ETIENNE GILSON
A cura di Moses
Etienne Gilson (1884-1978) è stato
probabilmente il più insigne studioso di filosofia
medioevale fino ad oggi; fu l'autore del più significativo compendio di
storia della filosofia medioevale di cui si possa oggi disporre; fu quindi storico
della filosofia, più che filosofo in senso ampio o stretto, a seconda di
come si guardano le cose. Ed è dallo storico che abbiamo molto da imparare per
la serietà, l'impegno, un'erudizione strepitosa ma mai fine a sé stessa, sempre
pronta a spiegare, a capire, a carpire da testi obsoleti ed incartapecoriti un
certo spirito, una tale tendenza, una forte tensione. Tuttavia, Gilson ebbe una
sua filosofia, sostanzialmente una neoscolastica
non dogmatica e per nulla chiusa alle istanze della contemporaneità.
Ovviamente, parlando di neoscolastica, si entra di colpo su un terreno
delicato e spinoso, quello del rapporto tra fede e scienza, e, all'interno
della fede, quello ancor più delicato tra ortodossia cattolica da un lato ed
istanze moderniste o spiritualiste dall'altro. Gilson scelse senza esitazione
di porsi in una prospettiva neotomistica, non disdegnando di ascoltare altre
campane. Fu anche allievo di Bergson al Collège de France nel 1905, l'anno del corso sul "l'effort intellectuel". «Era il periodo - ricorda Mario Dal Pra
- in cui il declino del positivismo apriva la prospettiva di una ripresa
spiritualistica di vaste proporzioni, sia attraverso lo sviluppo di temi
idealistici o irrazionalistici, sia mediante la ripresa ed il recupero dei contenuti
principali della tradizione cattolica. L'età positivistica aveva rappresentato,
a livello europeo, un'affermazione organica dello spirito laico e della
polemica anti-religiosa. E il momento in cui la grandiosa metafisica
scientistico-evoluzionistica del positivismo entrò in crisi fu anche il momento
della ripresa della cultura, della filosofia e dell'apologetica di ispirazione
cattolica.» (1)
Gilson può essere ricordato per come riuscì a spiegare che Descartes non era
nato, come Athena, direttamente dalla testa di Zeus, cioè di Dio, ma formandosi
alla scuola della filosofia medioevale, che poi gettò insoddisfatto in un
angolo come un ferrovecchio inservibile, considerandola del tutto inadatta a
dominare il mondo, a curare le malattie ed allungare la vita all'uomo,
rendendola al contempo più comoda e piacevole. Il Commentaire del Discours
de la Méthode del 1925 è uno studio rigoroso del pensiero di Descartes,
seguito nel 1930 da Ètudes sur le rôle de la pensée médiévale dans la
formation du système cartesien, che indaga a fondo
le "fonti" medioevali del sistema cartesiano. Proprio a
partire da Descartes, Gilson elabora una concezione della storia della filosofia
che predilige la continuità a scapito della rottura e delle rivoluzioni.
Sviluppando questa tesi, Gilson può rivelarsi maestro impareggiabile e guida
preziosa per intendere che non solo nulla è inutile nella storia del pensiero
umano, e come ben vide Aristotele, "tutti gli uomini" anche i più
insignificanti, "concorrono alla verità". Se ciò è vero persino nella
transizione dal medioevo alla modernità, perché non dovrebbe esserlo in
generale? Così, studiando Tommaso d'Aquino, Dante Alighieri e Duns Scoto, cui
dedicò opere particolari come l'importante Le thomisme: introduction au
système de saint Thomas d'Aquin, del 1919 (ma in edizione molto più estesa
nel 1942), Gilson venne convincendosi che persino rispetto all'evidente discontinuità
della storia politica, si presenta una maggiore continuità nella
storia della filosofia e della cultura.
Ciò può stupire chi si sia abituato a vedere quantomeno un profondo mutamento
di paradigmi tra filosofie greche ed ellenistiche e la patristica cristiana,
tra gli ultimi stoici e Agostino, ma Gilson preferisce insistere sul fatto che
il tramonto dell'impero è secondario rispetto alle linee di continuità
sviluppate dalla Chiesa nei confronti della cultura latina. Se ne può trovar
traccia, ovviamente, soprattutto nelle pagine su Boezio. Ma non meno importante
è la messa a fuoco della connessione e della relativa disconnessione tra
filosofia e religione, dove entrambe finiscono con il conservare il loro ruolo
e la loro autonomia, pur riservandosi, la religione, di poter condannare quelle
filosofie decisamente contrarie allo spirito cristiano.
Le pagine su Giustino sono in questo senso illuminanti e genetiche.
Mosso da una grande spinta interiore alla ricerca di una luce per la vita,
Giustino si trova di fronte una variegata gamma di offerte
"filosofiche". Attraversandole, egli giunge finalmente ad una
conclusione ed ad una scelta. «Nella speculazione filosofica stessa - scrive
Gilson - le preoccupazioni religiose occupavano allora ampio spazio.
Convertirsi al Cristianesimo era spesso un passare da una filosofia animata da
uno spirito religioso ad una religione capace di prospettive filosofiche. Per
il giovane Giustino, la filosofia era "ciò che ci conduce verso Dio e a
lui ci riunisce". Dapprima egli frequentò gli stoici, ma questi uomini
ignoravano Dio e gli dissero anche che non era necessario conoscerlo. Rivoltosi
successivamente ai peripatetici, egli cadde sotto un maestro che gli chiese
innanzitutto di accordarsi per la retribuzione "affinché le loro relazioni
non restassero inutili": non era dunque un filosofo. Giustino volle allora
istruirsi da un pitagorico, ma questo maestro pretendeva che prima si sapesse
la matematica, l'astronomia e la geometria, e Giustino non poteva risolversi a
dedicare a queste scienze il tempo necessario. Un migliore successo l'attendeva
presso i discepoli di Platone. Là egli veramente si istruì su ciò che
desiderava apprendere; dice Giustino: "L'intelligenza delle cose
incorporee mi conquistava al più alto grado; la contemplazione delle idee dava
ali al mio spirito, tanto che, dopo un po' di tempo, credetti d'essere
diventato sapiente; fui anche tanto sciocco da sperare d'essere sul punto di
vedere Dio immediatamente; perché questo è il fine della filosofia di
Platone." Ciò che Giustino cercava nella filosofia era una religione
naturale: non ci si stupirà dunque, che egli abbia più tardi scambiato il
platonismo per un'altra religione. In un luogo isolato dove si era ritirato per
meditare, Giustino incontrò un vegliardo che lo interrogò su Dio e sull'anima,
e avendo egli risposto esponendo le opinioni di Platone su Dio e la
trasmigrazione delle anime, questo vegliardo glie ne mostrò l'incoerenza: se le
anime che hanno visto Dio debbono in seguito dimenticarlo, la loro felicità non
è che miseria, e se quelle che sono indegne di vederlo restano legate a dei
corpi come castigo della loro stessa indegnità, poiché non sanno di essere
punite, questa punizione è inutile. A questo punto Giustino abbozzò una giustificazione
del Timeo, ma il vegliardo rispose che egli non si preoccupava del Timeo,
né della dottrina platonica dell'immortalità dell'anima. Se l'anima vive
immortale non è perché è vita, come insegna Platone, ma perché la riceve, come
insegnano i Cristiani: l'anima vive perché Dio lo vuole, e tanto a lungo quanto
egli lo vuole. Questa risposta ci sembra adesso, di una semplicità che confina
con la banalità, ma essa segnava nettamente la linea di demarcazione che divide
il Cristianesimo dal platonismo.» (2)
Eppure, nonostante l'evidente differenza tra una situazione nella quale l'uomo
cerca di farsi strada faticosamente in un ginepraio di ipotesi discordanti ed
una nella quale si offre "una rivelazione", Gilson sottolinea che la
filosofia continua ad essere sé stessa:
«Il Cristianesimo - scrive Gilson - si rivolge all'uomo per sollevarlo dalla sua miseria mostrandogli quale ne è la causa ed offrendogliene il rimedio. E' una dottrina della salvezza e per questo è una religione. La filosofia è una scienza che si rivolge all'intelligenza e le dice quel che le cose sono, la religione si rivolge all'uomo e gli parla del suo destino, sia perché egli vi si sottometta, come la religione greca, sia perché egli lo costruisca, come la religione cristiana. Per questo, d'altronde, le filosofie greche, influenzate dalla religione greca, sono filosofie della necessità, mentre le filosofie influenzate dalla religione cristiana saranno filosofie della libertà.» (3)
Si tratta, ovviamente, di
affermazioni discutibili, perché è evidente che nella scelta di diventare
cristiani è implicito l'elemento della libertà di poterlo fare. Ma è anche vero
che gli stessi cristiani, a partire dall'assimilazione delle dottrine paoline,
diedero grande rilievo alla tematica della "grazia di credere" e che
gli stessi Vangeli insistono sul fatto che molti ascoltarono Gesù, e quindi
molti ascoltarono i suoi discepoli, ma essi non erano in grado di capire,
perché Dio stesso aveva chiuso le loro orecchie ed oscurato la loro vista. Noi
preferiremmo osservare, piuttosto, che la filosofia, cioè, i filosofi
cristiani, gli stessi Padri della Chiesa, finirono col correggere la
credenza religiosa esclusivista e, soprattutto, insistettero sul fatto
che non è all'uomo che spetta decidere chi è nella grazia e chi no, chi è predestinato
e chi no. Nell'imponente studio di Gilson non ricorre ad esempio il nome di
Gotescalco di Orbais, sostenitore della tesi cosiddetta gemina
praedestinatio. «Salvezza e condanna sono conseguenza di una scelta
assolutamente gratuita da parte del Creatore; portando alle estreme conseguenze
gli insegnamenti di Agostino e di Gregorio Magno, il monaco di Orbais rifiuta
di identificare la grazia del battesimo, della quale in linea di principio
potrebbero beneficiare tutti gli uomini, con la grazia redentrice che deriva
solo dalla morte di Cristo.» (3) Risalire alla genesi di queste idee, per
esempio in Agostino e Gregorio, potrebbe gettare una luce diversa su tutta la
questione.
Non diversamente vanno le cose sul piano del rapporto tra cristianesimo e
politica. I primi testi di cui disponiamo, le epistole di san Paolo, invitano
esplicitamente gli schiavi ad essere sottomessi ed ubbidienti, quindi ad
accettare il loro destino terreno di dannati con l'allegria di chi sa che se le
promesse di un imminente ritorno di Cristo non saranno mantenute, sarà una vita
infame.
Eppure, nonostante, queste riserve, è giusto ritenere che Gilson sia un
passaggio obbligato per chi voglia studiare la vicenda filosofica nel suo
insieme e nel suo sviluppo storico. Pur insistendo, ad esempio, sul ruolo
decisivo che ebbero le istituzioni ecclesiastiche nella conservazione e nella
trasmissione della cultura antica, egli si oppose alla tesi di coloro che
consideravano il Medioevo come semplice magazzino dei tesori intellettuali
dell'antichità, ed evidenziò il contenuto ed il valore proprii della filosofia
del XIII e del XIV secolo. Tesi con la quale è facile concordare. Scendendo nel
particolare, possiamo anche convenire con Mario Dal Pra quando evidenziava
l'estrema importanza dello studio di Gilson sulla differenze tra la
filosofia di Aristotele e quella di san Tommaso. «L'obiettivo principale -
scriveva Dal Pra - dell'indagine gilsoniana è quello di deterrminare le
distinzioni tra la filosofia di Aristotele e la filosofia di S. Tommaso, che
pure hanno in comune il realismo sostanzialistico. Ma al sostanzialismo di
Aristotele manca, secondo Gilson, una distinzione che è invece centrale nel
pensiero di Tommaso, la distinzione tra l'essenza e l'actus essendi;
l'essenza ci rinvia al mondo delle forme; ma mentre per lo Stagirita esso è
presente nella sostanza reale in una maniera non determinata e problematica,
Tommaso considera il mondo delle forme come potenza, cui solo l'actus
essendi conferisce concreta realtà nella sostanze individuali; e mentre in
Aristotele la realtà della sostanza individua rinvia solo ad una gerarchia di
pure strutture formali, in Tommaso si può risalire dall'actus essendi
che realizza le forme nelle sostanze all'intervento creativo di Dio, principio
al tempo dell'intelligibilità e dell'essere stesso delle cose. Il Gilson ha
ricavato dalla sua riflessione sul tomismo una dottrina filosofica che, anche
con elaborazioni più tarde, come L'être et l'essence del 1948, insiste
particolarmente sul primato dell'essere nella costituzione metafisica della
sostanza, o, se si vuole, sulla metafisica dell'esistenza che ha appunto in
Tommaso la base storica più significativa. In tal modo non soltanto egli
accentua il distacco del pensiero cristiano dal rilievo ontologico preminente
attribuito alle strutture essenzialistiche del platonismo e dalle molteplici
correnti platonizzanti (in cui rientra, in parte, anche la pur originale
posizione aristotelica), ma accosta, nello stesso tempo, l'interpretazione del
pensiero cristiano ai temi dell'individualità e dell'esistenza che hanno
particolare rilievo nel pensiero contemporaneo.» (4)
La grande idea di Gilson è condensata in queste parole: «Nulla di più falso che
il considerare la filosofia medioevale come un episodio che troverebbe in sé
stesso la propria conclusione e che si può passare sotto silenzio quando si
espone la storia delle idee. È dal Medioevo che escono
direttamente le dottrine filosofiche e scientifiche sotto le quali si pretende
di subissarlo; è il Medioevo ad aver criticato le specie intenzionali,
le forme specifiche e le altre astrazioni realizzate; è il Medioevo infine ad
aver praticato per primo una filosofia libera da ogni autorità, anche umana.
Bisogna quindi relegare nell'ambito delle leggende la storia di un Rinascimento
del pensiero che succede a dei secoli di sonno, di oscurità e di errore...» (5)
Ovvio, tutto ciò andrebbe preso con minore entusiasmo e molte precauzioni.
Rimane innegabile che il Medioevo non fu propriamente una fase di progresso
delle scienze e quindi della consapevolezza da parte dell'uomo delle proprie
possibilità cognitive e pratiche. Esso si può interpretare, complessivamente,
come la storia del tentativo di ricostruire una cultura classica, alla luce
della fede cristiana, dopo il crollo dell'impero romano antico e le invasioni
barbariche. Questo tentativo fu compiuto da una minoranza infima di preti,
monaci e fraticelli, gli unici veri intellettuali dell'epoca, che fecero questo
convinti di fare così "la volontà di Dio". La fine del Medioevo fu
segnata dal sorgere di una intellettualità laica ed inquieta, ovviamente
insieme al fiorire delle città e delle attività artigianali e mercantili.
note:
1) Mario Dal Pra - Presentazione all'edizione italiana de La philosophie au
moyen àge - La Nuova Italia, edizione anastatica, quinta ristampa, novembre
1990
2) Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo - La Nuova Italia, edizione anastatica, quinta ristampa, novembre 1990
3) Mariateresa Fumagalli Beonchio Brocchieri e Massimo Parodi - Storia della
filosofia medioevale - Laterza 1989
4) Mario Dal Pra - Presentazione all'edizione italiana de La philosophie au
moyen àge - La Nuova Italia, edizione anastatica, quinta ristampa, novembre
1990
5) Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo - La Nuova Italia, edizione anastatica, quinta ristampa, novembre 1990