IL GORGIA
A cura di M.C.Pievatolo .

plato

Il dialogo si svolge in casa di Callicle, che ospita il sofista Gorgia di Leontini e il suo discepolo Polo, in un momento posteriore al 407 (Socrate allude alla sua esperienza di pritania dicendo che è avvenuta l'anno precedente). Callicle, che svolge una parte rilevante nel dialogo, è probabilmente un personaggio inventato dalla fantasia di Platone per rappresentare, per così dire, l'acclimatazione dell'etica aristocratica alla democrazia. Il Gorgia è un passo importante nella maturazione del pensiero di Platone: l' élenchos e alcune tesi socratiche convivono con la critica filosofica alla democrazia e con l'accenno a miti e temi metafisico-morali destinati a venir sviluppati nelle successive opere della maturità. Gorgia , che si vantava di saper rispondere a qualsiasi domanda, è reduce da una fortunata esibizione pubblica. Socrate gli pone un quesito analogo a quello cui aveva messo di fronte Protagora : "chi sei?", cioè "che cosa insegni?" Polo, ambizioso allievo del sofista, si offre di rispondere in sua vece: gli uomini hanno molte technai, apprese dall'esperienza. L'esperienza fa sì che la nostra vita proceda secondo una regola (kata technen) e non a caso (kata tychen ). Gorgia è il migliore, perché possiede la techne più bella. [448c] La tesi di Polo ha una componente epistemologica: l'idea che la techne, intesa nel senso di conoscenza indirizzata alla pratica, derivi esclusivamente dall'esperienza. Socrate osserva che il giovane sofista ha imparato la retorica, ma non il dialeghesthai, cioè l'arte del dialogo come argomentazione finalizzata alla verità: si è lanciato in una lode della retorica, ma non ha detto che cos'è. Ha fatto un discorso propagandistico, mentre Socrate chiedeva una definizione che spiegasse quale fosse il contenuto caratterizzante dell'insegnamento di Gorgia. [448d] Interviene Gorgia , che accetta di discutere con Socrate usando la brachilogia, l'argomentazione breve, che rende possibile l'interlocuzione, in luogo della macrologia: un abile sofista sa padroneggiare entrambe le tecniche. La retorica - spiega Gorgia interrogato da Socrate - è una techne, come la tessitura, la medicina, la ginnastica, la musica. Tutte le technai producono discorsi persuasivi nel rispettivo ambito di competenza e hanno ad oggetto dei beni. Le technai manuali si risolvono nel lavoro, quelle discorsive hanno la loro azione e ratificazione nei discorsi. In particolare, la retorica si occupa di produrre discorsi persuasivi nelle assemblee politiche e nei tribunali: il suo oggetto è il giusto e l'ingiusto. E' una techne che conferisce grande potere a chi la domina, perché un discorso persuasivo può sopravanzare, nelle pubbliche assemblee, le argomentazioni di esperti in altri rami del sapere. [ 449d ss.] Socrate induce Gorgia a distinguere fra il memathekenai e il pepisteukenai, ossia fra il sapere che segue all' avere imparato e la convinzione che segue all' essere stati persuasi. [ 454c ss]. Sia chi ha imparato, e dunque sa, sia chi è stato convinto, e dunque nutre una credenza, è persuaso di ciò che gli è stato messo in mente: ma mentre può esserci una persuasione ( pistis ) vera e una persuasione falsa, non può esservi una scienza ( episteme ) falsa. La retorica, che mira alla persuasione e non all'insegnamento, suggerisce soltanto delle credenze, e funziona soprattutto davanti a un pubblico di ignoranti - un pubblico cui non viene trasmesso nulla, ma è semplicemente manipolato. Gorgia sottolinea che se della retorica viene fatto un uso ingiusto, la responsabilità di questo uso non dipende da chi l'ha insegnata, ma dall'allievo che la impiega così. In altri termini, l'arte del sofista è uno strumento moralmente neutro, una tecnica nel senso moderno della parola, il cui significato assiologico dipende dall'uso che se ne fa. Socrate replica che, stando così le cose, il retore non è esperto neppure sull'oggetto del suo discorso, il giusto e l'ingiusto, e conosce solo l'arte di persuadere gli ignoranti, cioè di sembrare sapiente fra gli incompetenti. Gorgia , cadendo in contraddizione con quanto detto prima, risponde affermando che la retorica comporta anche la conoscenza di ciò che è giusto. [460c-d] La distinzione socratica fra il sapere che segue l'aver imparato e la persuasione che segue all'essere convinto potrebbe incorrere nel sospetto di essere una distinzione meramente retorica: chi ci assicura che l'insegnamento non sia una forma scaltrita di persuasione? Anche i sofisti con cui Socrate si confronta hanno la pretesa di insegnare qualcosa; le domande con cui Socrate li incalza suggeriscono il dubbio che la sofistica non abbia nulla da trasmettere, ma si riduca al marketing di se stessa. Gorgia stesso, di fronte a questo dubbio, preferisce cadere in contraddizione, affermando che la retorica ha qualcosa da insegnare sul giusto e sull'ingiusto. Socrate è davvero diverso dai sofisti? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo scoprire, nell'argomentazione di Socrate , qualcosa che la distingua dalla retorica sofistica. E questo compito è difficile, perché Socrate conosce ed usa le tecniche argomentative dei suoi avversari. Ma, proprio discutendo con Gorgia , fa un'affermazione che nessun sofista potrebbe condividere: ...ritengo l'essere confutato come un maggior beneficio, tanto maggiore, quanto è meglio essere liberati dal male più grande che liberarne altri. (458a) Lo spessore semantico del sostantivo greco élenchos e del corrispondente verbo elencho comprende non solo la nostra "confutazione", ma anche il venire riconosciuti colpevoli, e l'essere svergognati (in Omero). L' elenchos, in altri termini, non è una riprovazione puramente cognitiva, ma comporta una esperienza umiliante. Un sofista o un politico pubblicamente confutati avrebbero fatto una brutta figura, e avrebbero perso mercato o potere. Stando così le cose, è bizzarro e paradossale che Socrate veda nell' élenchos una esperienza salutare e benefica, tanto da render preferibile il venir confutati al confutare; ed è analogamente bizzarra la convinzione socratica che subire ingiustizia sia meglio che commetterla. Ma proprio simili convinzioni distinguono l' atteggiamento di Socrate da quello dei sofisti: Socrate può avere la certezza di "insegnare" perché egli stesso si espone alla confutazione e, non facendosi pagare, rifiuta la competizione della politica e del mercato. La differenza prima fra stile socratico e stile sofistico non è solo logica ed epistemologica - non riguarda solo gli strumenti argomentativi - ma ha anche a che vedere con un orientamento e un interesse etico, preliminari allo sviluppo dei suoi ragionamenti: è per un interesse etico che Socrate mette alla prova se stesso e gli altri in una confutazione che è allo stesso tempo una esperienza di purificazione personale. Polo sfrutta l'imbarazzo del maestro come occasione per rifarsi avanti: Gorgia si è vergognato di ammettere che la retorica è una tecnica indipendente da ogni controllo assiologico, e Socrate ne ha approfittato per farlo cadere in contraddizione. Ma come se la caverebbe Socrate, se fosse investito del compito di rispondere? Socrate accetta la sfida, e si impegna a sostenere la tesi che la retorica - l'arte di argomentare in pubblico - non è una vera e propria techne, perché non ha ad oggetto un bene umano; è, piuttosto, una forma di kolakeia, cioè di adulazione e di seduzione. Non avendo un progetto, essa si basa solo sull'esperienza, come del resto aveva detto Polo all'inizio del dialogo. Il rapporto fra la retorica e l'amministrazione della giustizia, intesa come una techne, è paragonabile a quello fra la cucina e la medicina: un bravo cuoco, in base alla sua esperienza, può certo cucinare cibi gradevoli al palato, ma solo un buon medico, che ha in mente un ideale di salute fisica, sa dire quale sia la dieta più sana. [463b ss] Per questo motivo, non si può sostenere che sia sufficiente l'esperienza a fare una techne: occorre anche una conoscenza dei fini cui è indirizzata l'azione. Questa conoscenza non può derivare solo dall'esperienza, perché richiede un giudizio sui fini in base ai quali facciamo i nostri progetti. Polo replica dicendo che retori e tiranni hanno un grande potere nella città, perché possono far bandire o mettere a morte chi vogliono. Una tesi di questo genere presuppone la convinzione che la retorica, se intesa come tecnica agnostica rispetto alla natura e al valore dei fini per i quali viene impiegata, accresca il potere delle persone che la dominano. Imparare una tecnica mettendo fra parentesi il problema della moralità dei suoi fini conduce a padroneggiare degli strumenti che ci sarebbero preclusi se avessimo scupoli di natura etica. Il nostro arbitrio, in questo modo, avrà possibilità più ampie di realizzazione. [466a ss] Socrate , che pensa che una vera techne includa la consapevolezza e la valutazione dei suoi fini, deve dimostrare che i retori e i tiranni non hanno le potenzialità loro attribuite, perché non hanno la consapevolezza e la capacità di valutare gli scopi per i quali agiscono. Essi non fanno ciò che desiderano, ma ciò che sembra loro opportuno. E le due cose non sono necessariamente identiche. Gli uomini agiscono per degli scopi, che devono essere dei beni per loro: ad esempio, chi beve una medicina amara, lo fa in vista di un bene, la sua salute. Le azioni che compiono per ottenere questi beni sembrano loro buone. Ma una azione che sembra buona, cioè in grado di realizzare il bene cui è finalizzata, può non essere l'azione più adatta per conseguire il bene che l'agente si prefigge. In questo caso, l'agente fa ciò che gli sembra bene, ma non fa ciò che desidera. Usando una distinzione prodotta dalla filosofia analitica (E. Anscombe), possiamo dire che, in questo caso, l' oggetto reale della sua azione non si identifica con il suo oggetto inteso. Ciò che l'azione effettivamente realizza è diverso da ciò che l'agente aveva in mente di ottenere. Questo avviene quando un agente, pur avendo il potere di agire, manca di conoscenza sulla vera natura della sua azione. Facciamo un esempio: l'oracolo annuncia a Edipo che ucciderà sua padre e sposerà sua madre. Edipo, essendo convinto che i suoi genitori adottivi di Corinto siano i suoi genitori naturali, fugge a Tebe per sottrarsi alla profezia. Qui comincia a desiderare di sposare la vedova del re, Giocasta. Questo è l'oggetto inteso della sua azione, ciò che gli sembra bene. Edipo, tuttavia, non sa che Giocasta è sua madre; ignora, pertanto, che l'oggetto reale del suo desiderio è proprio ciò che sta cercando di evitare, e cioè il matrimonio con sua madre. Edipo fa quello che gli sembra bene, ma non quello che desidera, a causa della sua ignoranza. Se ci manca la conoscenza, non basta il potere, per realizzare quello che vogliamo. Quando Socrate afferma che il potere senza conoscenza non ha nessun valore, non sta parlando di una conoscenza semplicemente tecnica, ma della conoscenza del bene, che permette di discernere il giusto dall'ingiusto. Egli ha di fronte un interlocutore, Polo, il quale pensa che la retorica, svincolata dall'etica, possa migliorare il benessere di chi se ne vale senza farsi scrupoli. Il poter fare ciò che sembra dei retori e dei tiranni è qualcosa di invidiabile. E a questo interlocutore deve dimostrare che l'ingiustizia, e non l'impotenza, è il male supremo: Il supremo male, il male peggiore che possa capitare, è commettere ingiustizia... Non vorrei né patirla né commetterla, ma, fra le due, se fossi costretto a scegliere, preferirei piuttosto patire che commettere ingiustizia. [469b-c] Socrate conduce Polo a riconoscere che il vero potere non è semplicemente fare ciò che si vuole, ma riuscire a trarne vantaggio. Il giovane sofista, allora, gli adduce come esempio di felicità (eudaimonia) un usurpatore e tiranno di successo, il despota macedone Archelao figlio di Perdicca. Come prova della sua tesi presenta il consenso della maggioranza. Socrate , però, non accetta questa prova come valida: il ridicolo e l'appello ad una opinione condivisa dai più sono solo surrogati di confutazione - surrogati tanto più sospetti in quanto offerti da un sofista, che fino a un momento fa si era vantato di saper manipolare le assemblee con la propria retorica - i quali non hanno nessun valore in una argomentazione ad veritatem. [471d ss] Socrate si propone di dimostrare a Polo, con il metodo elenctico, che non è possibile essere nello stesso tempo adikos (ingiusto) ed eudaimon (felice). L'opinione da cui prende avvio l' élenchos è la tesi di Polo secondo cui subire ingiustizia è peggiore (kakion) che commetterla; ma commettere ingiustizia è moralmente più brutto (aischion) che patirla. Questa tesi si basa sul presupposto che la bellezza e la bruttezza morale (kalon e aischron) siano diverse dall' agathon e dal kakon, cioè dal bene e dal male in quanto inteso a procurare felicità. Il primo passo dell'élenchos consiste nel chiedere per quale ragione una cosa è considerata "bella" (kalos). La risposta è: perché dà piacere o è utile a chi la contempla. Analogamente, una cosa apparirà brutta (aischros) se provoca dolore o danno. Cioè il bello e il brutto dipendono dal piacere e dal dolore che provocano, o (vel) dal bene e dal male che procurano. Polo aveva riconosciuto che commettere ingiustizia è più brutto (aischion) che patirla. Ma questo significa che Polo riconosce anche che commettere ingiustizia può essere o più doloroso o (vel) più dannoso (peggiore) che subirla. Commettere ingiustizia non supera in dolore in patirla. Possiamo però ammettere che lo supera in male, e quindi: commettere ingiustizia è peggio (kakion) che subirla. Questo argomento si basa su un' omissione, che lo può fare apparire un sofisma, se non rendiamo esplicite le sue premesse tacite. .Ma, nel dialogo, è un argomento sufficiente a piegare Polo: la giustizia, in quanto padronanza di sé o sophrosyne, rappresenta il benessere e la salute dell' anima. E chi si sottrae alla giustizia correttiva e alle sue punizioni, si comporta come un bambino che cerchi di sottrarsi alla sua medicina, perché non si rende conto che serve per guarirlo. Anzi, se vogliamo il male di un nostro nemico dobbiamo cercare di sottrarlo alla giustizia, perché viva il più a lungo possibile in compagnia della sua infelicità. Perciò, conclude Socrate ironicamente, la retorica serve soltanto quando si ha a che fare con chi ha intenzione di commettere il male. Altrimenti è perfettamente inutile. A questo punto, irrompe nella discussione un interlocutore ancora più agguerrito di Polo, il padrone di casa Callicle. Socrate parla sul serio o scherza? Perché, se dicesse sul serio, l'intera vita umana sarebbe capovolta, e tutti faremmo proprio il contrario di quello che dovremmo fare. Socrate gli risponde con un gioco di parole: siamo entrambi innamorati, io di Alcibiade e della filosofia, tu del demos ateniese e di Demo figlio di Pirilampo. Tu non sai contraddire quello che dice il tuo amore, ma ti lasci cambiare da cima a fondo. Così faccio io; con la differenza che Alcibiade dice ora una cosa ora un'altra, la filosofia sempre la stessa. E se non confuti quanto sostiene la filosofia, tu sei in disaccordo con te stesso e disarmonico (asymphonon). Per capire che cosa vuol lasciare intendere Socrate, dobbiamo tener presente che il rapporto fra l'amante adulto e il più giovane amato era di tipo educativo: Callicle che fa tutto quello che dice Demo, che è, con un doppio senso, un ragazzo e il popolo, è un cattivo politico e un cattivo amante. [481b ss.] Callicle decide di stare al gioco: Socrate è riuscito a prevalere su Gorgia e su Polo perché ha usato dei trucchi retorici, e ha approfittato del fatto che i due sofisti si vergognassero a dire quello che veramente pensavano. Entrambi hanno trattato l'idea di giustizia come qualcosa di dato, e non hanno osato metterla in discussione. Ma basterebbe smascherare il carattere convenzionale di questa idea per sottrarsi agli argomenti di Socrate, la cui forza si basa solo sul pudore altrui. Polo, quando diceva che commettere ingiustizia è più brutto (aischion) che subirla, intendeva più brutto kata nomon (per legge o per convenzione od uso); Socrate , invece, suggerisce che lo sia kata physin (per natura). Ma per natura ciò che è più brutto - subire ingiustizia - è anche peggiore; è solo kata nomon che è il contrario. Per natura non è da aner (uomo, nel senso di maschio), ma da servo subire ingiustizia senza essere capaci di ricambiarla, ed è meglio morire che vivere maltrattati e offesi. Quelli che fanno i nomoi sono i deboli e i molti, per il loro utile (sympheron ). Spaventano i più forti, che potrebbero prevalere, dicendo che è brutto e ingiusto pleonektein (pretendere di avere più del dovuto) e cercare di prevalere sugli altri. Essi amano avere l'uguale perché sono mediocri. Ma per natura è giusto che il migliore prevalga sul peggiore, e il più potente sul meno capace. Questo la natura lo mostra ovunque, tra gli animali e tra gli uomini, nelle città e nelle famiglie. Il forte che riuscisse a liberarsi dagli incantesimi della città, sarebbe nostro padrone. Questo sarebbe il physeos dikaion (il giusto secondo la legge di natura). [483a ss.] La filosofia è solo un passatempo per i giovani, e non è da aner continuare a proticarla da adulti, quando si deve misurare il proprio valore nell'agorà e nella polis: Socrate, ad esempio, non saprebbe difendersi se accusato ingiustamente in tribunale, proprio perché perde tempo con la filosofia, quando la retorica sarebbe assai più utile. Le tesi di Callicle usano la sofistica e l'etica aristocratica per smascherare la giustizia e l' isonomia democratica come ingannevole e convenzionale. La realtà dei rapporti umani, come si può vedere nella famiglia e nella politica estera, si basa sulla legge del più forte, che, aristocraticamente, è anche il migliore. Callicle, tuttavia, nonostante faccia proprio l'arsenale delle critiche antidemocratiche contemporanee, accetta la democrazia come campo di battaglia: i migliori sono, elitisticamente, anche coloro che prevalgono manipolando le masse con la retorica. Socrate si compiace di aver trovato un interlocutore come Callicle, che è la miglior pietra di paragone per la sua anima, in quanto possiede scienza, benevolenza e parresia (franchezza nel parlare). E dopo questa captatio benevolentiae, egli comincia l' élenchos, che punta, impietosamente, sui suoi pudori. Nel confronto con Callicle, che è un aristocratico, Socrate si atteggia ad ingenuo, ma sceglie provocatoriamente esempi che fanno riferimento a cose e persone "vili", allo scopo di irritare e mettere in ridicolo il suo interlocutore. Questo espediente retorico serve a smascherare i presupposti assiologici che Callicle nasconde acriticamente sotto la sua professione di realismo. La prima obiezione di Socrate mette in luce una contraddizione caratteristica della critica aristocratica all'etica della democrazia: se la maggioranza pensa che commettere ingiustizia è peggio che subirla, e impone con la forza la sua preferenza alla minoranza, è nel suo diritto naturale, essendo la più forte. E Callicle, per quale il giusto secondo natura comporta la prevalenza del più forte, dovrebbe coerentemente rassegnarsi alla volontà dei più, a prescindere dalla loro condizione sociale. Callicle risponde, sdegnato, che Socrate approfitta della sua scelte terminologiche infelici: i migliori che hanno diritto di prevalere sui peggiori non sono i più forti fisicamente, perché questo legittimerebbe il potere di una accozzaglia di plebei e di schiavi. E rettifica la sua definizione: i "migliori" sono quelli che valgono di più, nel senso che sono i più intelligenti o competenti. [488c ss] Socrate gli chiede chiarimenti: un medico, in quanto esperto di dieta, ha il diritto di ingozzarsi con una quota sproporzionata di cibo, in luogo di distribuirlo a ciascuno secondo le sue necessità? Un bravo tessitore avrà titolo ad avere più degli altri, e se ne andrà in giro avvolto in molti e magnifici drappi? E, per quanto riguarda la distribuzione delle scarpe, un calzolaio dovrà andare a spasso indossando più paia di scarpe, e più grandi di quelle degli altri? Callicle, sempre più irritato, risponde che lui non si occupa di simili mestieranti, ma delle persone esperte negli affari politici, a cui deve essere assegnato il potere nella città. Socrate mette Callicle di fronte a un altro aspetto dell'etica democratica: la virtù della sophrosyne (temperanza o autocontrollo). Questi "migliori", che dovrebbero governare la città, sanno governare se stessi? Il suo interlocutore, da aristocratico, rifiuta di trattare la sophrosyne come una virtù: il giusto per natura comporta che ciascuno assecondi i suoi desideri e le sue passioni. La temperanza non è una virtù, perché comporta l'asservimento al nomos, al logos e al biasimo dei molti, anziché alla proprie passioni personali. [491e] Socrate , riprendendendo una metafora pitagorica, paragona l' anima di chi è asservito alla passione ad un orcio bucato, che deve essere continuamente riempito con un recipiente anch'esso bucato. La natura del desiderio è tale che esso non potrà mai essere soddisfatto, perché continuerà a ripresentarsi ciclicamente, in base a bisogni più o meno indotti. Callicle, di contro, pensa che l'essenza della vita felice sia questo ciclo ripetitivo di soddisfazione e di deprivazione: vivere dolcemente consiste nel più grande fluire. L'ideale di vita di Callicle si contrappone frontalmente a quello di Socrate: chi persegue la conoscenza segue un itinerario lineare e irreversibile, come possiamo vedere nel Protagora, mentre chi persegue il piacere è prigioniero di un processo ripetitivo. Socrate propone a Callicle, che aveva in mente le nobili passioni dell'aristocratico, come il desiderio di primeggiare sugli altri o di vendicare gli amici, una serie di applicazioni sgradevoli o scurrili della sua tesi. La vita decantata da Callicle è simile a quella del caradrio, una specie di piviere che mangia mentre evacua, o a quella di un malato di rogna che trova sollievo nel grattarsi continuamente, o ancora - cosa obbrobriosa per un fautore dell' andreia - a quella dell'omosessuale passivo. Callicle si scandalizza, ad onta della sua decantata indipendenza dalle convenzioni dei più. Dopo essersi così preparato il terreno, Socrate può colpire Callicle al cuore della sua tesi, che comporta l'identificazione del bene con il piacere (nel senso di soddisfazione dei desideri). Bene e piacere non sono la stessa cosa per tre motivi fondamentali: Il piacere ha luogo durante la soddisfazione di un bisogno. Ma il bisogno si manifesta sotto forma di una sofferenza; e il piacere che segue alla sua soddisfazione dura solo finché il bisogno viene soddisfatto, cioè finché esso convive con la sofferenza dovuta alla deprivazione. Ad esempio, si beve per placare la pena della sete, ma il bere rimane piacevole solo finché dura questa pena. Se la sofferenza è un male, e il piacere è presente solo in concomitanza con questa, allora esso non può essere un bene, cioè qualcosa che vale la pena scegliere per se stesso, e non in quanto rimedio a un male. La bontà di questo tipo di piacere, infatti, è tale solo in relazione a uno stato di sofferenza provocato dal bisogno. Se il piacere fosse identico al bene, si dovrebbero identificare le persone buone con le persone che godono; ma buoni e cattivi godono e soffrono, rispetto a una medesima esperienza, in uguale misura. L' eudaimonia è qualcosa di più complesso di una semplice situazione personale, perché comporta un rapporto con gli altri e con il mondo in generale. Per questo il suo problema può essere correttamente posto solo nel logos, cioè nel discorso, che va oltre le sensazioni private. Se si ammette, come ha fatto Callicle, che ci siano piaceri migliori e piaceri peggiori, il criterio di classificazione dei piaceri stessi sarà un bene differente da questi. E occorrerà una techne - non la semplice esperienza del desiderio e della sua soddisfazione - per distinguere i piaceri utili da quelli dannosi alla nostra felicità. Questa techne non può essere la retorica, perché si basa solo sull'esperienza e non ha un progetto. Il suo modello deve essere, piuttosto, il lavoro dell'artigiano, che sceglie i pezzi da montare tenendo presente l' eidos. In base al modello offerto dall' eidos, i pezzi vengono disposti in un ordine ( taxis) e in una proporzione armoniosa (kosmos). [503e ss] L'ordine del corpo si chiama salute, quello dell' anima nomos, o legge. Questo ordine si conserva attraverso le virtù personali della dikaiosyne (giustizia) e della sophrosyne, e comporta una relazione armoniosa sia con se stessi, sia con la totalità fuori di sé. Socrate diceva che la virtù è consapevolezza: per questo essa può essere riassunta nella sophrosyne, che è controllo di sé. [507b ss] Nel Gorgia, accanto a questa tesi socratica, si introduce l'elemento dell' eidos, il modello di rettitudine, ordine e armonia dell' anima. Ci si potrebbe chiedere se l' eidos, in quanto modello, possa fare a meno della consapevolezza personale, fino ad ispirare un "modellamento" delle persone a prescindere dalla loro volontà. L'equiparazione socratica di virtù e conoscenza, se applicata in modo radicale, sembra non autorizzare nessuna punizione differente dalla confutazione. Una punizione che si giustificasse perché riplasma le persone secondo il modello appropriato non sarebbe compatibile con la teoria della virtù come conoscenza, ma potrebbe essere legittimata da una nozione di virtù come conformità a un eidos. La prospettiva del Gorgia, tuttavia, è resa problematica dal fatto che Platone non rigetta la tesi socratica della virtù come consapevolezza: l' élenchos, per esempio, è trattato come un'esperienza di emendazione non soltanto cognitiva, ma anche morale. Egli aggiunge alla tesi di Socrate, la teoria dell' eidos dell'anima come modello di ordine, come se non vi fosse contrasto fra le due posizioni. Nella parte conclusiva del dialogo Callicle, che è stato sconfitto dall' élenchos, segue l'argomentazione di Socrate con riluttanza e senza convinzione, per cortesia verso Gorgia , che continua a fare da spettatore, e perché il suo interlocutore lo costringe, quasi, a continuare. Socrate si dice incapace a costruire una argomentazione senza il controllo di un altro dialogante, che verifichi la solidità delle sue tesi. E arriva a dire che, per quanto i ragionamenti condotti fino a quel momento siano "di ferro e diamante", non sa affatto come stiano veramente le cose, ma sa solo che nessuno, finora, è riuscito a sostenere tesi diverse senza venir confutato. [509a] La certezza del ragionamento elenctico è sempre provvisoria, perché costruita sulle opinioni di persone provvisorie: Socrate non lusinga mai i suoi interlocutori, nel senso che non permette loro di nutrirsi dell'illusione di aver acquisito qualcosa da lui. Questa debolezza è nello stesso tempo un punto di forza: mentre gli esperti di retorica Gorgia e Polo sono ridotti a spettatori, Socrate conduce chi riesce a discutere con lui ad occuparsi non di tecniche argomentative sul giusto e sull'ingiusto, ma del giusto e dell'ingiusto in quanto questione sostantiva. Socrate , seguito dal recalcitrante Callicle, affronta un problema tecnico-politico: per evitare di subire ingiustizia occorre o conquistare il potere, o parteggiare per il governo in carica. Ma per essere amici di chi è al potere, occorre essergli il più possibile simile: un tiranno, ad esempio, disprezzerà chi è peggiore di lui e avrà paura di chi è migliore di lui. Sarà amico solo di chi ha la sua stessa mentalità ed è disposto a rimanergli soggetto. Se l'arte della politica si riduce a una pratica di sopravvivenza, essa consisterà semplicemente nell'ingraziarsi il padrone. Callicle pensa di valersi della retorica per manipolare le masse, che, aristocraticamente, disprezza. In realtà, cercando di lusingarle, si rende simile a loro, mentre un buon politico dovrebbe piuttosto interagire con le persone, per renderle migliori. [510a ss] D'altra parte, anche se riconosciamo l'utilità della retorica per argomentare nelle assemblee e nei tribunali, e dunque, all'occorrenza, per sottrarsi a una condanna a morte, non si vede da dove questa disciplina possa trarre un titolo di nobiltà. Anche il nuoto, la navigazione e la tecnica di costruire macchine da guerra salvano la vita; eppure il maestro di nuoto, il marinaio e il meccanico non vanno pavoneggiandosi per la loro techne, anche perché essi sanno benissimo che i loro strumenti servono solo alla sopravvivenza, e non alla felicità delle persone. E' bizzarro che Callicle, un meccanico della sopravvivenza politica, guardi dall'alto in basso il costruttore di macchine, quando egli stesso, per farsi valere nella polis, si renda simile al demos che tanto disprezza, al solo scopo di lusingarlo. [511d ss] Il Gorgia si conclude con il primo dei grandi miti platonici della maturità: il mito del giudizio dei morti. Socrate afferma che questo racconto è in realtà un logos, e ha solo l'apparenza di mythos. Tanto è vero che egli stesso dice di vivere cercando di non commettere ingiustizia, piuttosto che di non subirla, perché teme molto di più il giudizio dei morti, con la cui narrazione si congeda da noi, che quello dei vivi.

TORNA INDIETRO