" Che cos'è la cultura? Per tentare un primo orientamento possiamo dire che della cultura si possono avere due concetti: l'uno obiettivo, l'altro soggettivo. Il nostro è quest'ultimo [...]. Come la verità noi la cultura la cerchiamo dentro l'uomo: diciamo anzi che la cultura è l'uomo. " (Stato e cultura).
Questa non è che una delle definizioni di cultura che possono ricavarsi dagli scritti di Giovanni Gentile, ma essa riesce forse, più di altre, a sintetizzare in poche parole l'essenza che il filosofo dell'Atto intese attribuire a tale concetto. Affrontare il tema del concetto di cultura in Gentile, volendolo intendere come un concetto a sé stante, autonomo all'interno del suo sistema di pensiero, espone però al rischio su due fronti: il primo è quello di scrivere di un argomento così vasto da rendere inevitabile lo scadere nel già detto e sentito, nonché nel generico e nell'incompleto; il secondo è quello di dovere affrontare, appunto, un argomento così vasto da non poterlo suffragare con altrettante valide argomentazioni di sostegno alle tesi eventualmente esposte; giacché tutta l'opera del filosofo dell'attualismo è un'opera di cultura per eccellenza. Come ha ricordato E. Garin, Gentile fu molte cose ma soprattutto un "organizzatore di cultura" e la sua attività in questo senso fece sì "che le sue parole ed i suoi scritti pesassero non poco nella formazione culturale delle nuove generazioni, raggiunte [...] sia direttamente che attraverso l'opera di educatori e studiosi [...] che a lui si rifecero". D'altro canto, anche di fronte alle periodiche "riscoperte" di Gentile, appare necessario compiere un'operazione di ridefinizione e nuova analisi del significato del suo pensiero, all'interno del quale il concetto di cultura venga considerato come un quid autonomo, che non "segue" ma "precede" la sua riflessione politica, filosofica e pedagogica; un qualcosa che muove, attraversa e conclude tutto il sistema gentiliano, dando luogo ad una serie di binomi che accompagnano e contraddistinguono quello stesso pensiero: binomi come cultura/Stato, cultura/scuola, cultura/scienza, cultura/politica, cultura/tradizione, cultura/fascismo, cultura/Risorgimento, cultura/formazione, cultura/etica. Ognuno di questi dualismi ha nel suo primo termine non soltanto un elemento di confronto ma anche qualcosa che lo esplicita fino a farlo diventare un cardine caratterizzante della riflessione gentiliana. L'argomento riguarda però da vicino anche il tema dell'interpretazione complessiva da dare della figura di Gentile e delle sue scelte di vita, in particolare l'adesione al fascismo con tutto quello che ne conseguì, comprese le polemiche ideologiche che da sempre hanno accompagnato lo studio del suo pensiero e delle sue opere; scelte e polemiche che lo accomunano in qualche modo al tedesco Heidegger. L'atteggiamento più facile, ma anche più miope, di fronte al "problema Gentile" è stato finora quello di difendere o di rifiutare a priori tutta la sua opera; bisognerà invece, forse, spiegare in modo più fruttuoso "quale rapporto sussista tra le sue scelte politiche, da un lato, e le intuizioni con cui [...] ha illuminato il pensiero del nostro secolo dall'altro. E ancora: perché di fronte al volto demoniaco del potere la [...] vigilanza critica [...] venne meno". Cercando di riassumere le varie tappe dell'attività di Gentile, M. Di Lalla ha parlato di una "polarizzazione" del suo messaggio nel contesto della cultura italiana individuando quattro periodi fondamentali: "Il primo periodo è quello del primo quindicennio del Novecento; il Filosofo è considerato come l'intellettuale più autorevole e indicativo di uno stuolo di studiosi maggiori e minori, che hanno al centro del loro dibattito il problema pedagogico [...]. Il secondo periodo [...] è già più delicato e più contestato. È il periodo che va dal 1915 al 1925 [...]. La polemica sull'intervento, il contegno che gli uomini di cultura hanno avuto durante la guerra, le responsabilità che nel dopoguerra, di fronte all'avvento del fascismo, hanno finito per coinvolgere anche gli studiosi più restii, tutti questi elementi hanno avuto un ruolo fondamentale nell'itinerario di Giovanni Gentile [...]. Il terzo momento, quello degli anni Trenta, accentua la posizione di centralità di Gentile nella cultura [...]. Ma la divisione degli intellettuali soprattutto di matrice idealistica nel diverso modo di concepire l'impegno è oramai cosa fatta [...]. Il quarto momento [...] è il decennio che va dal 1930 al 1940 [...]; la polemica tra Gentile, gentiliani e le varie forme consacrate della politica è un fatto inevitabile. " Anche sulla base di questo itinerario è possibile ricostruire, almeno a grandi linee, un percorso nella interpretazione che Gentile dà della cultura e del suo significato non solo come strumento di formazione, ma anche come elemento fondamentale e caratterizzante l'essere umano e la sua realtà. 2. Tra cultura popolare, tradizione, folklore È l'autunno del 1895 quando a Castelvetrano, terra natale di Gentile, viene stampato il primo numero di una pubblicazione che dovrà avere una parte non marginale, seppur minima dal punto di vista della durata temporale, nel percorso culturale del giovane studente alla Normale di Pisa: si tratta di "Helios", rivista d'arte, lettere e varietà, con la quale Gentile comincia a collaborare fin dai primi numeri fornendo articoli e contributi che sono importanti ed utili al fine di tracciare alcune linee guida nella formazione del suo concetto di cultura. Intanto la propensione del filosofo per una cultura che sia caratterizzata da "lunghe e pazienti ricerche, fatte con vero disinteresse e per solo vantaggio della storia". "Helios" è per Gentile l'occasione per un primo, ufficiale confronto-scontro con la pubblicistica del tempo, ma anche occasione di formazione per lo studioso che è tra i suoi più assidui collaboratori con ampi articoli firmati o con dense notizie bibliografiche, siglate o anonime: cercando di mettere la cultura locale in contatto con quella nazionale, propone le tematiche dibattute nell'ambiente universitario e valorizza quegli studi folklorici che, unici, avevano permesso alla Sicilia di superare i limiti regionali della sua cultura. Sono interventi "minori" -- negli stessi anni egli pubblica il lavoro su Rosmini e Gioberti e gli studi su Marx --, ma hanno il pregio di essere affidati, nel periodo tormentato della crisi di fine secolo, alle pagine di una Rivista non accademica in cui la vena critica e pedagogica di Gentile è più libera di esprimersi, rivelando alcuni tratti della sua biografia intellettuale e del suo orientamento politico. "Helios" è, inoltre, uno dei rari luoghi in cui "è possibile rintracciare direttamente, prima della Grande Guerra, le sue convinzioni politiche maturate nell'ambiente pisano". Nel periodo preso in esame Gentile ha occasione di confrontarsi e scontrarsi, anche se indirettamente, con figure come quelle di Napoleone Colajanni e Felice Cavalotti e di conseguenza con la parte più viva del pensiero positivista e socialista in genere. Ma l'attenzione maggiore va forse puntata sui temi che egli sembra privilegiare nella "sua" rivista: perché accanto alle note ed ai contributi di critica letteraria, ai commenti su personaggi e fatti dell'attualità culturale siciliana e non, Gentile si occupa anche della cultura popolare intesa come tradizione, leggende, dialetti, folklore, e più in generale di quella demopsicologia come scienza degli usi popolari, che proprio in quegli anni andava sviluppandosi, ad opera di studiosi come Giuseppe Pitrè, Salvatore Salomone Marino, Gaetano Amalfi, Stanislao Prato, tutti nomi che si ritrovano sulle pagine di "Helios" e con i quali Gentile si confronta, anche criticamente, ma mostrando comunque interesse ed attenzione per i "riflessi civili delle loro ricerche e delle loro materie". In "Helios" si ritrova la radice della concezione di cultura in Gentile, di una cultura intesa a tutto campo come trasmissione e formazione integrale dell'uomo a partire innanzitutto dalle proprie origini che sono poi la base della formazione umana.11 Egli apprezza e promuove per questo quelle figure, anche di suoi concittadini, i quali hanno dedicato la loro vita a ricostruire il passato, mostrando attenzione per tutti quegli studi e quelle ricerche che, pur non avendo un fine immediatamente utilitaristico, erano di aiuto alla storia e alla conoscenza delle proprie origini e del proprio Io. Commemorando la figura di R. Bonghi nel 1895, Gentile ne approfitta, ad esempio, per richiamare ancora una volta l'impostazione di una cultura unitaria quale base della forza e della grandezza di una nazione: " Il tempo dei nostri padri e il nostro è stato ed è tutto un periodo di transizione per l'Italia, che si è andata ricostituendo nella forma e prosegue sempre a farsi nella sostanza: periodo, che per il suo carattere stesso ha destato nelle menti più vigorose il vitale bisogno della scienza e delle lettere, le quali, consapevoli o inconsce, si sono addossate il carico di dare al nuovo Stato libero gli uomini liberi, che ne fossero degni. E i più generosi e i meglio dotati da natura non si sono contentati del movimento politico o del morale o intellettuale; ma solleciti dell'avvenire, a tutto han voluto dar mano, e fra i torbidi della vita, non han saputo smettere giammai il pensiero degli studi ". L'ideale di cultura che emerge dalle pagine di "Helios" è molto più complesso di quanto non appaia ad una prima analisi, ed in questo senso il periodico di Castelvetrano può essere anche la chiave di interpretazione del concetto di cultura in Gentile: se da una parte, infatti, questa è intesa come paideia o humanitas e quindi, secondo l'accezione classica, in senso aristocratico, come lo strumento che contraddistingue l'uomo libero e scevro dall'attività pratica, dall'altro la cultura include in sé una serie di accezioni che la rendono "poliedrica" e non riassumibile in un solo significato: l'aristocraticità della cultura gentiliana, così come è stata presentata anche da più di qualcuno dei suoi studiosi, non è un qualcosa che tende a isolare, ad emarginare, a dividere tra colti ed incolti, ma è qualcosa che serve a proteggere e purificare tale concetto dalle contaminazioni e dalle contingenze del momento o peggio ancora dalla convenienza e dall'opportunità politica ed ideologica. Ecco allora che la cultura gentiliana diventa le "culture"; non solo quelle regionali italiane ma anche le tradizioni, le leggende, i dialetti che oggi come ieri hanno caratterizzato le tanti parti del "villaggio" umano. Da qui muove anche l'interesse di Gentile per i veicoli di trasmissione e discussione culturale, quali appunto sono le Riviste in genere. In "Helios" viene maturando, dunque, quella idea di cultura policentrica che vede come risultato la valorizzazione della filosofia, della letteratura, della storia, della politica come componenti diversificate di una nuova visione del rapporto tra storia e filosofia, tra idealità e realtà, tra universale e particolare; è un passaggio importante attraverso il quale Gentile maturerà la consapevolezza di un rapporto inscindibile tra cultura e Stato, tra formazione umana e identità nazionale. Una consapevolezza che caratterizzerà il periodo precedente e seguente la prima Guerra mondiale per approdare poi all'incontro con il fascismo. Il dibattito interventisti-neutralisti e la Grande Guerra rafforzeranno così quel concetto "militante" di cultura che fin dalla giovinezza Gentile era venuto maturando, accentuando ancora di più il binomio cultura/politica, cultura/formazione che si risolverà a sua volta nella definitiva accettazione della teoria dello Stato etico. " Lavoriamo, vogliamo lavorare per noi e per gli altri [...], facendo il nostro mestiere di operai del sapere, compiendo così anche il nostro dovere di cittadini e di uomini " (Proemio, in "Giornale Critico della Filosofia Italiana", a. I, gennaio 1920). Con queste parole, scritte nell'ottobre del '19, Gentile aveva concluso il Proemio di presentazione di quella che doveva essere una delle creature più preziose della sua attività culturale: il "Giornale Critico della Filosofia Italiana". Siamo all'indomani della conclusione del primo conflitto mondiale e nella sua riflessione sono già stabilizzati alcuni punti fondamentali. Intanto la necessità di una riforma dell'istruzione che consacri definitivamente la scuola e in essa l'insegnamento della cultura filosofica, come strumento di realizzazione di un piano per l'educazione nazionale che era già stato a suo tempo oggetto di discussione nel Paese;19 in secondo luogo la priorità della esigenza di dovere fare della riflessione filosofica uno strumento concreto per la realizzazione di una coscienza nazionale unitaria, così da reinserire l'Italia nel novero di quelle Nazioni degne di chiamarsi tali, portando a compimento nel frattempo l'opera iniziata dagli uomini del nostro Risorgimento senza disperdere la vittoria appena conseguita a Vittorio Veneto. Si tratta, per Gentile, di amalgamare fino a fonderle insieme le singole culture regionali, le quali da sole non avrebbero nessun valore né filosofico, né storico. Era un concetto che egli aveva continuamente espresso in quegli anni, in particolare nel lavoro, considerato riassuntivo della sua riflessione su questo tema, dedicato alla cultura della sua terra natia: il carattere regionale della cultura siciliana era infatti per lui dovuto al fatto che " nascendo essa dal ripiegarsi dell'anima siciliana, su di sé medesima, nel rispecchiare il proprio passato, dove era la sua storica individualità di fronte alle altre regioni d'Italia, doveva esser condotta fino allo studio delle tradizioni popolari [...] e fermarvisi [...]. Giacché tutta la storia potrebbe tenersi in nessun conto e sarebbe infatti una semplice astrazione se non si concretasse e radicasse in un modo di sentire e di pensare e in un certo carattere popolare che era nel caso nostro la vera realtà siciliana da incorporare e fondere nell'Unità nazionale " (Il tramonto della cultura siciliana). Veniva rafforzandosi così, attraverso la riflessione tra cultura locale e quella nazionale, la componente di "attivismo" pedagogico che caratterizza tutta la filosofia gentiliana e che diventa un tutt'uno con la sua idea di cultura come formazione e quindi come insegnamento. È stato notato, a tal proposito, che "è essenziale cogliere il nesso della filosofia con la scuola gentiliana, perché molte delle modalità di insegnamento della filosofia sono derivate dal concetto di cultura sotteso alla scuola stessa e al ruolo a questa assegnato in rapporto alla società". La formulazione o per meglio dire l'accettazione definitiva, in onore ad Hegel, del concetto di Stato etico passa evidentemente per tutte le tematiche sin quì descritte e si pone come punto di raccordo per esse; una strada che partiva dunque da lontano se si considera il fatto che da parte sua Gentile, fin dal 1902, assegnando allo Stato il compito dell'emancipazione morale e civile dei cittadini, indicava la via degli studi scientifici che chiamava "disinteressati" in quanto non direttamente finalizzati a qualsivoglia professionalità. Certo, a Gentile stava a cuore soprattutto la formazione di quelle élites capaci di assicurare continuità allo Stato liberale e borghese; per il filosofo siciliano si trattava, pur sempre, di contrastare la richiesta di una società democratica, volta alla massificazione della cultura e a cui "bisognano gli automi dell'industria e le volpi del commercio; le pecorelle dei partiti politici e della chiesa e i famelici lupi delle amministrazioni e delle sacre gerarchie, tutt'al più qualche topo erudito da biblioteca e qualche ragno faticone intento a tessere e ritessere le penelopee tele sociologiche". Ma è pur vero che a distanza di quasi vent'anni, Gentile, insistendo sulla funzione emancipatrice dello Stato, fondata sullo "sviluppo autonomo della scienza", ancora una volta evidenzia un modello pedagogico, peraltro operante in tutta la sua produzione scientifica, di tipo "politico e sociale, rivolto alla costruzione della coscienza nazionale e che vede nel risveglio della vita spirituale e nella scuola come agenzia delegata a realizzare tale risveglio gli strumenti fondamentali ed insostituibili della rinascita collettiva". È il tema dell'educazione nazionale che caratterizza l'interesse gentiliano, tanto più in un'ora come quella presente nella quale l'esigenza di una cultura "nazionale" sembra essere più che mai urgente, sia per ricostruire il Paese che per non farlo mancare ad un appuntamento di trasformazione e di rinnovamento che per il filosofo siciliano è oramai irrinunciabile. Anche per la sua terra vede una luce di speranza se "negli ultimi anni i giovani scrittori siciliani si sono venuti affrancando da quello spirito regionalista per aprirsi alla cultura nazionale [...]. Chi fa storia regionale si confonde con l'oggetto stesso che vuole ritrarre; e invece di spiegare i fatti diventa egli stesso una parte di questi". La Grande Guerra rappresenta all'interno del pensiero di Gentile un ulteriore punto di svolta che lo porta a rielaborare e a chiarire ulteriormente le forme e i contenuti del suo concetto di cultura; e riflettendo proprio sul significato dell'evento bellico scrive che "il problema della guerra era un problema superiore alla guerra stessa, e tale da impegnare tutto l'avvenire della vita italiana [...]; il bisogno di non guardare al passato [...] ma di rivolgere piuttosto lo sguardo all'avvenire, all'ideale, alla meta [...]. Problema politico che è problema morale". Su questa strada, quella serie di binomi di cui abbiamo parlato all'inizio si fondono tra loro, giungendo alla constatazione che il problema della cultura è anche e soprattutto un problema dello Spirito e quindi dell'educazione; di conseguenza non questione di forma ma di sostanza. L'esperienza della Guerra è stata dunque l'atto concreto che ha trasformato le riflessioni teoriche del periodo precedente in un decalogo di azioni da intraprendere per portare a termine l'opera del Risorgimento, far iniziare un nuovo periodo della storia italiana e creare quella salda coscienza nazionale necessaria premessa per fare della Nazione uno Stato; opera questa che non si realizza se non attraverso una convinta azione educativa, che deve avere al suo centro soprattutto la cultura umanistica, giacché, come aveva ricordato un decennio prima, " all'uomo è essenziale la coscienza dell'esser suo, quale la cultura umanistica può darla. E poiché gli è essenziale, questa coscienza è condizione, questa cultura è preparazione così alla vita come alla scienza: così al mondo delle relazioni civili e politiche come all'umbratile speculazione delle università. Senza siffatta coscienza non c'è moralità vera, intelligente, non c'è economia sagace, non c'è politica chiaroveggente; come non c'è la scienza [...]; la cultura che si richiede non può essere altro che educazione dello spirito " (La riforma della scuola media). Il coniugarsi dell'elemento pedagogico-educativo, primario nella riflessione gentiliana, con la sua propensione ad un "nazionalismo culturale" come elemento necessario alla costruzione di una nuova Italia finisce per rafforzare, in una ben determinata direzione, anche la sua visione politica, diventando il motore di quello che egli vedrà come uno sbocco quasi naturale, anche della sua esperienza e della sua azione culturale: l'adesione al fascismo. In quest'ottica, la stessa critica al concetto di democrazia, propria del Gentile di questi anni, si ricollega alla critica del concetto di cultura così come la stessa democrazia lo propone, "al suo materialismo plebeo, a quello della scienza naturalistica e positivistica, dell'industrialismo, del socialismo, del cosmopolitismo, del femminismo". Il tema dell'unità tra politica e cultura non era del resto nuovo nell'impianto speculativo di Gentile. "Quando il 14 maggio 1915 all'annuncio delle dimissioni di Salandra manifesta [...] la propria angoscia perché noi "non siamo uno Stato" se non in apparenza [...] Gentile esprime con formule più nette [...] quella riflessione culturale sullo Stato e sulla Nazione che era iniziata, in coincidenza con la crisi di fine secolo e in rapporto a prese di posizione politica di segno conservatore, sulle orme di Bertrando Spaventa fin dal Rosmini e Gioberti in cui aveva sostenuto la necessità di dare forma nazionale a una cultura che fosse universale nel contenuto".30 Ma a partire da questo momento il binomio politica/cultura assume un significato prioritario e ben più chiaramente determinante rispetto al passato; le premesse culturali diventano per lui inscindibili dal progetto politico; cominciava così con il ricordare che "la cultura è il centro del mondo che ci interessa, [...] e per far politica l'uomo non ha altro mezzo che la cultura, intorno alla quale il mondo gira, si articola, si organizza. La civiltà che è il complesso in cui si viene dispiegando la potenza dell'uomo come trionfo della libertà, ossia dominio dello spirito nella natura, ha la sua base ed il suo principio nella natura: La cultura è svolgimento e formazione dello spirito, o dell'umanità dell'uomo [...]." La cultura non poteva restare chiusa nei recessi dell'intelletto puro, ma doveva calarsi nella realtà, anzi era essa stessa realtà consapevole: era insomma criterio dell'azione. Sintomatica, da questo punto di vista, la polemica che egli conduce dalle pagine dei quotidiani sul finire del 1918, contro il concetto della Kultur di stampo tedesco e che si ricollega direttamente all'affermazione, ma si direbbe alla definitiva scoperta della sua scelta nazionalista, legata strettamente ad una visione etica dello Stato. Non è dunque possibile scindere l'uomo e quindi lo Stato dalla "sua" cultura che ne è l'espressione genuina e sincera e lo caratterizza: la cultura che fa l'uomo colto è la stessa infatti che "fa l'uomo [...] giacché, è troppo chiaro, l'uomo è davvero uomo [...] in quanto ha coscienza di essere, e però di esistere e di agire". Negli anni Venti e Trenta, con la sua adesione al fascismo, Gentile sembra dunque esplicitare e mettere in pratica quello che era un ideale di cultura meditato e maturato nel periodo precedente. In particolare nel 1925, la nascita dell'Istituto Nazionale Fascista di Cultura e l'avvio del lavoro per la realizzazione del progetto dell'Enciclopedia Italiana rappresentano ai suoi occhi l'occasione propizia per concretizzare proprio quell'ideale di cultura. Questo è sicuramente un momento di rivelazione di alcuni "equivoci giovanili" (la rottura del rapporto con Croce proprio di quel periodo è un evento traumatico e indicativo) ma anche l'occasione per crearne dei nuovi (e la vicenda dei rapporti travagliati, per non dire confusi ed equivoci, di Gentile con il fascismo ne sono una testimonianza). Si dovrebbe forse partire, in questo senso, da un nodo della questione che egli stesso sente come irrisolto e che viene esplicitato in occasione di un discorso tenuto a Bologna nel marzo del '25 in cui dichiara che "non bisogna che ci preoccupiamo tanto della cultura del fascismo quanto piuttosto del fascismo della cultura [...]. Noi fascisti [...] non vogliamo lo Stato agnostico e perciò vogliamo lo Stato educatore ed insegnante". E conclude affermando che bisogna portare "non la cultura nel fascismo bensì il fascismo nella cultura". Puntuale appare a questo proposito l'affermazione di Turi, secondo il quale "lo stesso appello al "fascismo della cultura", a un fascismo che si confonda con la nazione e non si identifichi con i tesserati, è frutto di una visione culturale e politica solo apparentemente duttile, talvolta scambiata per tale solo perché non si identifica con quella di altri esponenti del fascismo. È quindi naturale che la politica di "conciliazione" condotta da Gentile in questo campo tra il 1925 ed il 1926 registri, assieme ad un notevole successo, alcune resistenze fra gli intellettuali che avevano subito e continuavano a subire, il suo fascino, e nel circolo dei suoi stessi allievi, e produca quindi i primi distacchi". La questione viene affrontata direttamente da Gentile nel discorso di inaugurazione dell'Istituto Nazionale Fascista di Cultura il 19 dicembre 1925, con riferimento alla vicenda dei Manifesti:
" I giornali liberali e democratici come era stato preveduto, fecero coro, plaudendo clamorosamente all'antimanifesto pettegolo e stizzoso, e proclamando con quella loro proverbiale sincerità l'antitesi tra fascismo e cultura [...]. Tante volte si è detto che la dottrina del fascismo è nella sua azione. Non è un'ideologia, non è un sistema chiuso, non è neanche veramente un programma [...]. La parola del fascista è fatto [...]. La cultura non è contenuto, ma forma: non è una certa quantità di istruzione concentrata o diffusa, ma potenza spirituale; non è materia ma stile; [...] esiste una cultura strumentale che è mero sapere, organizzazione di cognizioni bene accertate, critica, erudizione, dottrina [...]. Noi del fascismo [...] abbiamo raggiunto quella piena libertà di spirito, con cui possiamo spogliarci di certe passioni della prima ora, e riconoscere pertanto il valore nazionale di certe forme di cultura " (Politica e cultura).
Gli anni Trenta sono sicuramente un altro spartiacque da tenere presente nella concezione culturale di Gentile; il Concordato, i nuovi rapporti Stato-Chiesa, ma anche i temi derivanti dalla nuova discussione sul nazionalismo e sulla razza che sfoceranno nelle leggi del 1938, rappresentano delle forti "deviazioni" della sua impostazione e mettono a dura prova la sua stessa capacità di "mediatore culturale". Il risultato è una perdita di posizioni sia verso il sistema politico di riferimento, sia verso quel mondo intellettuale che, avverso o insofferente nei confronti del fascismo, cercava ancora in Gentile un punto di riferimento. Significativo di un certo malessere del Filosofo ma anche di un suo smarrimento quanto scrive nel '36:
" La cultura è il centro, vorrei dire l'essenziale di questa vita in cui lo spirito immortale viene realizzando il suo mondo: questo mondo civile che che è scienza ed arte, ed è società etica e Stato [...]. La civiltà che è il complesso delle forme in cui si viene dispiegando la potenza dell'uomo come trionfo della libertà ossia dominio dello spirito sulla natura, ha la sua base ed il suo principio nella cultura [...]. I popoli selvaggi o incivili che non hanno storia perché non progrediscono [...] sono i popoli in cui l'umanità rimane come rattrappita e chiusa nel guscio primitivo di una coscienza [...] non formata nella cultura [...]. Progresso è sinonimo di pensiero e di cultura [...]. La cultura è formazione e svolgimento dello spirito, ossia della umanità dell'uomo [...]. L'ideale della cultura oggi, per noi, è quello della cultura formatrice dell'uomo [...], poiché la vita dell'Italia è pur la vita dell'Europa e cioè del mondo, e la nostra cultura non è grettamente razzistica né angustamente, cioè geograficamente mediterranea, ma intelligentemente universale ed umana. " (L'ideale della cultura e l'Italia presente)
Che nel programma culturale gentiliano vi fossero già una componente nazionalistica e conservatrice è cosa, ci sembra, fuori dubbio; quello che dovrebbe rappresentare un elemento di problematizzazione della sua storia di intellettuale è invece capire fino a che punto queste componenti siano state consapevolmente rafforzate dalla sua adesione al fascismo e dalla condivisione piena e convinta degli ideali di quest'ultimo e quanto invece siano da considerarsi peculiari del suo pensiero e quindi da interpretarsi e analizzarsi in modo indipendente da quella scelta politica. Quello che è certo, e questo può essere considerato un ulteriore elemento di discussione, è che nel Gentile "fascista" fu viva l'esigenza di trovare un punto di incontro tra il suo concetto di cultura ed il movimento politico a cui si era legato: la creazione dell'Istituto Nazionale Fascista di Cultura rappresentava in questo senso un valido strumento di azione, affinché lo stesso PNF si facesse assertore convinto "della sua fede nella cultura [...] che stimolasse le energie intellettuali a non rinchiudersi in astratte speculazioni remote da ogni azione sulla vita nazionale, economica, morale e politica, anzi tutte le rivolgesse a illuminare e formare la coscienza della nuova Italia che i fascisti vagheggiano, fiera del suo passato glorioso ed insieme possente per rinnovato fervore di lavoro e di pensiero nella disciplina dello Stato consapevole degli alti destini nazionali". Anche sul piano politico, l'impostazione teoretica di Gentile riguardo al problema della cultura sembrava dunque trovare nel fascismo un elemento con cui interagire, corregendolo e depurandolo, per realizzare e affermare quel suo programma politico-filosofico inteso come un sistema di idee che rappresentassero la nuova linfa vitale della Nazione. In questo senso "cultura è universalità, o se si vuole, umanità [...]. Dire educazione fascista è [...] dire educazione nazionale; con questa avvertenza, che [...] la nazione non è un dato naturale ma un processo storico". Secondo Gentile l'educazione non può non essere politica, soprattutto quella fascista; giacché l'educazione politica " deriva ed attinge le sue energie da una mentalità già spoglia di ogni concezione individualistica e astrattamente universalistica della vita [...]. Questo è ideale di cultura [...]. Ma è l'ideale di una cultura che ha la sua radice nella rinnovata coscienza politica e si protende verso la nuova politica italiana. Arte, storia, letteratura, scienza, scuola e istituzioni giuridiche, vita morale e religiosa, preparazione militare, movimento sociale, finanziario, economico, sono elementi diversi ma tutti essenziali al contenuto della nuova cultura ". In queste parole sembra sintetizzato ante litteram quel concetto di cultura, totalizzante e totalitario, che il fascismo si occuperà di attuare, proprio mentre, però, il suo intellettuale più rappresentativo cominciava a perdere posizioni all'interno di quello stesso sistema. Nel 1930, ancora di fronte al pubblico dell'Istituto Nazionale Fascista di Cultura di Roma, egli esprimeva una posizione che sembra essere un ulteriore tentativo di pacificare le diverse e precedenti componenti politico-filosofiche del pensiero gentiliano sull'argomento con la nuova realtà politica: in quell'occasione parla di una cultura "animata da un pensiero politico, in quanto c'è un pensiero politico attuale che deve essere meditato, chiarito, svolto,fecondato nelle menti, difeso dalle critiche degli avversari, cimentato con le opposte e divergenti dottrine; un pensiero che consiste innanzitutto in un certo orientamento e atteggiamento dello spirito, in una certa fede, in una certa passione, che è e deve essere l'anima di tutta la concezione della vita del nostro tempo e quindi di tutta la nostra cultura". I temi della tradizione, della Nazione e della sua educazione, della storia patria, vengono in questa occasione fatti confluire tutti in una dimensione politica, nell'ottica del nuovo Stato etico, il quale "così concepito può essere un principio unificatore di tutta la cultura". Quasi a chiudere un percorso aperto con gli studi giovanili, nel 1943 arriva l'opera ultima di Gentile, Genesi e struttura della società, opera che, come per altre tematiche del suo pensiero, rappresenta un punto di riflessione e di rielaborazione rispetto alle tesi svolte precedentemente; ma è al tempo stesso la realizzazione di quella sintesi, cui Gentile aveva alacremente lavorato, "tra l'impostazione attualistica e l'esperienza del fascismo; Gentile amplia il suo concetto di cultura che nel discorso del 1922 agli operai di Roma aveva identificato con quella umanistica, per includervi ora tutte le forme del lavoro manuale e tecnico imposte dallo sviluppo dell'industria". Tuttavia, nonostante la nuova apertura, egli ribadisce che
" la cultura è sapere; ma non è sapere determinato, dommatico, informativo; è critica di ogni sapere che come sapere positivo s'accampi nell'uomo senza dimostrarglisi utile, necessario, costruttivo della sua vita e della sua personalità [...]. C'è un sapere strumentale che l'uomo può acquistare e far suo; e può trascurare [...]. In concreto non c'è istruzione per grama e gretta e materiale che sia, che non influisca sull'avviamento dello spirito, e non riesca, in qualche guisa, impegnativa del suo avvenire. Si può [...] essere dotti e incolti. Sapere molto e non farne sangue, e non capire più dell'ignorante. La cultura è sapere che forma l'uomo schiarendo e allargando la coscienza che ogni uomo deve avere di sé, ed esercitando perciò la riflessione sul contenuto del suo pensiero [...]. Tale la cultura a cui lo Stato mira in quanto esso stesso coscienza che l'uomo ha di sé e della sua via per cui tale coscienza si sviluppa. La quale cultura tutto abbraccia e nulla respinge, se il sapere si informa a questa coscienza di sé, che è l'unità e il centro di tutta la sfera del sapere ". (Genesi e struttura della società)
Ritorna e si rafforza, nonostante tutto, anche in questo ultimo scritto, quel concetto di cultura come strumento rigeneratore dell'uomo e dello Stato, che Gentile aveva maturato in gioventù e accettato organicamente dopo l'incontro con il fascismo, e che ribadirà, quasi come un testamento morale, in quella che sarà la sua ultima apparizione in pubblico nel 1943, in occasione del discorso pronunciato in Campidoglio, in cui i temi della tradizione italiana, dal Rinascimento al Risorgimento, i riferimenti ai padri della Patria, da Dante a Mazzini e Garibaldi, nonché l'accenno alla "sua Sicilia" e a Giuseppe Pitrè, sembrerebbero stare lì a rappresentare l'estremo tentativo di riaffermare la propria autonomia di uomo e di intellettuale, "giacché altro è la persona, altro l'idea che alla persona conferisce valore ed autorità".