A cura di Giovanni Ipavec
Oh casi! oh gener vano! abbietta parte / siam delle cose; e non le tinte glebe, / non gli ululati spechi / turbò nostra sciagura, / né scolorò le stelle umana cura.
(Bruto Minore)Giacomo Leopardi nasce a Recanati nel 1798, dal conte Monaldo e Adelaide Antici. Nel 1803 l’amministrazione dei beni familiari è tolta al padre, che si ritira quindi in una velleitaria attività di letterato dilettante, e passa nelle mani della madre. L’atmosfera di casa Leopardi non è felice ed è caratterizzata dall’indole della madre, severa, bigotta e povera d’affetti. Il giovane Giacomo inizia nel 1807 gli studi con i fratelli Carlo e Paolina, inizia a comporre piccoli componimenti poetici e cerca un proprio spazio autonomo all’interno di un’educazione di chiaro stampo controriformistico. Tra il 1813 e il 1816 inizia da solo lo studio del greco; si dedica a ricerche erudite e a varie indagini filologiche sorprendentemente rigorose e precise. Politicamente sposa le idee ultralegittimiste del padre. Nel 1817 pubblica sullo «Spettatore» l’Inno a Nettuno, fingendo trattarsi della traduzione di un originale greco, e due odi apocrife in greco, presentate come autentiche. Inizia la sua amicizia epistolare con Pietro Giordani ed inizia lo Zibaldone, il grande diario intellettuale che continuerà sino al ‘32. Nel 1818 si conclude la sua conversione politica che lo porta a diventare un patriota repubblicano e democratico. Nel 1819 le cagionevoli condizioni di salute lo obbligano a sospendere gli studi; tutto ciò è una spinta a chiarire la propria condizione di solitudine, di noia, e a maturare il suo pessimismo ancora indeterminato. È in questo periodo che scrive L’infinito e Alla luna. nel 1820 continuano le composizioni poetiche come, ad esempio, La sera del dì di festa. Nel 1822 si reca a Roma, il primo viaggio fuori da Recanati: rimarrà molto deluso. Nel 1823 ritorna a Recanati dove analizza la decadenza nazionale e gli effetti nefasti della Restaurazione. Nel 1824 scrive la maggior parte delle Operette morali e l’anno dopo parte per Milano, dove prende contatto con l’editore Stella, e poi passa a Bologna. Nel 1827 si trasferisce a Firenze dove conosce Alessandro Manzoni; i due non si capiranno, troppo diversa è l’indole personale. Nel 1828, finiti i mezzi di sostentamento, dopo aver composto A Silvia, è costretto a far ritorno a Recanati. Nel 1829 compone: Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il Sabato del villaggio. Poco dopo aver concluso il Canto notturno, nel 1830, torna a Firenze ed inizia l’amicizia con un esule napoletano: Antonio Ranieri. Nell’aprile 1831, durante i moti dell’Italia centrale, escono i Canti per l’editore Piatti. Nel 1833 Giacomo si trasferisce con il Ranieri a Napoli; i due vivono in condizioni economiche estremamente precarie. Nel 1835 escono i Canti per l’editore Starita di Napoli; vi compaiono nuove poesie tra cui Il passero solitario e il cosiddetto ciclo di Aspasia (Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia). Muore, a 39 anni, nel 1837 a Napoli durante un’epidemia di colera: il Ranieri a stento riesce a sottrarne il corpo alla fossa comune.
INTRODUZIONE AL PENSIERO FILOSOFICO
Che Leopardi sia poeta nessuno l’ha messo in discussione. Che sia anche filosofo, invece, è stato oggetto di acceso dibattito. Alla base c’è il fatto che egli ha scritto di filosofia e, per così dire, da filosofo: sullo Zibaldone troviamo tanti e tali pensieri sull’anima, la metafisica, la religione, la società, la natura, la morale, e via dicendo, che l’opera, ancorché disorganica e non sistematica, ben potrebbe configurarsi come trattato filosofico. Né si può dire che manchi a Leopardi lo stile filosofico, perché alcune sue pagine, specie quelle relative alla teoria del piacere, sono di tale rigore e oggettività che sembrano stilate dalla penna di un Locke o di un suo seguace.
Ma non tutti i critici sono d’accordo su questo punto. Il vecchio filone della cultura laicista italiana, da De Sanctis a Croce, nega la filosofia di L., ritenendola scarsamente significativa, non originale né profonda.
Per Francesco De Sanctis (cfr. Schopenhauer e Leopardi), interessato all’uomo e all’artista, essa esprime un superficiale pessimismo, contraddetto dalla poesia, l’unica sua produzione genuina e profonda; il L. filosofo, che odia la vita, con la sua poesia ce la fa amare: "La vita rimane intatta quando ci sia la forza d’immaginare, di sentire e di amare: che è appunto il vivere. Dice l’intelletto: l’amore è illusione, sola verità è la morte. E io amo e vivo e voglio vivere. Il cuore rifà la vita che l’intelletto distrugge". Vera poesia è l’idillio, che è mera espressione del sentimento; l’elemento raziocinante è un ostacolo, un pericolo, dal quale il poeta non riesce sempre a guardarsi nei "piccoli idilli", quasi più nei Canti scritti dopo il ’30.
Benedetto Croce riprende la contrapposizione, ma restringe ancor più il campo poetico: la poesia del recanatese gli sembra oscillare tra filosofia e letteratura, quasi mai riuscendo a tenere la rotta mediana (di qui la sua sostanziale e netta stroncatura).
Una nuova linea, che rivaluta L. filosofo, è aperta nei decenni tra le due guerre. Giovanni Gentile, che legge L. con interessi filosofici, nell’intento di rivalutare le Operette morali, arriva ad affermare che L. è autentico e grande filosofo. Nel 1940 Adriano Tilgher sostiene che esiste una filosofia di L., che non è sistematica né procede per astrazioni (L. non indaga i problemi gnoseologici o metafisici); essa ora si serve di un’espressione lirica o letteraria (Canti, Operette morali), ora è comunicata in modo immediato, solitamente non elaborato, attraverso lo Zibaldone.
Nel dopoguerra si assiste ad un sostanziale rinnovamento degli studi leopardiani, grazie prevalentemente agli apporti della critica storicistico-marxiana, la quale mette in risalto l’ultimo L. (la produzione posteriore al ’30), sostenendo l’eccellenza del poeta impegnato e progressivo contro quello isolato e solitario dell’idillio. Saggi fondamentali sono i seguenti: L. progressivo di Cesare Luperini (Firenze, 1947), La nuova poetica leopardiana di Walter Binni (Firenze, 1947), Alcune osservazioni sul pensiero di L. di Sebastiano Timpanaro (Pisa, 1965), La protesta di L. di W. Binni (Firenze, 1973), La posizione storica di G.L. di Bruno Biral (Torino, 1974), L. - Schizzi, studi e letture di Carlo Muscetta (Roma, 1976). Questi contributi, tutti contrassegnati da una decisa matrice ideologica, individuano una linea "eroica" del pensiero leopardiano (L. consapevolmente eroico di fronte al proprio destino), pensiero che, non elevato al rango di filosofia, non è più un ostacolo alla poesia, ma piuttosto il suo vitale nutrimento. Notevole il saggio di Umberto Bosco Titanismo e pietà in G.L. (Firenze, 1957) per il tentativo di spiegare tutto il percorso intellettuale del poeta alla luce del motivo eroico-titanico.
Infine, entro l’ambito di una critica prevalentemente stilistica si sono mosse le ricerche di Bigongiari, Getto, Ramat, Solmi e Bigi.
In conclusione, mentre per alcuni studiosi L. è un filosofo esistenziale, che si pone problemi di ordine pratico-morale (la vita ha un senso? può l’uomo essere felice? dopo la morte c’è qualcosa o con la morte finisce tutto?), la maggior parte dei critici concorda oggi nel ritenere che L. non possa essere considerato filosofo per il fatto che, pur avendone l’attitudine e i mezzi "culturali", era viziata in partenza la sua volontà di speculazione. Egli infatti, sollecitato da motivi biografici e storico-culturali (vedi sotto il punto 2), assunse sin dall’inizio un atteggiamento critico negativo nei confronti della vita e dei valori che essa esprime, considerati alla stregua di miti e illusioni. Tali convincimenti, penetrati profondamente e per tempo nel suo pensiero, ne condizionarono di fatto l’attività e gli intendimenti, cosicché, quando L. disporrà degli strumenti filosofici, se ne servirà non per sottoporre a critica razionale il suo atteggiamento di base, bensì per rafforzarlo, per aumentarne la consistenza logica e la naturale persuasione. Così facendo, però, si precludeva la via alla vera filosofia: il giudizio, se segue e scaturisce dall’analisi, è oggettivo e logicamente valido, ma se la precede diventa pregiudizio e strumentalizza e vizia gli esiti di quella.
2 - La formazione di Giacomo (1798-1816)
La genesi del pensiero di L. appare determinata da una progressiva presa di coscienza della propria infelicità. All’origine di questa si possono individuare due diversi ordini di fattori: biografico-ambientali e storico-culturali.
Tra i primi l’atmosfera affettivamente carente della sua famiglia e l’educazione retrograda e autoritaria, impartita da una madre bigotta e formalista e da un padre conservatore e chiuso; poi la formazione isolata e solitaria, da autodidatta, quello "studio matto e disperatissimo" che contribuì all’insorgere di diverse malattie croniche e alla malformazione fisica. Al gelo dei rapporti familiari vanno aggiunti lo scherno e la derisione dei concittadini, la mediocrità e la scarsa cultura dell’ambiente recanatese, la precoce sensibilità e la vivace intelligenza di Giacomo.
Motivi di ordine storico-culturale furono la crisi dell’illuminismo e l’insorgere inizialmente indistinto e confuso di nuove ideologie, la perdita d’identità e di funzione politico-civile dell’intellettuale, l’arretratezza sociale e culturale dello stato pontificio.
Né va dimenticato che il periodo storico in cui Giacomo raggiunge la maturità è l’età della Restaurazione, caratterizzata dal conflitto tra nazionalismo, liberalismo e romanticismo da una parte, cosmopolitismo, assolutismo e classicismo dall’altra. In ambito letterario nasce e si sviluppa la polemica classico-romantica attizzata dall’articolo di M.me de Stael, nella quale interviene anche L. (vedi sotto il punto 3).
Punto di partenza della speculazione leopardiana, volta a tentare di chiarire il senso della vita, è dunque il disagio esistenziale dell’autore, ovvero la sua infelicità fisica e psicologica. Tale disagio è all’origine di un pessimismo di tipo esistenziale, le cui caratteristiche si possono compendiare come segue: precoce venir meno delle illusioni e dei sogni infantili, sfiducia nella vita, sentimento (non ancora razionalizzato) di desolazione e di delusione, insofferenza verso i condizionamenti, sensazione di inutilità e di soffocamento.
3 - La fase del pessimismo storico (1816-1820)
Il pensiero leopardiano prende l’avvio da una meditazione sull’infelicità in sé, della quale vengono indagate le cause, le dinamiche e le conseguenze.
Alla base c’è la teoria dell’amor proprio (di derivazione illuministica), secondo la quale l’uomo è un essere che ama necessariamente se stesso e mira alla propria conservazione e alla propria felicità. L’altruismo è un controsenso: quando io faccio del bene ad un altro è perché provo piacere, quindi lo faccio sempre a me stesso. L’altruismo non è il contrario dell’egoismo, ma è una sublimazione dell’amor proprio, in quanto esistere significa amare se stesso, cercare la propria felicità. L’amor proprio non coincide con l’egoismo: quest’ultimo è una degenerazione dell’amor proprio causata dallo sviluppo della civiltà e dal predominio della ragione; è uno degli esiti di quel progresso storico negativo, all’indietro, che è, secondo L., il passaggio dai primitivi ai civilizzati. L’amor proprio è fonte di nobili azioni, di sacrifici eroici; l’egoismo, invece, è calcolo meschino. L’amor proprio è la volontà di potenza dei forti, l’egoismo è il calcolo razionale del debole che uccide la vita.
L. respinge le ideologie ottimistiche e le utopie rassicuranti del suo secolo, si ribella alla meschinità del suo tempo e alle convenzioni del suo ambiente, che giudica arido e gretto; rimpiange un mondo mitico di nobili virtù e di valori incorrotti, in cui gloria e fama, unici antidoti contro il grigiore della vita, erano possibili, conseguibili. Si scaglia con veemenza contro i miti dell’Ottocento, la storia e il progresso, e contro la stoltezza di un secolo che dalla filosofia della storia di Hegel fino al balletto Excelsior esalta l’uomo come creatore della realtà. Per L. si tratta di un antropocentrismo fanatico, al quale egli si oppone con forza, affermando che la storia non è progresso, ma regresso dal primitivo stato di natura, buono e felice, allo stato di civiltà, corrotto e decadente.
Nella storia del genere umano si distinguono quattro tappe:
1) l’età primitiva, quando gli uomini vivevano in uno stato di perfezione e di innocenza anteriore alla civiltà;
2) l’antichità classica, civiltà che L. ammira come sintesi equilibrata di natura e ragione (nello Zibaldone sostiene la superiorità del politeismo greco-romano rispetto alla religione cristiana);
3) il medioevo, nel giudicare il quale L. incorre nei tipici luoghi comuni dell’illuminismo (secoli bui, epoca negativa, trionfo della barbarie);
4) l’età moderna, con il predominio assoluto della ragione, la freddezza, il convenzionalismo, il calcolo, la funzionalità, in una parola la vita inautentica.
L. rifiuta il progresso civile e tecnologico, convinto che sia negativo in sé, poiché l’incivilimento è snaturamento, allontanamento dalla natura: il mondo è sempre più corrotto e non può essere corretto. Netta, quindi, per L. l’antitesi tra la remota grandezza e la miseria morale e materiale odierna.
L’antagonismo di L. con gli orientamenti spirituali e culturali del proprio tempo si manifesta anche nell’impegno in favore dei classicisti, i quali devono assolvere il duplice compito di riproporre i valori classici, che hanno funzione liberatoria e di stimolo delle coscienze, e di scrivere per il proprio tempo (= alfierismo).
Causa della decadenza è la ragione, "nemica della natura", corruttrice dei costumi, madre della civiltà e della società con tutti i loro egoismi, distruttrice del rimpianto mondo eroico. Sogno è ritrovare la "favilla antica", cioè la vivacità dell’immaginazione, la forza delle illusioni, la vitalità dell’ieri contro la delusione dell’oggi, attraverso il meccanismo della ricordanza.
Come già il Foscolo, anche L. avverte la necessità delle illusioni (gloria, amor proprio, amor di patria, libertà, onore, virtù, amore per la donna), che sono secondo natura e costituiscono l’unico antidoto agli effetti della civiltà e della ragione, i quali hanno guastato il mondo moderno, "tristissimo secolo di ragione e di lume"; e come il Foscolo nei Sepolcri, così anche L. concepisce la poesia come stimolatrice di illusioni.
Tutta la storia del genere umano è la storia della lotta tra la felicità e il vero, tra l’illusione e la realtà, tra la vita e il sogno. La realtà è banale e cattiva, vere sono solo le illusioni, ossia le speranze, di cui l’umanità si nutre e che non può abbandonare senza cadere nella disperazione. "Larve" definisce L. le illusioni in cui l’uomo crede nella sua età giovanile, ovvero in quel "sabato del villaggio" che precede il giorno più noioso che è il giorno della "festa di sua vita"; sono le illusioni che impediscono di scorgere la tragedia del vivere. E le illusioni rappresentarono veramente l’unica motivazione alla vita per l’adolescente Giacomo, che le ricorda con accenti commossi in uno degli squarci più elevati della sua lirica, i vv. 77-103 delle Ricordanze.
La realtà è illusoria: manifestando un’evidente consonanza con Schopenhauer, L. sostiene la coincidenza di vita e sogno, essendo la realtà niente altro che sogno, come scrive Calderòn de la Barca. Questo concetto è ribadito nelle opere della maturità (Operette morali e Canti posteriori al ’27). Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare si legge: "Sappi che dal vero al sognato non corre altra differenza se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, mentre quello non può esserlo mai". E il verso conclusivo di A se stesso ("l’infinita vanità del tutto") sottolinea che il vero è nemico della felicità. L. mostra qui il suo paradosso: un’educazione illuministica che si rivolta contro l’illuminismo, un illuminista antiilluminista, un uomo educato al culto della ragione (che dissipa le tenebre della superstizione e liquida come favole le verità della religione), il quale distrugge i miti stessi dell’illuminismo e afferma la superiorità rispetto al vero di ciò che è pensato, sognato e sperato. Nel Dialogo di Timandro e di Eleandro tale concezione è così espressa: "Si ingannano grandemente quelli che dicono e predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dall’ignoranza, e che il genere umano allora finalmente sarà felice, quando ciascuno o i più degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello solo comporranno e governeranno la loro vita." L. nega in tal modo l’essenza, il "vangelo" dell’illuminismo: la felicità è data non dalla conoscenza del vero, bensì dalla sua ignoranza; sapere di più significa soffrire di più, e chi aumenta la conoscenza aumenta anche il dolore, come dice la Bibbia. Tutta la poesia A Silvia esprime in termini altamente lirici questa concezione.
In conclusione, la sostanza del pessimismo storico leopardiano si esprime in quattro antinomie, nelle quali il primo termine ha valenza positiva, il secondo negativa:
valenza positiva |
valenza negativa |
|
natura |
vs |
ragione |
antico |
vs |
moderno |
stato naturale |
vs |
società |
illusione |
vs |
vero |
4 - La fase del pessimismo cosmico (1823-1830)
A partire dagli anni del cosiddetto "silenzio poetico" (1823-27) L. opera un progressivo ribaltamento della concezione iniziale, giungendo a riabilitare la ragione contro la natura.
Continuando ad analizzare le cause dell’infelicità umana, egli osserva che il naturale impulso vitale è contrastato e ostacolato, a livello individuale, da un duplice limite, biologico e ontologico; a livello storico da un terzo limite, l’egoismo, che egli definisce "peste della società".
Il limite biologico consiste nell’intrinseca debolezza dell’uomo, il quale, al pari di ogni altro essere vivente, è subordinato al ciclo meccanicistico della materia. Di qui la scoperta della propria fragilità e solitudine.
Il limite ontologico è dato dall’impossibilità di essere felici: la natura genera nell’uomo una tensione irrefrenabile verso la felicità, un anelito costante al piacere, ma la felicità è irraggiungibile, giacché, in quanto tale, deve essere infinita e pienamente appagante; di conseguenza la ricerca di essa conduce inevitabilmente ad una finita e concreta infelicità. I piaceri momentanei che si provano nella vita non sono altro che una tregua relativa e passeggera dell’infelicità.
Per comprendere a fondo queste ultime affermazioni, occorre rifarsi alla teoria leopardiana del piacere, secondo la quale il piacere non né è assoluto né infinito; anzi, il piacere in sé non esiste: esiste solo nel desiderio, essendo un "subbietto speculativo", vale a dire un puro concetto. Il desiderio è immaginazione, speranza, sogno, proiettato sempre al futuro e sempre destinato ad essere deluso. Invece del piacere esistono i piaceri, intesi in senso negativo come cessazione dell’affanno, brevi momenti di assenza del dolore; concreti ed effimeri, rendono sopportabile il dolore, restituendo momentaneamente la vitalità, l’impulso vitale.
La teoria del piacere, il cui carattere è negativo, è strettamente legata alla teoria dell’amor proprio. L’amor proprio, infatti, implica la ricerca della felicità, ma questa ricerca è senza esito, non può avere fine, quindi non può mai appagarsi. L’uomo cerca il piacere sempre, ma non può accontentarsi del piacere che trova, che è finito; egli è pertanto destinato a cercare il piacere in qualcosa di sempre diverso, di sempre più alto: ciò significa che non lo trova mai. La tragicità della condizione umana è in questa ricerca dell’infinito, che conduce sempre allo scacco.
Il piacere è sempre sperato, mai posseduto, sempre futuro, mai presente: esso sfugge sempre. Non esistendo e non potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente e nella speranza o aspettativa che ne segue. In base a questa teoria il concetto di piacere è negativo, quello di dolore è positivo, per cui si può dire che il piacere è la mancanza del dolore, ma non si può dire che il dolore è la mancanza del piacere, ovvero di qualcosa che non esiste. Il concetto è espresso poeticamente nei seguenti versi tratti da La quiete dopo la tempesta:
Piacer figlio d’affanno; Gioia vana ch’è frutto Del passato timore (…). ... ... Uscir di pena È diletto fra noi. Pene tu (= la Natura) spargi a larga mano; il duolo Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto Che per mostro e miracolo talvolta Nasce d’affanno, è gran guadagno. |
È questa la concezione del piacere negativo, perché, se per caso cessa il dolore, di cui il piacere è la negazione, non subentra il piacere, ma qualcosa di peggio, che nella dialettica di L. è la noia. Il dolore, infatti, non esclude che l’uomo cerchi e speri di superarlo, mentre la noia è angoscia e disperazione. E allora, per L. come per Schopenhauer, la vita oscilla inarrestabilmente come un pendolo tra il dolore e la noia, in un eterno meriggio privo di tramonto ristoratore.
Il limite storico è dato dalla inconciliabilità di individuo e società, tra i quali si determina uno scontro di egoismi. L’atteggiamento dei singoli è antisociale: ognuno cerca sempre di avere di più, di soverchiare gli altri, di sottomettere tutto e tutti al proprio utile o piacere. E ciò per natura. Ne consegue che tutte le società sono state cattive (superamento del pessimismo storico) e che, a causa appunto dell’egoismo e dell’aggressività umani, ci si avvia inesorabilmente alla distruzione del mondo, già data per avvenuta nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo. Di qui la polemica contro l’ingenua fiducia del XIX secolo nel progresso scientifico e tecnologico, nelle macchine, nell’espansione economica, che comporta lo sfruttamento industriale e il colonialismo.
Considerati i tre suddetti limiti, L. conclude che tutto è male. Esistere equivale ad essere perennemente insoddisfatti, incontentabili, a soffrire per la propria fragilità. Il bene consiste nel non esistere. Responsabile del male è la natura, non più vista come provvida e benefica madre, bensì come causa dell’infelicità umana. Essa con l’esistenza ci dà i germi dell’infelicità, essendo l’insopprimibile bisogno di felicità destinato a restare insoddisfatto.
Documenti (testi che testimoniano la rottura del rapporto con la Natura):
a. La sera del dì di festa (idillio, 1820);
Cfr. vv. 11-15:
… io questo ciel, che sì benigno Appare in vista, a salutar m’affaccio, E l’antica natura onnipossente, Che mi fece all’affanno. A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. |
Commenta G. Oliva: "Il sonno silenzioso e tranquillo della donna si fa metafora di una indifferenza ben più dolorosa per il L.: quella della Natura, che mostra agli uomini il suo aspetto più delicato (il cielo, che sì benigno appare in vista) solo per nascondere la sua malvagia crudeltà".
b. Ultimo canto di Saffo (canzone, 1822);
Imperscrutabile è il destino dell’uomo; uniche certezze sono il dolore e la morte:
… i destinati eventi Move arcano consiglio. Arcano è tutto, Fuor che il nostro dolor. Negletta prole Nascemmo al pianto… Morremo. |
La Natura è beffarda, insensibile al dolore dell’uomo, intenta solo a perpetuare se stessa; come nella Sera del dì di festa cela sotto una struggente immagine di bellezza il suo disdegno (cfr. vv. 19-36). L. non sa proporre alcuna soluzione in grado di superare il dolore del mondo; l’assurdo non può essere vinto, ma solo accettato come tale. L’uomo non può sperare di vincere il nulla, da cui è sorto e a cui farà ritorno, ma può solo identificarsi con esso in un’operazione che ricorda quella orientale del "nirvana", dell’annullamento.
c. Zibaldone (dal 1821);
Nella sua condanna della Natura il L. rifiuta qualsiasi provvidenzialismo, qualsiasi consolazione religiosa, qualsiasi soluzione irrazionale; al contrario, rivaluta pienamente la ragione: è la ragione che disinganna e guida l’uomo alla vera sapienza, che consiste nel prendere coscienza della propria inutilità; è la ragione che "atterra" (cioè riporta sulla terra dal cielo della metafisica) l’uomo e lo pone davanti all’ arido vero; è la ragione, infine, che scopre che tutta l’umanità è accomunata da un unico e identico destino (superamento del pessimismo individuale e psicologico).
d. Dialogo della Natura e di un Islandese (O.M., 1824);
Ogni tentativo di agonismo è votato a disfatta: la Natura è invincibile ed è indifferente alla felicità o meno dell’uomo. L’universo è dominato dall’irrazionalismo e dal casualismo: non c’è una ragione, un senso; non c’è un fine, una creazione, un orientamento; tutto è abbandonato al caso. Del tutto inutile è la ricerca di un significato: la Natura non dà risposte. L’estrema domanda dell’Islandese ("Dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?") rimane senza risposta.
e. Cantico del gallo silvestre (O.M., 1824);
L’essere esiste, ma non c’è nessuna ragione perché esista anziché perché non esista; la vita non ha senso, né ha alcun senso la realtà. I positivisti, che collegavano il pessimismo di L. alle sue condizioni fisiche, nel centenario della nascita ne riesumarono il corpo per misurarlo ed espressero la tesi che egli, essendo infelice e gobbo, doveva diventare fatalmente pessimista. Ma tale tesi è del tutto insostenibile: il pessimismo di L. non è di ordine psicologico, bensì cosmico, poiché riguarda la realtà tutta, non solo l’uomo, né tanto meno l’uomo Giacomo Leopardi. Il quale, nella pagina più terribile delle Operette morali denuncia il radicale non senso della realtà. Si tratta della parte conclusiva del Cantico del gallo silvestre: "Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna: parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi".
f. A Silvia (idillio, 1828);
La Natura tradisce, è matrigna, non mantiene le promesse, inganna, spegne le illusioni:
O natura, o natura, Perché non rendi poi Quel che prometti allor? perché di tanto Inganni i figli tuoi? |
La vita si rivela aridità e disillusione:
All’apparir del vero Tu, misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano". |
g. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (idillio, 1830).
Il desiderio di sapere la verità non è appagato; uniche certezze il vuoto e il nulla; l’esistenza è assurda. "Perché siamo nati?". A questa domanda L. risponde: "Per mostrare che era meglio che non nascessimo affatto": per questo, non appena un bambino è nato, noi prendiamo a consolarlo dell’essere venuto al mondo. E forse la definizione più precisa del pessimismo cosmico, del non senso dell’essere, si trova in questa grande lirica, che è stata chiamata l’"anti Divina Commedia", perché, se la Divina Commedia è senso dell’ordine, della provvidenza, della finalità, il Canto notturno, all’opposto, esprime una visione della vita improntata ad un totale casualismo. Effetto di questa presa di coscienza è il tedio, la noia, definita "la più sterile delle passioni umane", "figlia della nullità e madre del nulla", ma anche "il più sublime dei sentimenti umani". Essa è tormento, è l’esaurirsi del mito vitalistico, è privazione del desiderio, è coscienza dell’inutilità del tutto; ed è sentimento nobile, perché distingue gli spiriti più sensibili e dotati. In questo risiede la grandezza dell’uomo.
In conclusione, una valida sintesi delle concezioni su cui si fonda il pessimismo cosmico di G.L. può essere la seguente:
5 - L’ultimo Leopardi: il pessimismo eroico (1827-1837)
Dopo il definitivo addio a Recanati del 30 aprile 1830 il pensiero di L., sia sul piano ideologico sia su quello etico, fa registrare una svolta (anticipata dal Dialogo di Plotino e di Porfirio del 1827) nel senso di un superamento della visione materialisticamente negativa e nichilista maturata nella fase del pessimismo cosmico, per un messaggio agonistico positivo (di difficile comprensione e attuazione, perché "non apprezzato in questo secolo").
Le ragioni di tale svolta sono molteplici e si possono sintetizzare nei punti seguenti:
Nel ricostruire, attraverso i documenti, le tappe di questa fase del pensiero leopardiano, troviamo nel Dialogo di Plotino e di Porfirio del 1827 la prima espressione della necessità di una solidarietà umana di fronte al destino. Il dialogo, incentrato sul tema del suicidio e volto a chiarire le ragioni che lo respingono come soluzione al dramma esistenziale, si conclude con un‘appassionata esortazione rivolta da Plotino all’amico: "Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora."
Due anni più tardi L., in una famosa pagina dello Zibaldone, dissipa con forza i sospetti di misantropia di cui era fatto oggetto il suo pensiero: "La mia filosofia non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbero esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente ai loro simili (…). La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera dei mali dei viventi."
Ma L. non trova rispondenza né comprensione nella classe politica e intellettuale del suo tempo, la quale professa fiducia nelle magnifiche sorti e progressive. Contro l’ottimismo storicistico del secolo, che egli giudica stolto, e contro lo stesso impegno politico e legislativo, che egli vede animato dalla sterile e ridicola pretesa di procurare agli stati il benessere e la felicità ignorando le reali esigenze degli individui, L. intraprende una vigorosa crociata solitaria. In una lettera al Giordani del 1828 scrive: "Mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura: massimamente che non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica. Anzi, considerando filosoficamente l’inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall’età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e legislativi; e umilmente mi domando se la felicità dei popoli si può dare senza la felicità degl’individui." La polemica di L. è particolarmente dura contro il liberalismo cattolico e moderato, come attesta la satira dei Nuovi credenti, e la sua condanna coinvolge ogni tipo di conformismo, sia reazionario, sia liberale.
Negli ultimi anni L. abbandona il pessimismo più "metafisico" per acquisire un atteggiamento più "relativistico", fondato sul riconoscimento di un doppio piano della verità, quello dell’"ordine delle cose" e quello del "modo dell’esistenza", e, di conseguenza, di una duplice matrice del dolore. "C’è il dolore che deriva dall’ordine delle cose, dunque legato all’essenza stessa della vita e, come tale, è ineliminabile se non a costo della rinuncia alla vita stessa (si tratta del dolore inflitto all’uomo dai "mali esterni", ai quali non ci si può sottrarre: malattie, eventi atmosferici, cataclismi, deperimento dovuto a vecchiaia). C’è poi un altro tipo di sofferenza, che invece rimanda al mondo dell’esistenza, cioè alla qualità della vita, alla storia, alla cultura. Questo secondo tipo di dolore può essere invece combattuto e rimosso in quanto dipende non dalla natura, ma dall’uomo: di qui il recupero del vitalismo e la scoperta, da parte della poesia leopardiana, della dimensione sociale.
Il male storico dipende dal libero sfogo dell’egoismo umano: noi viviamo tutti per la morte e, anche se accomunati dalla stessa miseria della vita e dall’odio implacabile della Natura, tendiamo a contrapporci l’un l’altro per desiderio di affermarci, voglia di prevalere, che sono la manifestazione degli istinti più bassi. Così accresciamo il già grande male di vivere. Ma l’uomo è essere razionale, soggetto di cultura, dunque può controllare i bassi istinti, che sono fondamentalmente antisociali, e produrre valori alternativi come la compassione, la solidarietà, l’amicizia, che invece fondano la società. E’ questo il compito della ‘filosofia dolorosa ma vera’, che riconosce francamente il male della vita e mostra concretamente come esso possa essere mitigato. Questo è il compito del nuovo poeta, che così recupera la funzione di vate al servizio tanto della verità quanto dell’intera umanità e si fa promotore di autentica cultura e autentico progresso sociale."
L’etica della solidarietà è il tema centrale della Ginestra, concepito come un messaggio indirizzato sia ai contemporanei sia ai posteri: si impone una grande alleanza fra tutti gli uomini, una social catena che coalizzi i mortali contro l’empia Natura e abbia il coraggio della verità, rifiutando l’idea di una Provvidenza e le superbe fole del secol superbo e sciocco.
Il messaggio finale di L. è frutto di un razionalismo irriducibile. Progressismo e pessimismo convivono in quest’ultima fase del suo pensiero, caratterizzata dalla speranza che la riconquista del giusto sapere sia il fondamento di una società nuova, costruita con le sole forze umane.
A cura di Giuseppe Bonghi
Leopardi scrive questo poemetto satirico di otto canti in ottave, presentandolo come continuazione del poema pseudomerico Batracomiomachia, che era stato tradotto per ben tre volte dal Leopardi:
1815 La guerra dei topi e delle rane
1821-1822 Guerra de' topi e delle rane
1826 Guerra dei topi e delle rane
Leopardi finge che il poema sia tratto da antiche pergamene e che sia all’improvviso interrotto e non continuabile, per quanto abbia interrogato le antiche fonti.
Incerta è la data di composizione del poemetto, che sicuramente non viene cominciato prima del 1831, e questo lo si può dedurre dall’accenno alla sconfitta dei Belgi a Lovanio il 12 agosto 1831 e alla morte del Niebuhr avvenuta il 2 gennaio 1831. Quasi certamente vi lavorò mentre si trovava a Napoli nel 1834 e vi lavorò fino alla morte lasciandolo incompiuto, nel senso che non riuscì a dargli una veste definitiva. In una lettera scritta l’11 dicembre 1846 da Giuseppe Giusti a Vincenzo Gioberti.
Dei Paralipomeni abbiamo due copie manoscritte: una è fra le carte napoletane ed è di mano di Antonio Ranieri (ma il primo canto è di mano del poeta); l’altra è fra le carte che il Ranieri lasciò alla biblioteca nazionale di Napoli, ed è interamente di mano del poeta. Fu pubblicato per la prima volta nel 1842 a Parigi, per i tipi della Libreria europea di Baudry.
Con i Paralipomeni Leopardi scrive dei suoi tempi, ma erano tempi legati a un certo immobilismo: la napoletanità di Topaia, la città-stato dei Topi lo dimostra. Ma ne parla in modo letterario, lontano dai veri problemi sociali e politici che affannavano l’epoca della Napoli che lui ha conosciuto negli ultimi anni della sua vita, che non gli entrerà mai dentro e della quale conoscerà a malapena certi aspetti esteriori, riassumibili nelle vicende di Pulcinella e Colombina, che venivano rappresentati dai teatranti di strada col teatro dei pupi, unico divertimento della gente che si accalcava davanti al teatrino e partecipava in modo diretto alle vicende con incitamenti e richieste che spesso cambiavano la stessa vicenda come in una specie di "Commedia dell'arte" . È vero che i Topi sono i liberali italiani, le Rane i papalini e i Granchi i reazionari austriaci e l’autore crede di essere il Malpensante, il personaggio Assaggiatore, cioè l’uomo antiretorico e anticonformista, ma è anche vero che di quell’epoca non riesce a cogliere né la realtà storica né la realtà umana della gente che lo circondava, troppo assorbito forse dalla vasta e profondamente dolorosa vicenda personale.
I Paralipomeni sono un poemetto incompleto, perché manca una conclusione strutturalmente valida (troppo debole e letteraria risulta il marchingegno della trovata del manoscritto interrotto) e manca soprattutto un’idea-guida intorno alla quale far girare l’intera vicenda, che pure non manca di spunti importanti e sul piano poetico di ottave interessanti: e l’idea-guida poteva essere solo, in quei frangenti storici e la presenza dei tre gruppi Topi-Rane-Granchi, la soluzione di un’Italia unita; ma noi non sapremo mai, leggendo questo poemetto, cosa veramente Leopardi pensasse dell’Italia e della sua unificazione.
Dei Paralipomeni così scrive Novella Bellucci in Per leggere Leopardi, (Bonacci, Roma 1988, p. 194): "Con questa satira politica … Leopardi ha insegnato ai posteri una lettura certamente non conformista degli eventi prerisorgimentali, elaborata sullo sfondo di uno scenario di cui ormai l’autore ha smascherato ogni ornamento pseudoculturale o ideologico, ogni supporto aprioristico e consolatorio. Va tenuto presente che lo spirito polemico del poemetto è indirizzato verso dei destinatari concreti, i liberali in genere (molti Leopardi ne aveva conosciuti e frequentati nel soggiorno fiorentino), ma soprattutto gli spiritualisti cattolici della Napoli in cui si trovò a vivere negli ultimi anni della vita; eppure le ottave dei Paralipomeni, mentre si misurano con la polemica concreta, si situano anche in una prospettiva più generale, si riconducono al complessivo discorso poetico dell’ultimo Leopardi: sopra e oltre le vicende degli uomini, le loro micro e macro storie, incombe un "sistema" antiprovvidenziale, ugualmente indifferente a umani e bestie, impossibilitato nei suoi meccanismi essenziali a mutare o migliorare, identificabile con una natura "carnefice e nemica" o almeno non finalizzata alla cura degli eventi."
Queste parole sono apparentemente chiare, ma difficili da capire per i nostri magri studenti (avrebbe, ad esempio, almeno potuto spiegare che cosa significa supporto aprioristico e consolatorio in un autore che chiede così poco di essere consolato ma tanto di sentire vicino una presenza amica); e noi le abbiamo riportate perché ci servono per mettere in evidenza due elementi, che appartengono non solo alla comprensione di questo poemetto, ma all’intera poetica leopardiana e che possiamo così enucleare:
1) il poemetto è indirizzato realisticamente a certi gruppi di persone, i liberali che aveva conosciuto soprattutto a Firenze e gli spiritualisti cattolici di Napoli eredi delle vittoriose giornate contro la Repubblica partenopea del 1799 e che continuavano imperterriti a fare disastri politici ed economici nella Napoli della prima metà dell’Ottocento;
2) ogni cosa è sottoposta a un sistema esterno e superiore all’individuo (identificabile con la Natura matrigna) che tutto vede e a tutto provvede senza tener conto degli individui ma perseguendo fini misteriosi ai quali l’uomo è completamente estraneo e contro i quali si rende conto di essere impotente. Se estendiamo questo concetto dal piano religioso a quello politico, ci accorgiamo che in effetti la situazione non cambia: il potere politico resta qualcosa di inaccessibile all’uomo che si rende conto allo stesso modo di essere estraneo e impotente.
Ma, al di là di queste due considerazioni, assodato che questo poemetto leopardiano viene letto solo dagli studiosi e da qualche appassionato, ci dobbiamo rendere conto che Leopardi stesso vive in una realtà sociale, politica e religiosa che gli resta estranea: non è l’interprete di quella realtà, come non può esserlo il romantico in genere tutto preso dai suoi grandi ideali che appartengono a una realtà storica sicuramente più evoluta, ma solo il visionario che con la realtà tende molto spesso a scontrarsi. Il romantico lotta per un’idea, non per la realtà, lotta per la libertà come ideale non per la libertà di un popolo che è anche progresso dell’uomo e non ci può essere progresso sociale se non si cancellano privilegi che allora come ora erano forti e tenacemente legati al modo di vivere e di pensare di coloro che in qualunque modo avevano in mano le leve del potere sia a livello generale che a livello locale.
Per avere scrittori che siano anche interpreti della realtà bisognerà aspettare almeno i poètes maudits e i veristi o naturalisti, che descriveranno la realtà come credevano che essa fosse. Insomma:
a) i romantici hanno una visione personale della realtà,
b) i romantici non sono interpreti della realtà.
Personaggi del poemetto
(I nomi di alcuni personaggi appartenevano già alla Batracomiomachia)
Miratondo, un guerriero dei Topi
Mangiaprosciutti, Re dei Topi, morto in battaglia
Leccamacine, figlia di Mangiaprosciutti, sposa di Rodipane
Rodipane, sposo di Leccamacine, successore di Mangiaprosciutti per elezione e quindi per volontà popolare
Rubabriciole, figlio di Rodipane e Leccamacine, per la cui morte scoppia la guerra fra Rane e Topi
Rubatocchi, generale dei Topi, valoroso come Achille, l'unico a morire eroicamente nella battaglia contro i Granchi
Leccafondi, Conte e Signore di Pesafondi e Stacciavento (identificato con Gino Capponi o Pietro Colletta)
Brancaforte, Generale dei Granchi (qualcuno lo ha voluto identificare col generale austriaco di origine italiana Federico Bianchi, che nel maggio del 1815 sconfisse Gioacchino Murat a Tolentino)
Senzacapo, Re dei Granchi (probabile allusione a Francesco I di Lorena, diciannovesimo imperatore della casa d’Asburgo, appartenente alla dinastia iniziata da Francesco di Lorena e Maria Teresa)
Camminatorto, ministro reazionario imposto dai Granchi a Rodipane
Assaggiatore, generale, che rispecchia idee e scelte dell’autore
Riassunto del poemetto
(I numeri tra parentesi indicano le ottave)
Canto primo:
Nella guerra tra Topi e Rane, scoppiata per la morte del principe Rubabriciole, nipote di Mangiaprosciutti re dei Topi e figlio di Leccamacine, i Topi sconfitti sono costretti a una ritirata precipitosa (1-4); morto in battaglia il loro re Mangiaprosciutti, durante una sosta eleggono il valoroso Rubatocchi come capo provvisorio (5-13) e inviano il conte Leccafondi come ambasciatore al campo nemico (32-47). Lunga digressione sull’antica grandezza d’Italia (14-31).
sconfitta dei topi
riferimento alla battaglia di Tolentino (3 maggio 1815) nella quale l’esercito napoletano comandato da Gioacchino Murat fu sconfitto dagli Austriaci venuti in soccorso delle truppe pontificie
fuga dei topi
terza ottava: viene paragonata a quella delle truppe pontificie nel corso della prima campagna d’Italia di Napoleone (1797), guidate dal generale imperiale Michelangelo Alessandro Colli-Marchini
fuga dei topi
quarta ottava: sconfitta degli Olandesi a Lovanio (12 agosto 1831) con una fuga interrotta dal soccorso delle truppe francesi di Luigi Filippo
nona ottava
riferimento all’episodio narrato da Senofonte nell’Anabasi, dei diecimila mercenari greci che, dopo aver partecipato alla sfortunata spedizione
Lucerniere
antico topolino filosofante, al quale è stata eretta una statua
Canto secondo:
Viaggio notturno del Conte Leccafondi (1-10) e descrizione del suo arrivo al campo dei Granchi (11-27); Brancaforte, generale dei Granchi, dapprima si rifiuta di riconoscere il mandato di Leccafondi; poi, per ordine del suo re Senzacapo, detta al conte le condizioni di pace: nomina, da parte dei Topi, di un re legittimo e insediamento di un presidio di trentamila granchi in Topaia, la capitale sotterranea dei vinti Topi e infine illustra la politica del suo sovrano, basata sui princìpi dell’equilibrio e del diritto d’intervento (28-46). Da notare che nelle ottave 30-39 è satireggiato il principio dell’equilibrio europeo, obiettivo della politica austriaca posteriore al congresso di Vienna.
Topaia
La città stato dei Topi, identificabile con la città di Napoli e/o col Regno di Napoli
Mezzofanti
cardinale Giuseppe Gaspare Mezzofanti (1774-1849), famoso poliglotta, professore all’Università di Bologna (sembra conoscesse una ventina di lingue)
Brancaforte
Generale dei Granchi (qualcuno lo ha voluto identificare col generale austriaco di origine italiana Federico Bianchi, che nel maggio del 1815 sconfisse Gioacchino Murat a Tolentino): è comunque l’emblema del militare austriaco rozzo e ottuso
Senzacapo (ott. 26)
probabile allusione a Francesco I di Lorena, diciannovesimo imperatore della casa d’Asburgo, appartenente alla dinastia iniziata da Francesco di Lorena e Maria Teresa
ottava 42
Forse c’è un riferimento alla guarnigione che l’Austria impose al Regno di Napoli nel 1821
Canto terzo
Rubatocchi, che ha condotto in salvo l’esercito dei Topi in salvo nella città-stato di Topaia (1-19), rinuncia al potere che gli viene offerto; digressione sul secolo XVI (20-34). I Topi instaurano allora un regime costituzionale ed eleggono come loro Re Rodipane, genero di Mangiaprosciutti (35-45).
Topaia
nella descrizione di Topaia Leopardi ha tenuto presente Napoli
ottava 7
Il castello di Topaia è paragonato alla città di Trevi con una lunga similitudine che si estende per tre ottave
Canto quarto
Dopo una lunga digressione satirica sui primordi della società umana in polemica con le teorie provvidenzialistiche della storia (1-25), il racconto riprende dalle elezioni di Rodipane: viene costituito un governo liberale, nel quale il liberale Leccafondi è nominato consigliere del re e ministro degli interni, e si adopera per il progresso culturale, civile ed economico del popolo (26-42. Ma Senzacapo, il re dei Granchi, non tollera questa svolta pericolosa ed invia a Topaia il suo messo Boccaferrata (43-47)0.
Senzacapo
nel ritratto di Senzacapo c’è un probabile riferimento a Francesco I d’Austria, il quale "si occupava personalmente di regolare con editti e decreti il numero e le qualità delle percosse, e la qualità della verga che era, secondo i casi, o bastone o verga di vimini. Francesco I fu veramente sonatore di violino e faceva parte di un quartetto speciale" (Allodoli)
Canto quinto
Lungo discorso (1-15) di Boccaferrata che cerca di costringere Rodipane di "legittimare" il suo potere, rifiutando la sua elezione avvenuta per volontà popolare e sancendo che il potere gli spetta per diritto dinastico. Rodipane si rifiuta (16-20) e scoppia la guerra: il popolo dei Topi approva sdegnati l’atteggiamento del suo re e si prepara allo scontro con i Granchi (21-34); ma alla sola vista del nemico i Topi fuggono e vengono sconfitti (35-48): tanto grandiosa ed epica è la descrizione della preparazione alla battaglia (basta vedere l’elenco dei personaggi mitici nominati). L’unico a non fuggire è Rubatocchi, contro il quale si rivolgono le schiere nemiche: dopo il tramonto del Sole, quando il buio è ormai completo, cade "ma il suo cader non vide il cielo".
Canto sesto
Cade Topaia e cade il suo regime liberale (1-6): Camminatorto, il ministro reazionario che i Granchi impongono a Rodipane, abroga tutti i provvedimenti che aveva preso l’illuminato Leccafondi (7-13). A Topaia i Topi cominciano a tramare congiure velleitarie, mentre Leccafondi viene esiliato (14-23); durante la tempesta in una notte d’autunno trova rifugio nel palazzo di Dedalo (unico personaggio umano del poema) (24-36), che lo ospita generosamente e al quale narra le sue peripezie, come Enea a Didone (37-45).
Canto settimo
Ritratto di Dedalo che fa vedere a Leccafondi la sua biblioteca e le opere antiche e moderne dei Topi (1-7), convinto assertore dell’immortalità dell’anima delle bestie, guida Leccafondi verso l’Averno degli animali. Muniti di ali, i due sorvolano la meta Europa, Asia e Africa rappresentate in età preistorica (20-31) e infine raggiungono l’Averno degli animali (32-51).
Canto ottavo
Leccafondi discende nell’Averno dei Topi (1-19) e a fatica riesce a strappare un consiglio ai Topi defunti: rientri in Topaia e si rivolga al vecchio e prode generale Assaggiatore (20-31). Tornato in patria, il conte interroga più volte invano il generale (32-41); finalmente egli parla ma le sue dichiarazioni non possono essere riferite perché proprio a questo punto s’interrompe il manoscritto sul quale il poeta finge di aver condotto la sua storia (42-46) e più a nulla vale la conoscenza celata in mille biblioteche e in tante lingue diverse, antiche o moderne.
"Sotto le vesti animalesche si nascondono i contendenti dei moti risorgimentali dal 1821 al 1831, con particolare riferimento alle vicende napoletane: i topi sono liberali, le rane rappresentano i conservatori (con specifica allusione alle truppe pontificie), i granchi invece rappresentano gli Austriaci. Resta fondamentale il giudizio espresso sul poemetto da Vincenzo Gioberti (cfr. Il gesuita moderno, vol. III, Losanna, Bonamici 1847, pag. 484): "I popoli italiani sono forse educati alle grandi imprese? Il Leopardi verso la fine della sua vita scrisse un libro terribile, nel quale deride i desideri, i sogni, i tentativi politici degl’Italiani con un’ironia amara che squarcia il cuore, ma che è giustissima. Imperocchè tutto ciò che noi abbiam fatto in opera di polizia da un mezzo secolo in qua è così puerile, che io non vorrei incollerire contro gli stranieri quando ci deridono se anch’essi non fossero intinti più o meno della stessa pece".
Alla fine resta la penosa impressione dell’esercito dei Topi che, schierato e pronto ormai per la battaglia, all’improvviso si slancia in una irrefrenabile fuga e giunge ad accalcarsi davanti alle quattro sole porte d’entrata nella città di Topaia, raggiunto e inesorabilmente decimato dall’esercito dei Granchi, dopo che era stato abbattuto l’ultimo eroico inutile baluardo, rappresentato dalla figura del generale Rubatocchi: una morte tanto eroica quanto farsesca se si pensa alla contemporanea oscena fuga del suo esercito.
Proprio le due dicotomie eroismo-farsa e storia-apparenza, introducono alla dicotomia più interessante presente nel poemetto e che affonda le sue radici nell’Illuminismo e nella Rivoluzione francese, quella fra potere regio e potere popolare, che così male era rappresentata dall’esercito francese in Italia, sia per quanto riguarda le esperienze infelici di Monaldo Leopardi, sia per le esperienze altrettanto infelici dei tempi di Giacomo; proprio quest'ultima dicotomia è ben rappresentate dalla presenza di Boccaforte che cerca di obbligare Rodipane a cambiare la legittimità della sua elezione da popolare in una più tradizionale, quella del potere che deriva dal diritto divino.
INTRODUZIONE ALLE OPERETTE MORALI
A cura di Giuseppe Bonghi
Le Operette Morali, progettate sin dal 1820 in un progetto "vago e sovrabbondante", con l'idea di riprendere il genere dei Dialoghi dello scrittore greco Luciano, vengono scritte nel 1824 (le prime venti) e stampate a Milano dall'editore Angelo Stella nel 1827, dopo che tre di esse erano uscite nel 1826, due sul numero di gennaio dell'Antologia (Dialogo di Timandro e di Eleandro, Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare e Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez) del Viesseux e successivamente su due numeri del Nuovo Ricoglitore.
L'edizione completa con l'aggiunta delle ultime quattro scritte negli ultimi anni, uscirà nel 1835 a Napoli presso l'editore Saverio Starita, un'edizione che non ottenne il permesso di pubblicazione ufficiale, ma che ebbe lo stesso un buon successo. Nelle Operette Leopardi esprime la sua diagnosi della realtà, trattando la sua visione con assoluta libertà proprio assumendo le vesti più disparate dei personaggi dei suoi Dialoghi, che discutono con i morti o sono semplicemente animali domestici come il gallo silvestre; guida i suoi lettori verso traguardi noti a lui solo, a scoprire la vera essenza del quotidiano, quasi anticipando l'analisi umoristica pirandelliana, facendoci vedere l'altro aspetto della realtà, non quello più nascosto, ma quello più difficile da cogliere se si analizzassero le cose col solito modello di pensiero. Invita i lettori a svestorisi del proprio modo di pensare per vedere non dentro le cose (un'operazione che tutti fanno), ma dalla parte opposta e simmetrica, a sentire l'altro suono della campana.
Il ricorso alla fantasia della rappresentazione non si scontra mai con l'analisi della realtà, non è un'operazione dell'immaginazione, ma della logica seguendo strutture di ragionamento diverse, come diverse sono le epoche in cui sono situati i personaggi, come diversi sono i modi di pensare e di vedere: ma tutti dovrebbero condurre a una sola unità d'intenti, a una sola visione, agli stessi valori ed ideali, eliminando arrivismi ed egoismi che tutto distruggono.
Analizzando proprio il Dialogo cancellato dal poeta possiamo capire come i grandi valori sociali (la patria, l'onore) siano diventati la ricchezza sfrenata, i divertimenti, la voglia di primeggiare. Le Operette esprimono la meditazione leopardiana sulla condizione umana sospesa tra passato e presente, tra aspettative naturali e realizzazione pratica, sul destino, sull'aspirazione di ogni uomo a una felicità che sembra raggiungibile nella prima giovinezza ma che si rivela ad ogni anno che passa (Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere) sempre più un sogno impossibile; non a caso si aprono con la Storia del genere umano, in cui Leopardi rappresenta la successione delle tappe della sua storia spirituale che riflette quelle della storia del genere umano in generale, e si chiudono con il Dialogo di Tristano e di un amico che rappresentano la "virile attesa della morte, solo rimedio all'inutile miseria della vita... sottolineando così la sua solitudine e il coraggio con cui ricercava il vero, fra gli uomini che preferivano banali e confortanti illusioni. Scritte nel 1824, rappresentano la presa di coscienza del crollo delle sue illusioni giovanili, tornando a Recanati, il "natìo borgo selvaggio", dopo che fiducioso tre anni prima era corso incontro al mondo allontanandosi da casa, in cui gli sembrava impossibile vivere e raggiungere un'accettabile condizione di vita felice.
L'ironia che le pervade non sono una ricerca spirituale di distacco dall'amarezza che la materia trattata gli infonde, ma sono la scoperta del senso fondamentale della vita che si nasconde dietro le banali apparenze quotidiane della cultura e dei modi di vivere. Proprio questa scoperta sarà alla base della sua grande poesia a partire dal 1827. É una scoperta dolorosa, ma rappresenta anche l'accettazione del male della vita, esclusa da ogni speranza di bene o contento, come dirà nel Canto notturno, che altri forse avrà, ma che lui non potrà mai raggiungere perché questa è la condizione umana.
Le domande che si pone, e che scaturiscono dai Dialoghi, rimangono senza risposta; il dialogo stesso diventa fittizio e apparente, perché resta un monologo che scaturisce dai due aspetti della realtà che lo affascina e lo intristisce, una, quella dell'apparenza, che l'uomo vive nella fiduciosa giovinezza, nel momento in cui le cose appaiono, e l'altro che si afferma all'apparir del vero.
Per questo le Operette rappresentano un punto di partenza fondamentale per la formazione umana e sociale dell'uomo moderno, lontano da tutto ciò che impoverisce l'esistenza umana, appiattendola su apparenze vuote o sospingendola verso chimeriche forme di vita ultraterrena; in esse il poeta tocca e rivela i più profondi motivi del nulla, della noia-angoscia, della vita come morte, senza mai cadere nel patetico, ma sempre stimolando l'energia virile dell'uomo ad affrontare l'esistenza con il coraggio che deve portare alla ricerca della verità.