J. W. GOETHE,
“SCRITTI SULL’ARTE E SULLA LETTERATURA”
a cura di Elisa Poletto detto Feltrinon
Gli “Scritti sull’arte e sulla letteratura”[1] coprono un arco di tempo abbastanza ampio, che va dal 1772 al 1827. In essi è perciò possibile trovare posizioni del Goethe che tende al Romanticismo e altre del Goethe più improntato verso il Classicismo. Ciò che non cambia in tutti gli scritti è la concezione dell’arte che si definisce a partire dalla critica alla categoria estetica dell’imitazione della natura.
Goethe, infatti, non pensa che l’arte debba essere mera imitazione della natura; l’artista non deve aspirare a produrre un’opera di natura, ma un’opera d’arte perfetta. Per fare ciò, però, l’artista deve conoscere la natura: se l’arte non deve limitare a imitare la natura, ciò non significa che debba prescindere da essa. Al contrario, l’arte è rappresentazione della natura, e della natura umana in primis. Perciò la conoscenza della natura è un presupposto fondamentale nell’estetica goethiana, perché l’artista deve conoscere ciò che rappresenta. Conoscere, per Goethe, significa agire e l’azione è, appunto, un concetto centrale nel pensiero goethiano. L’arte, infatti, deve agire intorno a sé per formare una totalità vivente e creatrice.
Se l’arte è rappresentazione e non deve imitare la natura, ma conoscerla per rappresentarla, allora l’arte non deve rappresentare il vero, ma il verosimile e deve produrre una sorta di illusione consapevole da cui nasce il piacere estetico. Tale piacere è l’unico fine dell’arte che non deve avere una funzione morale o sociale. L’unico aspetto educativo di cui l’arte deve tener conto è quello nei confronti dell’artista che deve imparare a conoscere la natura dei soggetti che rappresenta. E questo è proprio il senso del concetto di intuizione in Goethe: l’artista deve raggiungere la conoscenza dell’essenza dell’oggetto che rappresenta. È un’intuizione molto diversa dall’illuminazione romantica perché si tratta di un’intuizione conoscitiva, razionale, non irrazionale e momentanea come quella del genio romantico. Tale intuizione la si raggiunge dopo aver acquisito una buona conoscenza della natura.
L’artista, infatti, deve innanzitutto saper imitare la natura per poi poter tralasciare il particolare e rappresentare l’universale giungendo a ciò che Goethe chiama “maniera”. Una volta che l’artista personalizza la sua maniera e riesce a cogliere l’essenza del soggetto che rappresenta in modo tale da produrre un’opera d’arte universale e perciò oggettiva, allora raggiunge il livello dello “stile”. Lo stile è il più alto livello che l’artista e l’arte possano raggiungere.
Il genio, quindi, è colui che riesce ad assurgere a questo livello e a spiegare come vi è giunto dettando, così, le regole dell’arte. Le regole dell’arte, infatti, non devono essere prestabilite, non devono essere un canone a cui attenersi, altrimenti si cadrebbe nell’imitazione. Imitare gli antichi, secondo Goethe, ha fatto allontanare il genio degli italiani dalla vera arte. Lo stile della vera arte non consiste nell’imitazione degli antichi né nell’architettura italiana, ma nello stile gotico dell’architettura tedesca, in particolare quella della cattedrale di Strasburgo dell’architetto Erwin von Steinbach.
La polemica contro l’arte moderna, colpevole di imitare gli antichi o la natura e di mescolare i generi, è un altro filo rosso degli scritti. Se nei primi saggi Goethe usa termini d’impronta più romantica come “genio” e “intuizione” (anche se, come si è visto, hanno un’altra valenza rispetto agli stessi termini usati nel romanticismo), poi, a partire dai saggi del 1798, iniziano a comparire concetti più classicistici come quelli di misura, proporzione e simmetria, incarnati dal gruppo scultoreo del Laocoonte, e come il richiamo all’ideale di grecità winckelmanniano.
Vediamo ora più da vicino ciò che dice Goethe in alcuni saggi contenuti negli “Scritti sull’arte e sulla letteratura”.
Dell’architettura tedesca, 1772
Il saggio è un elogio dell’architettura tedesca, in particolar modo quella gotica della cattedrale di Strasburgo, opera dell’architetto Erwin von Steinbach (XIII – XIV secolo).
Goethe sostiene che il genio degli antichi ha ingabbiato quello italiano che si è limitato a imitarlo. Ciò che ne è scaturito non è la bellezza vivente e creatrice che ha in sé le forze della conoscenza e dell’agire, ma solo una parvenza di bellezza e verità.
La vera architettura, invece, è quella tedesca, esemplificata nella cattedrale di Strasburgo, perché si tratta, appunto, di stile gotico, che non imita gli antichi o la natura, e di arte plastica. L’arte plastica è la vera arte autentica perché “agisce intorno a sé lasciando fuori ogni cosa estranea”, “forma una totalità vivente”, permette allo spirito “l’intuizione della bellezza delle proporzioni”, è “l’arte in cui vive il genio”. La nostra epoca ha invece rinunciato al suo genio. Il genio non ha bisogno di essere elevato e trasportato sulle ali altrui, ma di procedere secondo le sue forze che sono educate dalla natura. Solo in questo modo egli può agire e gioire.
“Le belle arti, la loro origine, la loro vera natura e migliore applicazione, considerate da J. G. Sulzer", 1772
Il saggio è una critica alla “Teoria generale delle Belle Arti” di J. G. Sulzer (1720-1779), direttore per la classe di filosofia dell’Accademia delle Scienze francese, il quale formula una dottrina classica delle arti che richiama la classica divisione delle sette arti liberali.
Per Goethe, Sulzer non fa altro che sostituire all’imitazione della natura il” principio di abbellimento delle cose” e vuole far derivare l’arte dalla natura, come se questa fosse una madre benevola atta a suscitare solo impressioni gradevoli e di piacere. Invece in natura esistono anche eventi catastrofici, il bello convive col brutto, il bene con il male, poiché in natura “tutto trascorre” e “l’arte è l’esatto contrario, nasce dagli sforzi dell’individuo di preservarsi dalla forza distruttrice del tutto”. L’arte non serve ad aumentare la felicità umana né a migliorare il popolo, come vorrebbe Sulzer; l’unico modo per godere delle arti è lasciar spazio e modo all’artista di mettere in atto in suo genio attraverso gli strumenti adeguati. Solo così può nascere una “teoria vivente” delle arti, attraverso il percorso personale dell’artista, che va “dalla dimensione meccanica a quella intellettuale, dalla preparazione dei colori al montaggio delle corde, fino all’autentico influsso delle arti sul cuore e sui sensi”.
Ruoli femminili interpretati dagli uomini sulle scene teatrali romane, 1778
Goethe discute della regola teatrale secondo la quale i ruoli femminili vadano interpretati da attori uomini e si dichiara favorevole a questa pratica. In questo tipo di rappresentazione, infatti, non si vede la cosa stessa, ma la sua imitazione; si produce, così, una sorta di “illusione consapevole” da cui nasce il piacere estetico. Scrive Goethe: “si provava qui il piacere di vedere non la cosa stessa, ma la sua imitazione, di essere stati intrattenuti non in virtù della natura, ma in virtù dell’arte, di guardare non una individualità bensì un risultato”.
Semplice imitazione della natura, maniera, stile, 1789
Il nostro autore definisce qui il significato dei termini “imitazione della natura”, “maniera”, “stile”.
Per “semplice imitazione della natura” Goethe intende il processo secondo cui un artista, che prima si eserciti sui modelli e poi si dedichi alla fedele imitazione della natura, produce oggetti gradevoli, ma limitati. L’artista sarà sì dotato, ma dovrà anche accontentarsi di un godimento estetico moderato.
La “maniera”, invece, è un linguaggio inventato dall’artista che, seccato di limitarsi a riprodurre la natura, nella rappresentazione sacrifica il particolare in favore dell’’universale e ritrae quegli stessi oggetti ma a modo suo, dipingendo ciò che egli coglie con l’anima.
Lo “stile” si raggiungerà quando l’artista, una volta imparata la maniera e l’imitazione della natura, arriverà a conoscere esattamente le proprietà delle cose, ad abbracciare con lo sguardo la serie delle sue configurazioni, a imitare le diverse forme e caratteristiche, a conoscere e cogliere l’essenza delle cose. Guardando una simile opera, allora, lo spettatore sarà istruito.
Lo stile è il livello più elevato che l’arte possa raggiungere, quello in cui l’arte è vivente e attiva e lo è proprio perché fornisce conoscenza.
Goethe e Schiller: poesia epica e poesia drammatica: alcune lettere del carteggio del 1797
Sono qui riportate le opinioni di Goethe e di Schiller circa la poesia epica e la poesia drammatica contenute in alcune lettere del carteggio tra i due dell’anno 1797, da aprile a dicembre, e in un saggio che Goethe manda a Schiller nello stesso periodo, ma che comparirà in “Über Kunst und Altertum” solo nel 1827.
Secondo Goethe la poesia epica (il riferimento che ha presente sono i poemi antichi come l’Odissea e l’Iliade), presenta l’evento di cui tratta come compiutamente trascorso ed è, perciò, caratterizzata dall’attività. L’uomo, infatti, è sempre coinvolto attivamente in imprese come guerre e battaglie e, quindi, agisce dall’esterno. La poesia epica, inoltre, è costellata di motivi regressivi che allontanano l’azione dalla meta, tanto che spesso vi è o vi potrebbe essere l’anticipazione della conclusione, poiché l’interesse è solo nel come si svolge la vicenda. Per questo motivo la poesia epica copre un arco più vasto di spazio e di tempo.
La poesia drammatica (il termine per Goethe è sinonimo di tragedia e, in particolare, della tragedia greca antica), invece, fa apparire gli eventi narrati come assolutamente presenti ed è caratterizzata dalla passività, poiché in essa l’uomo è quasi completamente rivolto al suo interno, alle sue vicende interiori. L’interesse, qui, risiede nel che cosa succede e, infatti, vi sono motivi progressivi che fanno avanzare l’azione che si svolge in un tempo e in un luogo circoscritto.
Per Schiller, invece, il fine della poesia epica è la verità perché essa raffigura l’attività delle cose secondo natura e ci lascia liberi di muoverci nella trama. Il fine della poesia drammatica o tragedia è l’azione che viene presentata dal poeta in un certo modo e, perciò, non vi è libertà per il lettore. Schiller, inoltre, nota quanto sia importante il ritmo nella poesia drammatica e si richiama alla Poetica di Aristotele.
Nel carteggio, inoltre, Goethe critica il saggio di F. Schlegel “Sulla poesia epica e sentimentale”, scritto nel 1795, ma pubblicato nel 1797, dopo la comparsa dell’opera schilleriana “Sulla poesia ingenua e sentimentale”. Schlegel sostiene che Iliade e Odissea mancano di un’unità drammatica e, perciò, non possono essere considerati dei poemi, ma delle epopee; Goethe non è d’accordo perché ritiene che la presunta mancanza di un’unità drammatica nei poemi greci non basti a declassare tali opere a epopee. In ogni caso, ciò che sembra più interessante osservare è che, nel suddetto saggio, Schlegel individua nella poesia greca la poesia che tende all’oggettivo poiché eleva il particolare all’universale e nel particolare rappresenta l’universale (che è inteso come oggettivo). Nello specifico, per Schlegel è la tragedia (specialmente quella attica di Sofocle ed Eschilo) a essere il genere poetico più elevato, mentre per Goethe sembra essere la poesia epica (stando a quanto emerge dal carteggio e dal saggio allegato).
È doveroso fare anche un breve confronto con le posizioni di Schiller nell’opera “Sulla poesia ingenua e sentimentale” per chiudere il triangolo che si è qui delineato. Schiller sosteneva che il poeta greco rappresenta la natura, la vita sensibile e la presenza sensibile e, quindi, un oggetto finito; la poesia moderna, invece, incarna le idee e lo spirito e, quindi, un oggetto infinito. Schiller associa, infatti, alla categoria dell’ingenuo l’unità spontanea tra l’elemento passivo della sensibilità e quello attivo della ragione – intelletto, la natura e la poesia antica; alla categoria del sentimentale la divisione dell’elemento della sensibilità da quello della ragione (ecco che quindi la riflessione si rende autonoma dalla sensibilità), la cultura e la poesia moderna.
Proprio questa separazione della riflessione dalla sensibilità sarà argomento di Goethe nella sua critica all’arte moderna.
Introduzione ai Propilei, 1798
Per “propilei” Goethe intende gli edifici antistanti ad Atene e al tempio di Minerva e immagina quali dialoghi si sarebbero potuti tenere al loro interno. I “propilei” esemplificano quindi un santuario dell’arte e, infatti, in questo saggio Goethe ritrae la figura dell’artista e il suo rapporto con la natura e critica - come premesso - l’arte moderna.
Per Goethe l’artista non può prescindere dallo studio della natura e della teoria del colore; egli deve conoscere i fenomeni naturali, ma, soprattutto, l’uomo perché l’uomo l’oggetto per eccellenza dell’arte figurativa. L’opera che non parla chiaro ai sensi, infatti, non può parlare chiaro neanche al sentimento. Dunque l’artista, una volta individuato il soggetto dell’opera, deve:
- realizzarlo nel suo nesso interiore e rintracciare i motivi secondari (“trattamento spirituale”);
- rendere l’opera una dolce attrattiva per i sensi (“trattamento sensibile”);
- agire su una materia per conferire realtà all’opera (“trattamento meccanico”).
L’artista non deve quindi trascurare la sua educazione, ma neanche fermarsi all’imitazione della natura così come la insegnano nelle scuole d’arte.
La critica all’imitazione della natura è un punto centrale nell’attacco di Goethe contro l’arte moderna. I moderni si richiamano agli antichi, ma se ne discostano in pratica e, infatti, l’arte moderna sta decadendo perché vi è una forte mescolanza di generi. Le arti, invece, dovrebbero rimanere separate e l’artista dovrebbe seguire delle norme, in modo tale da poter tendere alla verità dell’arte; l’artista che segue il “cieco impulso” e “tende alla realtà naturale” si abbandona verso il gradino più basso dell’arte.
La grandezza di un’opera, invece, sta nell’intuizione e intuizione qui sembra significare il riuscire a realizzare il soggetto nel suo nesso interiore, quindi ad arrivare all’essenza dell’oggetto dell’opera d’arte attraverso i sensi. Per riuscire in questo, l’artista deve conoscere la natura del soggetto, perché “solo così l’intuizione raggiunge la perfezione nella conoscenza”.
E, se l’arte dev’essere normativa, come si è detto, la storia dell’arte dovrà fondarsi su un concetto dell’arte; tale concetto, per Goethe, altro non può essere che la conoscenza della natura.
Sul “Laocoonte”, 1798
In questo saggio Goethe elenca le caratteristiche di un’opera d’arte perfetta. Essa deve:
- rappresentare la natura umana quindi conoscere le parti e le proporzioni del corpo umano, i suoi fini interiori ed esteriori, le sue forme e i suoi movimenti (“natura vivente e organizzata”);
- conoscere la differenziazione di queste parti secondo la forma e l’azione (“caratteri”);
- essere in quiete o in movimento, in azione o nel pathos dell’espressione;
- attingere all’ideale, ovvero l’artista deve comprendere bene il suo soggetto e rappresentare di esso la climax espressivo;
- sottostare alle leggi dell’arte (ordine, intelligibilità, simmetria, contrasto, ecc.) per raggiungere la “grazia”;
- sottostare alla “misura” per giungere alla “bellezza spirituale”.
Scrive Goethe:
“Gli antichi, che erano ben lontani dalla follia moderna per cui un’opera d’arte deve avere la parvenza di un’opera della natura, rimarcavano il carattere artistico delle loro opere disponendone le parti in un ordine studiato. Con la simmetria facilitavano all’occhio la comprensione dei rapporti e un’opera complessa diveniva intelligibile. […] Così, anche astraendo dal suo contenuto e persino scorgendone da lontano solo i contorni più generali, ogni opera d’arte appare ancora all’occhio come un ornamento.”
Il gruppo scultoreo del Laocoonte costituisce, per Goethe, un modello di simmetria, varietà, quiete e movimento, contrasti e gradazioni sottili, ma soprattutto riesce a esprimere l’attimo di massimo culmine espressivo:
“La situazione delle tre figure è rappresentata in vari gradi con suprema sapienza. Il figlio maggiore è avvinghiato solo alle estremità, il secondo lo è in più punti e in particolare è stritolato al petto. Con il movimento del braccio destro egli cerca di divincolarsi per farsi largo, mentre con il sinistro respinge leggermente la testa del serpente per impedirgli di cingergli il petto in un’altra spira; il serpente è sul punto di sgusciar via dalla mano, ma non morde affatto. Il padre invece vuole liberare con violenza sé e i suoi figli da questa stretta; serra l’altro serpente che, irritato, lo morde all’anca.
[...] Il corpo scatta al lato opposto, il ventre si contrae, la spalla si piega in basso, il petto si protende e la testa si reclina nella parte colpita. Poiché nei piedi legati e nelle braccia che si dibattono si mostra ancora un residuo della situazione e dell’azione precedenti, ne scaturisce l’effetto congiunto di uno slanciarsi e di un ritrarsi, di un agire e di un patire, di uno sforzo e di una resa, che forse non sarebbe possibile a nessun’altra condizione.”
Il Laocoonte è dunque un soggetto patetico, perché esprime passioni come il timore, il terrore e la pietà, e, moderando, nell’imitazione artistica, gli eccessi passionali della natura umana, riesce a infondere il sentimento del bello.
Sul vero e sul verisimile nelle opere d’arte. Un dialogo, 1798
Attraverso un dialogo tra uno spettatore di un’opera teatrale e un difensore dell’artista autore di tale opera, Goethe afferma che l’arte non deve sembrare vera, ma verosimile. Essa non deve imitare la natura cercando di riprodurla così com’è, ma deve andare oltre la natura. Lo spettatore dev’essere consapevole di non essere di fronte alla realtà, ma alla sua rappresentazione. Tale rappresentazione, però, sembra reale e, perciò, produce nello spettatore un’illusione consapevole da cui nasce il piacere estetico.
Il “Saggio sulla pittura” di Diderot, tradotto e commentato, 1799
Goethe traduce e critica parti degli “Essais sur la peinture” (1765-66) di D. Diderot.
Secondo Goethe, Diderot sostiene il principio dell’imitazione della natura. Arte e natura, invece, non vanno confuse perché hanno leggi differenti e la loro mescolanza è la malattia dell’arte moderna. In natura non è tutto bello e buono come vorrebbe Diderot; proprio per questo l’artista opera seguendo la proporzione e la simmetria. L’artista sì deve conoscere la natura e le sue forme, specialmente quelle umane, e per fare ciò deve servirsi anche della teoria dei colori che lo aiuta a raggiungere l’armonia del tutto e la simbolicità dell’opera; ma l’artista deve conoscere le forme della natura non per imitarle, bensì per rappresentarle. Infatti la natura crea esseri viventi e reali, l’arte apparenze significative: “La natura crea un essere vivente ma privo di significato, l’artista un essere morto ma significativo; la natura crea un essere reale, l’artista un essere apparente”. L’arte, quindi, non pretende di essere realtà viva, ma di cogliere la natura al più alto grado della sua manifestazione:
“L’azione vitale della natura organica […] è contrapposta all’arte perfetta. Questa, giunta al suo culmine, non pretende di essere quella stessa realtà viva, produttiva e riproduttiva, ma coglie la natura al grado più degno della sua manifestazione, e da essa apprende la bellezza delle proporzioni per imporgliela poi a sua volta. L’arte […] si mantiene alla superficie dei fenomeni maturali; tuttavia […] fissa i momenti più alti di tali fenomeni, riconoscendovi la conformità alle leggi, la perfezione della proporzione funzionale, il culmine della bellezza, la dignità del significato e l’elevatezza della passione”.
Ciò che l’artista rappresenta della natura è un’apparenza esteriore, “ma cos’altro è l’esterno di una natura organica, se non la manifestazione eternamente mutevole dell’interno?” .
L’artista, riproducendo la natura senza imitarla, restituisce alla natura una “seconda natura”, “pensata e umanamente compiuta”. Affinché ciò possa avere luogo, “il genio, l’artista per vocazione,” deve conoscere le leggi della natura e da queste far derivare le leggi dell’arte. Ecco perché l’allievo di una scuola d’arte deve essere spinto verso la natura, ma, contemporaneamente, istruito all’arte. Infatti “dalla più fedele imitazione della natura non nasce un’opera d’arte; invece quasi ogni elemento naturale può essere scomparso da un’opera d’arte senza che essa cessi di meritare la lode”.
In conclusione, quindi, “l’artista non aspiri a produrre un’opera di natura, ma un’opera d’arte perfetta”.
Winckelmann, 1805
Goethe prende Winckelmann come modello di scrittore che si sente “al centro del mondo antico”.
Winckelmann è, per Goethe, lo scrittore dall’animo pagano che, nonostante la sua adesione al cattolicesimo, è indissolubilmente legato all’antichità grazie alla sua permanenza a Roma, alla sua cultura, al suo animo e al suo interesse per le rovine archeologiche (vivo era l’interesse per le scoperte di Ercolano e Pompei).
Gli antichi, sostiene Goethe, non tendevano all’infinito come i moderni, ma vivevano nel presente, si attendevano al vero, all’immediato, al reale perché presso di loro sensibilità e riflessione non si erano ancora separate. Attraverso la loro arte, essi potevano esprimere la bellezza sensibile e riprodurla nelle figure umane e Winckelmann, scrive Goethe, “era nato per questa bellezza”. Sempre grazie alla non separazione delle facoltà di sensibilità e riflessione, l’opera d’arte antica, seguendo i principi di “vaglio, ordine, armonia e significato”, giungeva a rappresentare nel mondo la realtà ideale.
Shakespeare senza fine, 1815-26
Goethe elogia Shakespeare come il poeta capace di portare l’uomo alla coscienza dei propri sentimenti e pensieri attraverso la messa in scena, nelle sue opere drammatiche, dei conflitti interiori. Dato che “i tormenti più grandi e più frequenti a cui l’uomo può essere esposto nascono dai conflitti, insiti in ciascuno, tra il dovere e il compiere, ed infine tra il volere e il compiere” e che le tradizionali opposizioni estetiche possono essere divise, per Goethe, in due gruppi, come segue:
¨ antico |
moderno |
¨ ingenuo |
sentimentale |
¨ pagano |
cristiano |
¨ eroico |
romantico |
¨ reale |
ideale |
¨ necessità |
libertà |
¨ dovere |
volere |
allora, “nelle opere antiche prevale il conflitto tra il dovere e il compiere; in quelle moderne, prevale il conflitto tra il volere e il compiere”. Le prime saranno quindi caratterizzate dalla necessità e dall’oggettività, le seconde dalla libertà e dalla soggettività:
“La tragedia antica si fonda su un dovere ineluttabile, che la volontà, opponendoglisi, non fa che acuire e accelerare. […] Ma ogni dovere è dispotico, sia che si attenga alla ragione, come la legge morale o la legge sociale, sia che si attenga alla natura, come le leggi del divenire, della generazione e della corruzione, della vita e della morte. Tra tutti è questo che ci fa rabbrividire, ma non consideriamo che così si persegue il bene del Tutto. All’opposto, il volere è libero, appare libero e favorisce il singolo. Per questo è lusinghiero, e dovette impadronirsi degli uomini non appena ne vennero a conoscenza. È il Dio dei tempi moderni. Noi ci consacriamo a lui, temiamo il suo opposto e per questa ragione la nostra arte e il nostro modo di pensare si sono separati per sempre da quelli degli antichi. Il dovere conferisce grandezza e forza alla tragedia, mentre il volere la rende debole e meschina. Su questa via è nato il cosiddetto dramma: il volere si è sostituito all’immane dovere.”
Shakespeare è il poeta che riesce a tenere in equilibrio il conflitto dovere/volere: “nelle sue opere il volere e il dovere cercano di realizzare un equilibrio; si battono furiosamente l’un contro l’altro, ma sempre in modo che sia il volere a soccombere. […] Il personaggio, considerato dal lato del carattere deve: è limitato, destinato al particolare, Ma in quanto uomo vuole: è illimitato ed esige l’universale”.
Per questa ragione Shakespeare è sia un poeta ingenuo, sia un poeta moderno, perché riesce a tenere insieme nelle sue opere le redini di questo conflitto. Scrive Goethe: “Invece di venerare esclusivamente e oltre misura il nostro romanticismo – che forse non si può neanche biasimare e condannare – […] dovremo cercare di unificare questa grande opposizione che pare inconciliabile”.
Shakespeare è anche il poeta le cui opere “sono eminentemente drammatiche” perché racchiudono in sé tutti i generi: epopea, dialogo, dramma e opera teatrale.