GIULIANO
A cura di Enrico Gori
VITA
Nipote di Costantino I, figlio di Giulio Costanzo - figlio di secondo letto di Costanzo Cloro - e di Basilina, Flavio Claudio Giuliano (336-363) scampa allo sterminio dei maschi della famiglia per ordine di Costanzo II. Trasferito in Asia Minore, Giuliano ricevette un’educazione cristiana dal vescovo ariano Eusebio di Nicomedia insieme al fratellastro Costanzo Gallo, figlio di Giulio Costanzo e di Galla. Durante un nuovo esilio in Cappadocia Giuliano, adolescente, si appassiona alla cultura classica. Nel 351 è ad Atene, dove studia, protetto dall’imperatrice Eusebia, per cui scriverà un appassionato panegirico, il neoplatonismo sotto Massimo di Efeso, che lo inizierà ai misteri eleusini e alla teurgia di Giamblico. Suoi compagni in questo periodo, sono Gregorio di Nazianzo e Basilio di Cesarea, che ce lo descrivono come un idiota deforme. Divenuto imperatore nel febbraio del 361 in seguito a una serie di fortunate campagne in Gallia, Giuliano fa di Lutezia (Parigi) la sua capitale. Dopo solo poco più di due anni e di governo, Giuliano viene ucciso nella primavera del 363 nel corso della campagna contro i Sassanidi da un soldato cristiano, come riferito dall’amico e maestro Libanio, celebre rètore di Antiochia. Presso la chiesa monofisita (copta), Mercurio, questo il nome dell’assassino di Giuliano, è considerato santo.
IL PENSIERO
Giuliano individua nell’ormai affermatosi cristianesimo una delle cause principali della decadenza dell’Impero sotto molti punti di vista, inclusi quello economico e sociale: trova infatti riprovevole che una setta giudaica, emarginata dagli stessi giudei, si arroghi il diritto di disprezzare la cultura atavica, fautrice dell’unità del mondo classico e responsabile del buon funzionamento dell’Impero: la nuova religione ha permesso a Costantino e ai suoi discendenti di legittimare i loro omicidi, ha destabilizzato la classe aristocratica con la sua predicazione di povertà e ha introdotto il terrore e il senso di colpa nella vita quotidiana. Giuliano è però consapevole che l’antica religione non potrà tornare a prevalere su un’organizzazione come quella cristiana; la soluzione è imitarla secondo uno schema analogo alla gerarchia ecclesiastica con criteri presi dalla teurgia ipostatica di Giamblico: ogni sacerdote presiederà al culto di ciascuna ipostasi, manifestazioni degli dèi, che sono manifestazioni a loro volta del Sol Invictus o della Grande Madre, ai quali dedicherà due importanti discorsi: ‘Alla madre degli dèi’ e ‘Ad Helios re’. I suoi proclama saranno sempre vòlti al contenimento pacifico del cristianesimo, a cui è fatto divieto di proselitismo – espressioni di ciò sono l’editto ‘De magistris’, che vietava ai pedagoghi cristiani di insegnare la cultura in cui essi non credevano e aborrivano, e l’epistola a Ecdicio, prefetto in Egitto, a cui è fatta ingiunzione, dopo che l’incarico è stato ignorato più volte, di espellere il vescovo Atanasio, reintegrato dall’imperatore dopo essere stato perseguitato da Costanzo II, e accusato di aver battezzato forzatamente diverse mogli di aristocratici. Nel contempo Giuliano dimostra grande tolleranza, preoccupandosi spesso di controllare che non venga fatta violenza ai cristiani nelle province dell’impero, come dimostrano le epistole agli abitanti di Bostra e al prefetto Atarbio. Lungi dal voler convertire i cristiani, Giuliano chiarisce più volte il suo desiderio di lasciare ai cristiani libertà di coscienza, fino ad esortarli a scacciare i vescovi che impongono comportamenti riottosi alla comunità (Agli abitanti di Bostra), rimanendo tuttavia sempre profondamente diffidente nei loro confronti perché ’’è a causa della loro demenza che tutto è stato sovvertito’’ (Ad Atarbio). Nei confronti degli Ebrei Giuliano ha un atteggiamento ambivalente: li rispetta in quanto fedeli di un culto originale, non invasivo e propriamente etnico, ma li disprezza anche per le insanabili contraddizioni che riscontra nello stesso, come spiega in maniera esaustiva nel trattato Contro i Galilei (Κατά Χριστιανων) giuntoci quasi integro grazie alla critica fattane da Cirillo di Alessandria, che lo censurò in alcune parti senza stravolgerlo. A Cirillo, mandante dell’omicidio di Ipazia, dobbiamo anche l’epiteto di ‘Apostata’ con cui Giuliano passò alla storia.
LE OPERE
Scrittore prolifico di epistole, orazioni, satire e veri trattati teologico-filosofici, Giuliano non lesinò sforzi affinché la sua opera di restaurazione dell’antica religione fosse validamente argomentata, e fu sempre un appassionato della diatriba e un arguto polemista. Ecco alcuni tra i suoi scritti più importanti:
Κατά Χριστιανων: Partendo dalla Genesi, questo trattato in 3 libri esamina la religione ebraica e le sue contraddizioni e dimostra come il Cristianesimo non sia che una deviazione irrazionale dell’Ebraismo nutritasi di leggende appartenenti ad altri culti: per cominciare, il Dio ebraico è una bestemmia in sé, essendosi dichiarato più volte geloso e vendicativo, qualità detestabili che certo non si addicono a una divinità; in secondo luogo, il fatto che abbia voluto tenere le sue creature nell’ignoranza del bene e del male e poi si sia adirato con loro quando ne hanno avuto conoscenza è un’aporia molto grave, perché ammette che Dio non sia onnisciente, altrimenti avrebbe saputo che Eva sarebbe stata la causa della caduta di Adamo e del genere umano tutto, senza contare l’invidia dimostrata vietando all’uomo di diventare come lui, cioè cosciente del bene e del male. Chiamando in causa il Timeo platonico, Giuliano lo confronta con la Genesi: Platone dice che il mondo è eterno e increato; la Genesi non dà secondo Giuliano nessuna notizia intorno all’eziologia dello ‘spirito di Dio che aleggiava sulle acque’ [Gen. 1, 2] o degli angeli: non riesce a comprendere come il Λογος possa creare dal nulla senza un sostrato; Dio avrebbe dunque solo organizzato il mondo. Ancora: perché solo gli Ebrei hanno potuto conoscere Dio e i gentili no, se Paolo ha poi affermato che si trattava di un Dio delle genti? Inoltre, ben diversamente dal demiurgo platonico, che aveva assegnato agli dèi il compito di dare le nature e le conseguenti leggi agli uomini secondo un criterio etnico che ricorda alla lontana il criterio geografico-climatico reso famoso da Montesquieu, il Dio giudaico mostra di ignorare completamente la natura della sua creatura, tanto che le lingue e le leggi risultano essere risultati della superbia, della ύβρις degli uomini che hanno costruito la torre di Babele. Sembrerebbe dunque che anche le società nascano dalla colpa, non solo l’uomo. E una volta date leggi universali, ché la Bibbia non spiega la varietà dei costumi, che senso ha il divieto di adorare altri dèi se lui è l’unico Dio e gli altri sono solo simulacri? Perché non li ha distrutti, come ha fatto qualche volta solo per scuotere gli increduli che lo sfidavano apertamente? Ma se si ammette questo, Dio non è, ancora, onnipotente, non potendo distogliere l’uomo dagli altri dèi, ritenuti falsi ma invidiati, o è malvagio e permette loro di esistere per sfogare la sua invidia e la sua gelosia. Quindi, giudei e cristiani si sono costretti a scegliere ancora tra due enormi bestemmie. Il demiurgo platonico ha fatto sì che uomini del calibro di Solone, Licurgo e Numa governassero greci e romani, ha dato la cultura agli uomini, ma il Dio ebraico no, non fu lui a insegnare la scrittura, mentre lo stesso Platone afferma nel Fedro che fu il dio egiziano Thot ad insegnarla ai popoli, così come non li istruì nelle arti, tutte mutuate dai popoli mesopotamici o dai greci. E poi costrinse il suo popolo a vivere da schiavi, prima degli Egiziani, poi degli Assiri e ad essere in più occasioni stranieri in terra straniera, cosa che i cristiani mostrano di aver interiorizzato al meglio. Non essendo le scienze concessioni divine i cristiani hanno finito con il considerarle nocive e opera del diavolo. Quanto a coloro che si proposero di essere evergeti ispirati dal dio, Salomone non è certo un esempio paragonabile a Licurgo o Solone, o le sue sentenze a quelle degli oratori, se, come dice il primo libro dei Re,’’ amò donne straniere e venerò dèi forestieri’’ , contravvenendo alla legge divina, oppure Davide, che non si fece scrupolo a far uccidere in modo subdolo l’ittita Urìa, marito di Betsabea, laddove i legislatori greci e romani adottarono misure efficaci per prevenire gelosia e superbia. Il cristianesimo non ha sanato queste scelleratezze, ché, come diceva Socrate (secondo Stobeo), gli uomini diventano cattivi a causa delle cattive compagnie e della cattiva educazione, sottinteso, il Dio ebraico e il comportamento da esso tenuto; le ha semplicemente ‘lavate’ con il battesimo, al solo scopo di attirare a sé il popolaccio e i ceti più bassi. Venendo ai testi proto-cristiani e ai Vangeli: i profeti nel loro annuncio mai hanno parlato di ‘Figlio unigenito di Dio’ o di consustanzialità, tutte cose raccontate dal solo Giovanni, che oltretutto non risolve il problema delle genealogie o dei nomi dei discepoli, notoriamente diverso da sinottico a sinottico. E così è stata mantenuta la tradizione di non conferire alcun aspetto divino alle istituzioni in terra: il battesimo non guarisce come fanno i miracoli, peraltro ritenuti da Giuliano atti di poco conto; la legge mosaica è violata senza alcun riguardo nonostante quanto si dice in Matteo: Non sono venuto per abolirla ma per rinnovarla, specie riguardo all’alimentazione: perché mangiare tutto quello che prima era proibito, e perché accanirsi con tanta ferocia sulle le usanze pagane se neanche questo prescrive il Vangelo? Oltre al rimaneggio arbitrario della Legge, Giuliano torna ad accusare Giovanni di essersi contraddetto, avendo detto prima che Dio è invisibile, e poi che è venuto in mezzo alla gente nella persona del Figlio. Il trattato si conclude con una difesa degli Ebrei, lodati per essersi tenuti sempre fedeli ai loro riti e di avere, secondo Giuliano, integrato elementi sincretici, come il vaticinio con gli uccelli e la circoncisione dai Caldei e dagli Egiziani, mentre i Cristiani non festeggiano più la Pasqua con gli azzimi per motivi non chiari. Ultimo elemento di non trascurabile importanza è l’elemento dell’Alleanza (il berit) costantemente rinnovata, della cui sincerità si dubita sempre meno, mentre i Cristiani stabiliscono tutto in maniera accessoria e quindi incoerente. (*)
Εις Ηλιον βασιλευον: L’Inno al Re Sole è il primo dei due scritti religiosi programmatici: Dichiaratosi seguace di Helios, il Sol Invictus, Giuliano descrive, in un linguaggio ermetico e suggestivo, come Helios sia l’ipostasi intelligibile del Bene: la luce del Sole è l’energia intellettuale che illumina gli spiriti, e gli dèi visibili, cioè gli astri, gli stanno intorno come a un saggio che illumina quanto è indispensabile alla vista. Gli dèi non sono più arbitrari burattinai di cui aver paura, come dicono i miti, ma presiedono alle funzioni più alte del cosmo, sono infatti detti ‘intellettuali’, secondo la teurgia giamblico-porfiriana, ipostasi fuse e disgiunte a un tempo della stessa essenza: l’intelligibile genera l’intellettuale. Il cosmo è composto da 36 parti costituite dalle ipostasi orientali, e così le città sono presiedute e fondate dai propri fondatori etnici secondo lo schema ‘a ciascuno il suo’ già menzionato.
Εις μητρί θεων: La ‘Madre degli dèi’ è la divinità asiatica (frigia e scitica) generatrice conosciuta dai Greci come Cibale, consorte del demiurgo Attis. Dopo la narrazione dell’arrivo della dea in processione a Roma da Pergamo e relativo prodigio (la dea fa arrestare la nave finché il cinto della vergine consacrata non viene posto alla prua, conferendo così alla dea il comando della nave, che percorse anche un lungo tratto controcorrente), l’analisi si sposta al luogo della materia, le cui essenze sono contenute in un corpo circolare perfetto, da identificarsi con l’anima, che, come uno specchio, ne delinea i contorni: la potenza vien sempre prima dell’atto. L’unione, il sinolo aristotelico, si compie tramite il terzo dio, Gallo (il latteo). Chi è la Madre degli dèi? E’ la sorgente di tutti gli dèi, la creatrice vergine avente in sé tutte le cause, la Provvidenza, la madre degli dèi intelligibili e intellettuali, cui principio complementare è Attis. Il libro prosegue con una descrizione, fortemente mistica e invero complessa, dei riti iniziatici frigi, considerati sanguinari e brutali dall’ateo Luciano, a Giuliano appaiono aurei e degni di ogni onore.
Μισοπογον: ‘L’odiatore della barba’: Come i filosofi greci e il principe filosofo Marco Aurelio, che Giuliano, come vedremo, ammira moltissimo, Giuliano portava la barba, cosa per cui veniva sbeffeggiato dalla comunità cristiana di Antiochia: Giuliano ironizza su se stesso, descrivendosi come uno sporcaccione sudicio e intransigente cui la barba impedisce anche di lavarsi: afferma di odiare tutti i divertimenti , guarda perfino sei corse in tutto! Si presenta come un cinico maldestro, tanto che, volendosi temprare al freddo, fece portare carboni ardenti nel fuoco, col risultato che il fumo lo fece addormentare. Loro, gli antiocheni, invece, gozzovigliano da mane a sera: per forza dubitano del loro Sire, così austero e selvatico! Il libro prosegue elencando i luoghi di culto a cui Giuliano non farebbe visita, essendo un cattivo Cesare, e fa menzione di alcuni avvenimenti quando girava per le province orientali, mescolandole in maniera non troppo chiara a riferimenti mitici. Dopo aver riferito alcune delle calunnie fattegli dai Cristiani, che avevano nostalgia di Costanzo II (che Giuliano chiama K), persecutore dei non ariani! Oltretutto gli antiocheni sono evidentemente incapaci nelle questioni giuridiche più banali, come le elezioni dei magistrati o nelle politiche economiche, che gestite in maniera truffaldina arricchendovi a spese del fisco. e allora ecco dove sta il mio sbaglio, dice Giuliano: nell’aver affidato a loro, ingrati crapuloni, il governo della città! Possano gli dèi ricompensarvi giustamente
Συμποσιον ή Κρονια: il Simposio o i Saturnali, che si rifanno esplicitamente a Luciano, benché non abbiano nulla a che vedere con i ‘Saturnalia’ lucianei, che è in parte dialogo, parte discorso e parte epistole fittizie ma piuttosto con il ‘Concilio degli dèi’, essendo un dialogo a più voci, benché la forma non sia quella dialogica, talvolta irriverenti nella migliore tradizione menippea. Il banchetto si tiene sull’Olimpo, dove Romolo ha invitato gli Imperatori, da Cesare a Costantino. Dopo una breve descrizione e un giudizio sull’operato di ciascun partecipante, il concorso comincia, ma non prima che venga invitato Alessandro. Tutto sembra pronto, ma ecco che Hermes si ricorda di Marco Aurelio, che fa un’entrata trionfale. Cesare e Alessandro, dopo un canto di Sileno,cominciano a battibeccare su chi sia stato il miglior conquistatore. E’ il turno di Ottaviano, che pose fine all’ultimo regno ellenistico e iniziò l’Impero, a cui dette solide leggi pur continuando a conquistare territori. La parola passa a Traiano, conquistatore della parte orientale dell’Europa sotto cui l’Impero raggiunse la sua massima estensione, sebbene Giuliano lo lodi e lo stigmatizzi per la sua mitezza. Quindi prende la parola Marco Aurelio, che, nonostante la diffidenza dei satiri verso la sua natura di filosofo, dichiara tranquillamente di non aver nulla da dire, consapevole che il vantarsi di cose già celebri non è atteggiamento sobrio. Infine si arriva a Costantino, il quale non aveva occhi che per la Mollezza […] e sembrava non interessarsi minimamente al giudizio. Ma siccome anche lui deve dire qualcosa, eccolo raccontare le sue battaglie vittoriose contro Massenzio e Licinio, uno vecchio e l’altro imbelle. Non esita a dichiararsi migliore di tutti, poiché dice, sotto il suo principato non vi furono lotte intestine, come sotto Ottaviano, Cesare e lo stesso Alessandro; recuperò la Dacia, occupata dagli invasori; usò clemenza ai tiranni avversari di Roma. Quanto a Marco Aurelio, per non aver detto nulla, si esclude da sé. Ma le sue ‘imprese’ sono ben poca cosa, come riconosce arrossendo lo stesso Costantino. Siamo al giudizio finale: Alessandro viene bocciato per la sua condotta lasciva e iraconda; Cesare per la sua incapacità di sedare l’invidia altrui, che poi lo uccise; Ottaviano per aver edificato templi in maniera arbitraria senza tener conto del reale merito di ciascuna divinità ma solo per abbellire Roma; Traiano viene trattato anche lui da iracondo, addirittura Diòniso lo apostrofa con un brutale ‘Va’ all’inferno’; Il saggio Marco Aurelio invece ammette pacatamente di aver voluto seguire un regime politico guardando agli dèi, ma la moderazione dello stile di vita è solo segno di umiltà, perché altre sono le cose in cui si devono imitare gli dèi: le sue azioni sono solo imitazioni delle grandi gesta compiute dai. Con tale semplicità, l’imperatore filosofo chiude il suo turno. Costantino, interrogato anche lui su cosa ritenga migliore in assoluto e positivo nel suo operato, risponde: essere molto compiacente nei confronti dei propri desideri e prestarsi a quelli degli amici. Al che Sileno, ridendo sgangheratamente: ma allora, se volevi essere un banchiere, hai forse dimenticato il tuo io, vivendo come un cuoco o una parrucchiera? Alludendo ai capelli lunghi, ricci e incolti dell’imperatore, e ora anche il tuo pensiero ti accusa. Dopo aver pronunciato il verdetto, Marco Aurelio vincitore, gli dèi invitano i Cesari e scegliersi la loro divinità protettrice: Alessandro e Traiano vanno da Eracle, Ottaviano da Apollo e Cesare viene accolto da Ares e Afrodite. Marco Aurelio intanto conversa con Zeus e Crono. Costantino, invece, non sapendo chi scegliere, corre dalla sua innamorata, la Mollezza, che lo abbraccia teneramente e, rivestitolo di indumenti preziosi, lo conduce dalla Dissolutezza, con cui è anche il Cristo, che proclama a gran voce la purificazione per seduttori, assassini, sacrileghi nonché infami; E se qualcuno divenisse colpevole delle stesse cose, gli concederò di tornare puro, purché si batta il petto e si percuota la testa. Ma non è tutto: dopo questa sprezzante sintesi del cristianesimo, Costantino e i figli vengono tormentati dai dèmoni per il suo ateismo e non meno per […] il sangue dei loro congiunti, finché Zeus, per rispetto a Claudio-da cui Costantino si vantava di discendere- e Costanzo –probabilmente Costanzo Cloro, tetrarca e padre pagano di Costantino- non permise loro di riaversi. Il libro si chiude con il buon augurio a Giuliano sotto il segno degli dèi misterici: Rispetta i suoi [di Mitra] comandamenti, ti creerai così, durante la vita, un punto di riferimento e un porto sicuro, e quando sarà momento di abbandonare la terra, insieme con la Buona Speranza avrai presso di te come guida il dio benevolo.