e l’organizzazione guidano l’azione. Noi continuiamo a pensare la tecnica come uno strumento a nostra
disposizione, mentre la tecnica è diventata l’ambiente che ci circonda e ci
costituisce secondo quelle regole di razionalità (burocrazia, efficienza,
organizzazione) che non esitano a subordinare le esigenze proprie dell’uomo
alle esigenze specifiche dell’apparato tecnico. Tuttavia ancora non ci rendiamo
conto che il rapporto uomo-tecnica si sia capovolto, e per questo ci comportiamo
ancora come l’uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un
orizzonte di senso, con un bagaglio di idee e un corredo di sentimenti in cui
si riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non
apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità: la tecnica funziona e
basta. Il punto cruciale sta nel fatto che tutto ciò che finora ci ha
guidato nella storia (sensazioni, percezioni, sentimenti) risulta inadeguato
nel nuovo scenario. Come "analfabeti emotivi" assistiamo
all'irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità dell'organizzazione
tecnica, priva ormai di qualunque senso riconoscibile. Non abbiamo i mezzi
intellettuali per comprendere la nostra posizione nel cosmo, per questo motivo
ci adattiamo sempre di più all’apparato e ci adagiamo sulle comodità che la
tecnica ci offre. Ciò di cui necessitiamo è un ampliamento psichico capace di
compensare la nostra attuale inadeguatezza. Inadeguato non è solo il nostro modo di pensare, inadeguata è
anche l’etica tradizionale (cristiana e kantiana in particolare): le diverse
etiche classiche, infatti, ponevano l’uomo al centro dell’azione, per cui Kant
dice di non trattare l’uomo come mezzo ma sempre come fine. Ma oggi questo è
smentito dai fatti dell’apparato, infatti l’uomo (per usare un’espressione di
Heidegger) è la materia prima più importante, è ciò di cui la tecnica si serve
per funzionare. La scienza , da quando è al servizio della tecnica e del suo
procedere, non è più al servizio dell’uomo, piuttosto è l’uomo al servizio
della tecno-scienza e non solo come funzionario dell’apparato tecnico come gli
esponenti della Scola di Francoforte andavano segnalando sin dagli anni '50, ma
come materia prima. L’etica, di fronte alla tecnica, diventa pat-etica,
perché come fa a impedire alla tecnica che può di non fare ciò che può? E
l’etica, nell’età della tecnica, celebra tutta la sua impotenza. Infatti,
finora abbiamo elaborato delle etiche in grado di regolare esclusivamente i
rapporti tra gli uomini. Queste etiche, religiose o laiche che fossero,
controllavano solo le intenzioni degli uomini, non gli effetti delle loro
azioni, perché i limiti della tecnica a disposizione non lasciava intravedere
effetti catastrofici. Anche l’etica della responsabilità che affiancò l’etica
dell’intenzione (Kant) ha, oggi i suoi limiti. A formularla fu Max Weber (poi
la riprese Jonas nel suo celebre teso Il principio di responsabilità)
che però la limitò al controllo degli effetti "quando questi sono
prevedibili". Sennonché è proprio della scienza e della tecnica produrre
effetti "imprevedibili". E allora anche l’etica della responsabilità
è costretta a gettare la spugna. Oggi siamo senza un’etica che sia efficace per
controllare lo sviluppo della tecnica che, come è noto, non tende ad altro
scopo che non sia il proprio potenziamento. La tecnica, infatti, non ha fini da
realizzare, ma solo risultati su cui procedere, risultati che non nascono da
scopi che ci si è prefissi, ma che scaturiscono dalle risultanze delle sue
procedure. Per Galimberti viviamo in una società al servizio dell’apparato
tecnologico e non abbiamo i mezzi per contrastarlo, soprattutto perché abbiamo
la stessa etica di cent’anni fa: cioè un’etica che regola il comportamento
dell’uomo tra gli uomini. Tuttavia quello che oggi serve è una morale che tenga
conto anche della natura, dell’aria, dell’acqua, degli animali e di tutto ciò
che è natura. Riprendendo importanti autori come Marx, Heidegger, Jaspers,
Marcuse, Freud, Severino e Anders e coinvolgendo discipline quali
l’antropologia filosofica e la psicologia , Galimberti sostiene che oggi l’uomo
occidentale dipende completamente dall’apparato tecnico, è un uomo-protesi come
sosteneva già Freud, e questa dipendenza non sembra potersi spezzare. Tutto
rientra nel sistema tecnico, qualsiasi azione o gesto quotidiano l’uomo compie ha
bisogno del sostegno di questo apparato. Ormai viviamo nel paradosso, infatti
se l’uomo vuole salvare se steso e il pineta dalle conseguenze del predominio
della tecnica (inquinamento, terrorismo, povertà, etc.) lo può fare solo con
l’aiuto della tecnica: progettando depuratori per le fabbriche, cibi
confezionati, grattacieli antiaerei e così via. Il circolo è vizioso e uscirne,
se non impossibile, sembra improbabile, visto soprattutto la tendenza delle
società occidentali. Una speranza sarebbe quella di riuscire a mantenere le differenze
tra scienza e tecnica; se riusciamo a salvaguardare una differenza tra il
pensare e il fare, la scienza potrebbe diventare l´etica della tecnica. La
tecnica procede la sua corsa sulla base del "si fa tutto ciò che si può
fare". La scienza, che è il luogo pensante, potrebbe diventare, invece, il
luogo etico della tecnica. In questo senso va recuperato il valore umanistico
della scienza: la scienza al servizio dell’umanità e non al servizio della
tecnica. La scienza potrebbe diventare il luogo eminente del pensiero che pone
un limite. Perché la scienza ha un´attenzione umanistica. Promuove un agire in
vista di scopi. Mentre la tecnica è un fare senza scopi, è solo un fare
prodotti. Il valore più profondo del pensiero di Galimberti consiste,
appunto, nel tentativo di fondare una nuova filosofia dell'azione che ci consenta,
se non di dominare la tecnica, almeno di evitare di essere da questa dominati.