PAUL GRICE
A cura di Diego Fusaro
Al cuore della riflessione di Paul Grice (1913-1988), docente dapprima a Oxford e successivamente a Berkeley, stanno due grandi temi: a) il concetto di significato; b) la logica della conversazione. I filosofi, nota Grice, sono propensi a concepire il significato in termini causali: essi credono cioè che l’obiettivo di un enunciato sia quello di produrre un qualche atto cognitivo o di altra natura in chi ascolta l’enunciato. Ma questa “concezione causale del significato” è per Grice valida soltanto se riferita al significato standard: se riferita al significato specifico che gli enunciati assumono in date occasioni. In forza di questo presupposto, per Grice il significato non consiste principalmente nel trasferimento di contenuto informativo (contenuto che può essere cognitivo, ma non solo): né consiste nel mero riferimento a qualcosa. Al contrario, il significato può essenzialmente ridursi alle intenzioni del soggetto parlante e al loro riconoscimento da parte di chi ascolta. Il parlante cerca di produrre un certo effetto sull’ascoltatore tramite il riconoscimento da parte di quest’ultimo della sua intenzione. Per questa via, il linguaggio è inteso come conversazione. Capovolgendo con ciò il tradizionale atteggiamento che metteva in relazione significato e parole o frasi, Grice si propone di costruire una semantica incardinata sul punto di vista del soggetto parlante. Accade molto spesso, infatti, che quel che io voglio comunicare con le mie parole non sia il loro significato letterale, ma qualcosa di diverso, che nasce dall’interazione delle parole con altre e differenti componenti. Prendiamo il caso che io, a proposito di un noto vigliacco, dica: “che coraggioso!”. Il mio tono ironico o, banalmente, l’identificazione che i miei ascoltatori fanno del soggetto di cui parlo, farebbero immediatamente capire che voglio dire l’esatto opposto di quel che alla lettera vogliono dire le parole che ho impiegato. Detto altrimenti, per Grice l’elemento fondamentale è l’intenzione sottesa all’atto comunicativo. Soprattutto con Logica e conversazione, del 1975, Grice vuole mettere in chiaro tutte le componenti che usualmente sfuggono a un’analisi semantica del linguaggio effettuata nei soli termini di valore di verità degli enunciati: e ciò è possibile qualora si mettano in relazione il significato convenzionale dell’espressione linguistica e il contesto conversazionale in cui esso affiora. La conversazione è per Grice un’attività linguistica razionale e cooperativa, governata dal “principio di cooperazione”: in base a questa regola tacita, i partecipanti si sentono, per così dire, obbligati a dare un loro contributo affinché la conversazione in cui sono immersi funzioni bene. Il “principio di cooperazione” è così formulato da Grice in Logica e conversazione:
“Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento in cui avviene, dall’intento comune accettato o dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato”.
Ben si capisce, da tale formulazione, come quella di Grice sia una concezione eminentemente pragmatica del linguaggio, inteso come una forma di azione. Il principio di cooperazione si declina in quattro gruppi di massime, che si richiamano direttamente alle categorie kantiane: a) della quantità; b) della qualità; c) della relazione; d) della modalità. Secondo la massima della quantità, occorre dare un contributo conversazionale in modo opportuno, ossia né maggiore né minore di quanto richiesto: l’evasività e la laconicità fanno smarrire l’obiettivo della conversazione, e la ridondanza è fonte di confusioni e talvolta può indurre a pensare che l’intento della comunicazione sia un altro rispetto a quello esplicito. Secondo la massima della qualità, occorre fornire un contributo appropriato, ossia quello che ci si crede essere in diritto e in dovere di fornire. In altri termini, il soggetto parlante è tenuto a dire la verità e ad effettuare affermazioni della cui fondatezza è certo. Secondo la massima della relazione, occorre essere pertinenti, senza uscire fuori tema: nel caso in cui si vada fuori tema, si vanifica il raggiungimento della comunicazione o si dà di nuovo l’impressione di voler comunicare qualcosa di diverso da quel che esplicitamente si è espresso. Infine, secondo la massima della modalità, occorre essere perspicui, ossia occorre evitare ambiguità di ogni sorta, oscurità, prolissità e caos nel modo in cui si articola il proprio discorso. La trasgressione di queste quattro massime può far uscire l’interlocutore dalla strada della comunicazione: ma esse possono naturalmente anche essere trasgredite spontaneamente, caso in cui il soggetto parlante tenterà di riportare tale trasgressione all’interno del “principio di cooperazione” e la concepirà come il tentativo di suggerire qualcosa che va al di là del significato esplicito delle parole impiegate. Questa parte implicita della comunicazione viene da Grice definita come “implicatura conversazionale”, ed è dotata di tre caratteristiche ben definite: 1) la sostituibilità (anche se usualmente la si coglie intuitivamente, può comunque essere sostituita da un ragionamento); 2) la cancellabilità (può essere negata senza che con ciò si modifichino i comportamenti e gli esiti delle azioni che si sono intraprese); 3) la inseparabilità (non può venir formulata se non come è effettivamente formulata, pena il violare la massima della modalità). Appare evidente come questo modello di semantica, che tanto Grice quanto J. L. Austin incentrano sul concetto di intenzione, riduca tendenzialmente la semantica alla psicologia e si contrapponga alla concezione oggettivistica del senso fatta valere da Frege e da molti altri pensatori.