PIERO GOBETTI

A cura di Diego Fusaro



INDICE
VITA E OPERE
IL PENSIERO
LA RIVOLUZIONE LIBERALE





VITA E OPERE

GOBETTIPiero Gobetti nacque a Torino il 19 giugno del 1901. Dopo le scuole elementari frequenta il liceo-ginnasio "Gioberti" e lì conosce Ada Prospero, figlia di un commerciante come lui, che diventerà sua moglie. Studente universitario di acuta intelligenza, pubblica a diciassette anni la sua prima rivista, "Energie Nove", nel novembre del 1918, ricca di riferimenti a Prezzolini, Gentile, Croce e con la quale diffuse le idee liberali di Einaudi. Si appassiona ai bolscevichi, studia il russo e scrive in cirillico alla fidanzata. Definisce subito il fascismo "movimento plebeo e liberticida", l'antifascismo "nobilità dello spirito", l'Italia un Paese senza un vero Risorgimento, una Riforma protestante, una Rivoluzione liberale. Interpreta la rivoluzione di Lenin e Trotzky come rivoluzione liberale, perché è azione, movimento e tutto quello che si muove va verso il liberalismo. Apprezza i bolscevichi in quanto élite, detesta lo statalismo e il protezionismo della vecchia Italia giolittiana. Esponente della sinistra liberale progressista, collegata con l'intellettuale meridionalista Gaetano Salvemini. Estimatore di Antonio Gramsci e del giornale socialista e poi comunista Ordine Nuovo, Gobetti si avvicina al proletariato torinese, divenendo attivo antifascista. Nel maggio del 1919 viene bollato da Togliatti sulle pagine di "Ordine Nuovo" come "parassita della cultura". Ma nell'autunno del 1920 il sostegno di Gobetti all'occupazione delle fabbriche e i suoi frequenti incontri con gli operai e comunisti torinesi migliorano molto i rapporti, tanto che Gramsci gli affida la rubrica di teatro della rivista. La classe operaia, in particolare quella torinese dei consigli di fabbrica, che frequenta insieme ai socialisti di Ordine nuovo, diventa per lui la leva che innoverà il mondo: non verso il socialismo, ma verso "elementi di concorrenza". Togliatti non lo ama, Gramsci lo apprezza, i liberali Salvemini e Croce sono incuriositi dall'intelligenza del ragazzo. A vent'anni, il 12 febbraio del 1922, fa uscire il primo numero della rivista "La Rivoluzione Liberale" che via via diventa centro di impegno antifascista di segno liberale, collegato ad altri nuclei liberali di Milano, Firenze, Roma, Napoli, Palermo. Vi collaborano intellettuali di diversa estrazione, tra cui Amendola, Salvatorelli, Fortunato, Gramsci, Antonicelli e Sturzo. Più volte arrestato nel '23-24 dalla polizia fascista, la sua rivista è ripetutamente sequestrata. Lo stesso Mussolini si interessa di lui e telegrafa al prefetto di Torino: "Prego informarsi e vigilare per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore". Nel '24 fonda la rivista letteraria "Il Baretti", alla quale collaborano Benedetto Croce, Eugenio Montale, Natalino Sapegno, Umberto Saba ed Emilio Cecchi. Il 5 settembre del '24, mentre sta uscendo di casa, è aggredito sulle scale da quattro squadristi che lo colpiscono al torace e al volto, rompendogli gli occhiali e procurandogli gravi ferite invalidanti. Costretto a espatriare in Francia, mai più riavutosi dalle ferite, muore esule a Parigi nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1926. Non aveva nemmeno venticinque anni, che avrebbe compiuto il 19 giugno di quell'anno. È sepolto nel cimitero di Père Lachaise. Saggista e autore di numerosi scritti culturali e politici pubblicati in Italia e all'estero, simbolo del liberalismo progressista sensibile al riscatto delle classi lavoratrici, la sua opera fu raccolta e pubblicata postuma: Opere critiche (1926); Paradosso dello spirito russo (1926); Risorgimento senza eroi (1926).

IL PENSIERO

A diciott'anni Gobetti fonda "Energie nuove", rivista quindicinale sulla scia dell' "Unità" di Gaetano Salvemini e, dopo una breve infatuazione per i liberisti come Einaudi, matura la sua concezione della politica come forma di educazione e della cultura come coscienza storica. Dopo un anno, nel 1920 la rivista finisce le pubblicazioni; nel '22 Gobetti fonda il settimanale "La Rivoluzione liberale", con molti collaboratori della cessata "Unità salveminiana" affiancata da una rivista letteraria, "il Baretti" e da una piccola casa editrice. A 23 anni, nel 1924, raccoglie, elaborandoli, molti articoli apparsi sulla rivista e, con lo stesso titolo, "Rivoluzione Liberale", pubblica il "Saggio sulla lotta politica in Italia". Era il mese d'aprile: nel giugno viene ucciso Matteotti e il 3 gennaio 1925 Mussolini trasforma il suo governo in regime. Per tutto l'anno si susseguono i sequestri della rivista, finchè il 1° novembre Gobetti deve pubblicare la diffida del prefetto di Torino contro il periodico, accusato di mirare "alla menomazione delle istituzioni monarchiche, della Chiesa, dei poteri dello Stato, danneggiando il prestigio nazionale". Una settimana dopo, esce l'ultimo numero della rivista, che segue il destino de "Il Caffè" pubblicato a Milano da Riccardo Bauer, con Parri, Gallarati Scotti, Arpesani, Borsa e Sacchi (chiuso in maggio), del fiorentino "Non Mollare" di Salvemini, Ernesto Rossi e dei fratelli Rosselli (finito in ottobre), e di tante altre voci libere invise al nuovo regime dittatoriale. Riletto oggi, il libro di Gobetti sorprende per le molte notazioni originali sul Risorgimento e sulla lotta politica del tempo. Per esempio, la considerazione di Cavour come autore di una grande rivoluzione liberale rimasta incompiuta, e dello stesso Risorgimento come incompiuto e non come "rivoluzione mancata" (come l'aveva invece letto Gramsci); la rivalutazione del Piemonte settecentesco e ottocentesco come di un paese contraddistinto dall'assenteismo dell'aristocrazia, dallo spezzettamento della grande proprietà agraria e dalla diffusione degli affittuari, dalla laicità dello Stato e dalla presenza di una singolare cultura moderna " in questo vecchio Stato nemico della cultura ". A differenza di tanti intellettuali di trenta o quarant'anni dopo, Gobetti riconosce il valore della fabbrica che " educa al senso della dipendenza e della coordinazione sociale, ma non spegne le forze di ribellione, anzi le cementa in una volontà organica di libertà " e riconosce altresì il valore positivo della città moderna, " organismo sorto per lo sforzo autonomo di migliaia d'individui ". In Gobetti appare per la prima volta il concetto di fascismo come " autobiografia della nazione ": " né Mussolini né Vittorio Emanuele hanno virtù da padroni, ma gli italiani hanno bene animo di schiavi ". E fin dalla prima pagina del libro fa una dichiarazione fulminante e valida più che mai oggi: " il contrasto vero dei tempi nuovi come delle vecchie tradizioni non è tra dittatura e libertà, ma tra libertà e unanimità ". Ci sono, in Gobetti, anche curiosità che fanno pensare:

" la sua figura di ottimista sicuro di sé, le astuzie oratorie, l'amore per il successo e per le solennità domenicali, la virtù della mistificazione dell'enfasi…..L'ordinaria amministrazione con la sua monotonia è un altro fiero nemico del presidente; se egli non avesse un piacevole divertimento nelle trovate sportive che gli riconciliano la popolarità, il compito quotidiano sarebbe snervante e senza risorse ".

Di chi parla? Di Mussolini certamente, allora. E oggi? Ma ci sono soprattutto analisi acute e ancora valide della storia e del carattere italiani e molti concetti innovatori. Nel capitolo su "Liberali e democratici", premesso che la più grave deficienza del liberalismo italiano si potrebbe cercare " nella lunga mancanza di un partito politico francamente conservatore ", Gobetti scrive: " insomma la parola d'ordine dei liberali in Italia a partire dal secolo scorso fu: "tutti liberali". La nuova critica liberale deve differenziare i metodi, negare che il liberalismo rappresenti gli interessi generali, identificarlo con la lotta per la conquista della libertà, e con l'azione storica dei ceti che vi sono interessati ". Posto che i veri liberali sono una minoranza, " bisogna convincersi che non erano e non potevano essere, come non sono, liberali i nazionalisti e i siderurgici, interessati al parassitismo dei padroni, né i riformisti che combattevano per il parassitismo dei servi, né gli agricoltori latifondisti che vogliono il dazio sui grani per speculare su una cultura estensiva di rapina, né i socialisti pronti a sacrificare la libertà di opporsi alle classi dominanti per un sussidio dato alle loro cooperative". Gobetti vede il carattere arretrato e illiberale della borghesia italiana, che chiede favori e una politica protezionista, una non-borghesia se confrontata con i ceti dirigenti conservatori di altri paesi. Riconosce che in Italia ci sono due borghesie, ma quella weberiana (come la chiama Flores D'Arcais) resta in minoranza, mentre domina il " ceto dirigente contento di sé ". Gobetti riconosce la necessità storica e i valori della civiltà capitalistica, ma vede i suoi limiti nelle nazioni più povere, la Russia e l'Italia. Nel nostro Paese, si contrappongono l'individualismo regolato dalle leggi e una tradizione " istintivamente individualista " che ha prodotto un popolo " in perenne atteggiamento anarchico ". Per Gobetti, " il liberalismo ha elaborato un concetto della politica come disinteresse dell'uomo di governo di fronte al popolo interessato… Solo attraverso la lotta di classe il liberalismo può dimostrare le sue ricchezze…Essa è lo strumento infallibile per la formazione di nuove élites, la vera leva, sempre operante, del rinnovamento popolare ". Certo, l'errore di Gobetti è stato di vedere in Gramsci e nei consigli di fabbrica, promossi da "Ordine nuovo", aspetti e valori liberali; da qui, la sua illogica simpatia per Lenin, benchè riconosca il carattere " accentratore, autoritario, monopolistico della rivoluzione russa ". Ciò non toglie che egli si era reso conto, sulle orme di Salvemini, degli errori della sinistra, in particolare del riformismo e del " parassitismo cooperativistico ". Ancora più importante, e decisivo per la valutazione di Gobetti, è il riconoscimento del fatto che il primato dell'uguaglianza rispetto alla libertà è la causa delle degenerazioni del movimento operaio. A questo proposito, commenta Flores D'Arcais: " pure, la convinzione gobettiana che se l'ossessione dell'eguaglianza sociale governa e comanda la politica operaia, umiliando le libertà a strumento tattico nella lotta per il potere, sono a repentaglio gli stessi interessi dei lavoratori - interessi nel senso più pieno e materiale del termine ". E infatti Gobetti aveva sostenuto con grande chiarezza: " il problema del movimento operaio è un problema di libertà e non di uguaglianza sociale ". Qui merita citare ancora Flores D'Arcais: contro la "disponibilità ''moderata'' di massa al tradimento del liberalismo"… "Contro questo rischio di populismo, perciò sempre più irrinunciabile si dimostra l'intuizione di Gobetti, che ai lavoratori dipendenti e alle forze politiche che li rappresentavano vada innanzi tutto affidata la difesa, la cura e il radicamento del liberalismo. Sono gli unici, infatti, ad avere un interesse intrattabile ad una convivenza civile fondata sul governo delle regole e non sulle regole di chi governa". In "Destra e sinistra", Norberto Bobbio ha scritto che il valore "eguaglianza" è quello che contraddistingue la sinistra. Ma un conto è constatare che nella storia del movimento operaio l'eguaglianza sia sempre stato il valore dominante; altro è riconoscere con Gobetti che la sottovalutazione della libertà è stato un errore. Rileggendo Gobetti, non è utopistico pensare che la bandiera della minoranza intellettuale antifascista, rappresentata dal partito d'azione, possa diventare adesso la connotazione di una sinistra popolare, non socialdemocratica né limitatamente migliorista. Giustizia e libertà: eguaglianza come mito, come direttrice per una società migliore, e libertà nella pratica di ogni giorno, nelle istituzioni, nelle regole del vivere civile e politico, libertà significa anche eguaglianza di fronte alle leggi, negazione di ogni favore e privilegio, negazione del familismo in tutti i suoi aspetti, fino alla connivenza camorristica e mafiosa, e quindi è educazione a un costume di convivenza civile e tollerante. Senza l'appoggio e la convinzione di un grande movimento politico popolare, l'educazione alla libertà non può divenire patrimonio comune. E, come aveva intuito Gobetti, i lavoratori a reddito fisso e gli imprenditori non speculatori e non protezionisti hanno interesse comuni: l'equità fiscale, innanzi tutto, che è un problema di eguaglianza e anche un aspetto del libero mercato, se si volesse tentare di farlo esistere almeno in parte; e la lotta alla corruzione e alle clientele politico-affaristiche, che è un problema di giustizia. Nessuno di questi grandi obiettivi potrà essere raggiunto se la libertà sarà ancora vista come "formale" o "borghese", oppure come una condizione già raggiunta. La libertà va realizzata nelle coscienze, nell'educazione, nelle regole della vita civile e politica, essa è la condizione per ogni sforzo di eguaglianza. La rivoluzione liberale, mai realmente attuata in Italia, dev'essere una rivoluzione di giustizia, che necessita sia di una profonda educazione etica, sia di un'azione politica di grandi orizzonti.

LA RIVOLUZIONE LIBERALE

Gobetti era un rivoluzionario liberale. Inevitabile, nel rievocarne la figura, partire dall'ossimoro, tanto più insolito e singolare, se calato nella storia politica italiana che ha fatto del liberalismo- oltre le benemerenze risorgimentali - una tradizione conservatrice o al più moderata. Intanto quell'ossimoro non è definizione arbitraria o affibbiata dall'esterno a Gobetti. E' un'autodefinizione. Che fa corpo col programma stesso che il giovane uomo di pensiero attribuì via via a se stesso, negli anni che vanno dalla prime prove editoriali - "Energie Nuove", la collaborazione a l'Unità di Salvemini - fino alla più matura opera destinata a divenire rivista e infine saggio nel 1924: "Rivoluzione liberale". Ma cos'era questa Rivoluzione? Di quali obiettivi, soggetti storici e speranze si nutriva? Per capirlo occorre, per un momento, fuoriuscire dal cielo dottrinario delle idee. E sforzarsi di intravedere prima ancora, un carattere, una biografia, un clima ben preciso. Parliamo di un certo mondo vitale. Quello della Torino pre-bellica e post-bellica, nel primi decenni del novecento. Indubitabilmente quella Torino è crogiolo avanzato di industria e cultura, piazzaforte del piccolo "Stato-Fiat" (la definizione sarà di Gobetti stesso) che piegava tutta l'industria circostante a sé, imprimendo ritmo e dinamismo nuovo all'ex capitale subalpina. E' un sommovimento profondo, che suscita da un lato le energie di un vasto proletariato industriale ben presto organizzato attorno ai suoi apostoli e filantropi borghesi, alle sue cooperative e al suo sindacato. E che dall'altro muove forze intellettuali diffuse. Sulla scia della nascente civiltà industriale. Di un mercato allargato e del ventaglio di funzioni e professioni evocato dalla modernizzazione giolittiana. Torino, è epicentro di tutto questo, e interpreta il suo ruolo mescolando fierezza di capitale declassata a sentimenti di rivincita industrialista sul resto del paese. Ecco, Gobetti, studente prodigio del Gioberti, giornalista in erba, ragazzo che si rivolgerà da pari a pari a Salvemini, Einaudi, Croce, Prezzolini, Gentile, cresce in quel clima. Figlio di contadini piemontesi inurbati e gestori di una drogheria, incarna perfettamente le Energie nuove del momento. Il tumultuoso passaggio da una società censitaria - ancorché cavourianamente inventiva - a un mondo di aspri conflitti tra ceti e generazioni. E' Gobetti, nella sua prodigiosa e acerba vitalità venata di puritanesimo, l'esplosione stessa a Torino e in Italia, di una questione cruciale. La questione intellettuale. Non già intesa come contrasto tra i colti e gli umili, tra romantica élite minoritaria e filistei privilegiati, come la Germania di primo ottocento ce l'ha tramandata. Bensì come questione politica nazionale. Sociale certo, quanto a dimensione e moltiplicazione delle funzioni intellettuali moderne. Ma, ancor, più politica. Cioè come problema della selezione e dell'ascesa delle classi dirigenti. Delle élites, per evocare un termine centrale nella riflessione di Gobetti. Qui, è impossibile non registrare una consonanza rivelatrice: Gramsci. Anche lui, a modo suo "contadino". Figlio di un piccolo impiegato comunale, e "isolano" inurbato nella medesima Torino di Gobetti. Anche lui, critico del fatalismo positivista, e vittima del fascismo. E del pari ossessionato dagli intellettuali. Coesivo e mastice simbolico - nella riflessione dei Quaderni del Carcere - senza cui nessun ricambio sociale, nessuna riproduzione economica, né baricentro egemonico di forze o di senso generale, era possibile nel moderno. Certo il demiurgismo intellettuale, di cui Gobetti fu interprete emblematico, ebbe nell'Italia di allora un significato oscillante e ambiguo. Sino a culminare col fascismo - sulle scie dell'"attivismo"- in una capillare integrazione dei colti nel regime, e di segno conservatore. Almeno fino ai tempi della fronda antifascista. Del resto, lo stesso Gobetti convisse, smarcandosene da ultimo, con protagonisti culturali della rivoluzione conservatrice. Dall'"Apota" Prezzolini a Gentile, idolatrato all'inizio, poi respinto come esponente di una scolastica autoritaria. Eppure, sul crinale di quest'insorgenza intellettuale di massa a cavallo della grande guerra, Gobetti rappresentò acutamente una grande possibilità, innervata da analisi di straordinaria attualità. La spinta ad un ricambio profondo di classi dirigenti. Oltre la chiusura oppressiva del vecchio ceto liberale che nell'unificare il paese dall'alto aveva escluso i ceti subalterni dallo stato e dal recinto della società civile. Cristallizzando assetti da civiltà pre-capitalista, privilegi corporativi e territoriali, ineguaglianze di classe. E' qui che il bisturi di Gobetti scava. Delineando, sulla scia di Salvemini, il quadro di quello che Gramsci definirà il "patto scellerato" tra nuova borghesia industrialista del nord, protetta dallo stato e vecchie classi parassitarie del sud, acquiescenti ad un progetto di unificazione nazionale che condannava il mezzogiorno a mercato passivo di manufatti e a serbatoio di manodopera. Mentre la proiezione geometrica di questo assetto diventava la convergenza al centro di partiti notabilari e incapaci di incarnare grandi correnti nazionali di interessi. C'è, in questa denuncia di Gobetti, l'analogo di consimili vedute weberiane. Le stesse con cui Max Weber nella Germania guglielmina metteva sotto accusa il parlamentarismo degli junker, nonché l'assenza di un vero partito liberale di massa capace di allargare la cittadinanza oltre il privilegio censitario e assicurare base parlamentare salda all'esecutivo. E tuttavia, in Gobetti, oltre l'attenzione ai limiti del liberalismo italiano, c'è la ricerca di un altro protagonista: il movimento operaio. Da riscattare dai vincoli di una mentalità fatalista e messianica, e da inserire a pieno titolo nel processo di rinnovamento dell'Italia liberale. Su questo punto l'utopia gobettiana si fa più affascinante e ambigua da decifrare. Infatti da un lato il giovane rivoluzionario liberale sembra puntare ad un rinnovamento dei partiti, concependoli come partiti di massa, finalmente liberati dai "partiti personali" costruiti sul maggioritario (Gobetti era proporzionalista). E in tal senso gioca un ruolo il richiamo energetico al ruolo del "mito" soreliano, che fonde in blocchi classi fondamentali e alleanze su opposte sponde. Dall'altro però gli impulsi di rivoluzione muovono in lui dalle autonome cerchie della società civile. Dal mondo della cultura e dalle sue ramificazioni capillari specialistiche. Dal mondo dell'industria e dal mondo della fabbrica. Come quando, nel 1920, egli guarda ammirato al soviet della Fiat e all'"Ordine Nuovo" di Gramsci, corrispettivo italiano di quel moto di "rivoluzione liberale" che Gobetti scorgeva nella rivoluzione bolscevica. Difficile capire se per Gobetti, dalla personalità sperimentale e in divenire l'epilogo di quell'Italia sospesa tra progresso e reazione e in piena bufera post-bellica, dovesse essere la rivoluzione sociale. Con gli operai promossi a rango di borghesi intraprenditori nelle fabbriche occupate. Oppure se per lui si trattasse solo di uno scossone salutare, destinato a mutare le élites al potere degli opposti schieramenti rinnovati dal fuoco dello scontro. E secondo uno schema "conflittualista" debitore più all'elitismo sociale di Mosca che non a quello "naturalistico" di Pareto. Ma a troncare il dilemma intervenne il fascismo. Quando, sulle ceneri della divisione tra le forze democratiche - liberali, cattoliche e socialiste ferite dalla scissione di Livorno - si incaricò di fornire la sua risposta. Eccola: un moderno regime reazionario di massa. Che lascia filtrare al vertice ceti medi emergenti, nel quadro di un compromesso storico con industria, monarchia e Chiesa. E che spacca e comprime in basso i ceti subalterni. Prima di morire, schiantato da un attacco cardiaco successivo all'aggressione squadristica a Torino, Gobetti individuò i tratti salienti di quella "modernizzazione reazionaria". Descrivendola come "autobiografia di una nazione": una micidiale miscela di populismo, antiparlamentarismo e tradizionalismo retrivo. Rassodata da un nuovo ceto medio risentito ed estraneo alle istituzioni, percepite come nemiche. Fu l'ultima fiammata di intelligenza di quel giovane acerbo, le cui intuizioni ante-litteram ridimensionano alquanto l'originalità di tante polemiche "revisionistiche" molto più tarde.

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