FELIX GUATTARI

 

 

 

A cura di Mai Saroh Tassinari

 

 

 

 

"Abbiamo scritto L'Antiedipo in due. Siccome ognuno di noi era parecchi, faceva già molta gente".




GUATTARINato a Villeneuve-les-Sablons a pochi chilometri da Parigi e formatosi nella capitale, Félix Guattari lavorò per circa quaran-tanni nella clinica psichiatrica d’avanguardia di La Borde da lui stesso fondata.  La sua opera più esplosiva e significativa è sicuramente L’antiedipo, scritta a quattro mani con Gilles Deleuze. “Gauchiste” dell’estrema sinistra, sposò nel suo pensiero critico psicoanalisi e marxismo. Guattari, eterno ribelle, rimase imbrigliato anche in vicende politiche italiane riguardanti l’ Autonomia degli anni ’80 a causa della sua amicizia con Toni Negri, spesso era ospitato nelle assemblee del movimento italiano e fu molto attivo nel denunciare l’avanzata della “restaurazione” in Italia. Nel nome di Félix Guattari (1930-1992) si coniugano il militante politico, lo scrittore e lo psicanalista. Muore in Francia, a 62 anni, la notte del 29 agosto 1992. La sua formazione è inclassificabile: dopo tre anni interrompe gli studi di farmacia e si iscrive alla facoltà di filosofia della Sorbona, che abbandona poco tempo dopo. Frequenta i corsi di Merleau-Ponty e di Bachelard. Come molti giovani del suo tempo, ammira profondamente Sartre. Si avvicina all’opera freudiana tramite il pensiero di Jacques Lacan. Incomincia la sua psicanalisi proprio con Lacan ed è uno dei primi a non essere un medico che partecipa al suo Seminario. Tra le altre cose, questa esperienza si rivela decisiva per la sua formazione come psicanalista. Anni dopo si unisce alla Scuola Freudiana di Parigi fondata da Lacan, presso la quale ottiene il titolo di Analista Membro della Scuola. Partecipa al gruppo fino al suo scioglimento, dichiarato dal suo fondatore il 5 gennaio 1980. La produzione intellettuale di Félix Guattari è strettamente collegata alla sua militanza politica: marxista dissidente, concepisce il pensiero come un mezzo di lotta sociale. Milita nella Voie Communiste e in diversi gruppi di sinistra. In tutta la sua produzione si respira l’atmosfera del maggio del ‘68; per Guattari, questo movimento (che definisce per primo come una “rivoluzione molecolare”) annuncia la possibilità di altri modi di soggettivazione politica e di lotta microsociale. In questo contesto, trattare la psicosi è una delle caratteristiche fondamentali del suo pensiero. Egli lavora per uarqant’anni, dalla sua fondazione nel 1953, alla Clinica La Borde con Jean Oury. A partire dalla sua ammissione come membro della squadra animatrice, svolge una serie di pratiche e di teorizzazioni che costituiscono l’inizio di quella che è correntemente chiamata analisi istituzionale. Appartengono a Guattari le nozioni di trasversalità, analizzatore, transfert istituzionale; idee adottate in seguito da istituzionalisti come Lapassade, Lourau, Lobrot, anche se Guattari rimprovera loro di averle distorte nell’introdurle nell’ambito universitario o nel classificarle nel campo della psico-sociologia. Nella prospettiva di Guattari, l’analisi istituzionale non è relazionata né alla dinamica di gruppo (Lewin), né allo psicodramma (Moreno); non è un annesso marxista alla psicanalisi, né si tratta della terapia di un gruppo di individui, o dell’analisi di una istituzione; non si riduce neppure agli impulsi trasformatori di François Toquelles (uno psichiatra catalano rifugiato in Francia in seguito alla guerra civile spagnola) e non bisogna confonderla nemmeno con le correnti progressiste francesi che enfatizzano il ruolo politico del settore. L’analisi istituzionale è per Guattari una implicazione in un processo molecolare, un intervento politico che, attraverso un dispositivo analitico di enunciazione, rivela le punte di una costellazione sociale. Nel 1964, alcuni anni prima di incominciare il suo lavoro con Gilles Deleuze, Guattari presenta una relazione che intitola La trasversalità. In essa afferma che in ogni esistenza si coniugano dimensioni di desiderio, politiche, economiche, sociali e storiche, critica la riduzione di questa molteplicità e mette in guardia contro la psicologizzazione dei problemi sociali. È consapevole del fatto che le sofferenze psicopatologiche (o i malesseri individuali, o le fratture familiari) non si possono considerare al di fuori dell’universo sociale. Suggerisce, ad esempio, che il fantasma della castrazione è un modo di regolarizzazione capitalista, un desiderio di addentare il frutto proibito e un’interiorizzazione della repressione borghese. Propone l’idea del coefficiente di trasversalità per illustrare la situazione di cecità istituzionale e descrive come le condizioni sociali intervengano nella produzione del malessere. Ad ogni modo, il pensiero di Guattari non si propone (come è stato detto) di introdurre la politica nella psicanalisi, ma di rivelare che la politica è una condizione di produzione dell’inconscio stesso. Egli ritiene che l’inconscio non sia soltanto collegato alle coordinate mitiche e familiari invocate tradizionalmente da certi psicanalisti, ma anche che si formi tra gli strati sociali, economici e politici ed è convinto che i contenuti sociopolitici dell’inconscio intervengano nella determinazione degli oggetti del desiderio. O, in altre parole, non concepisce le relazioni sociali come un di più, o un di meno, o un dopo le questioni sociali, familiari o istituzionali, ma come dei flussi meccanici con i quali l’inconscio svolge la sua funzione. In Guattari la questione della psicosi conduce al problema dell’inconscio, che a sua volta porta al problema politico. Nella serie psicosi-inconscio-politica si delineano le problematiche che creano la condizione di desiderio della soggettività; è questo (più delle volontà e dei consensi) ciò che trova un appiglio in ognuno di noi e al quale abbocchiamo come pesci all’amo. Esso è il desiderio, fame di soggettività, sete di una esistenza che non viene soddisfatta, potenza che assapora gli strani oggetti che vengono offerti nel mercato capitalista. A questo proposito, scrive (con Gilles Deleuze, nel 1972) che il problema fondamentale della filosofia politica continua a essere quello che Spinoza seppe esporre (e che Wilhelm Reich riscopre):


“Perché uomini e donne combattono per la loro schiavitù come se lottassero per la loro salvezza? Com’è possibile che si arrivi a gridare: vogliamo più tasse! Meno pane!? Ciò che sorprende non è che la gente rubi, o che faccia scioperi; ciò che sorprende è che coloro che soffrono la fame non rubino sempre e che coloro che vengono sfruttati non siano sempre in sciopero. Perché sopportiamo da secoli lo sfruttamento, l’umiliazione, la schiavitù, fino al punto di volerli non solo per gli altri, ma anche per noi stessi?”.

 

Guattari si rifiuta di supporre una ignoranza o una illusione delle masse per spiegare questo mistero e ricerca una spiegazione a partire dal desiderio:

 

“No, le masse non sono state ingannate, esse hanno desiderato il fascismo in un determinato momento, in determinate circostanze, e questo è ciò che precisa la spiegazione, questa perversione del desiderio collettivo.”

 

La militanza politica e il contatto quotidiano con la psicosi modellano queste teorizzazioni. Così come ausculta il polso politico negli stati psicotici, egli avverte anche i limiti esplicativi della psicanalisi di fronte a queste costellazioni esistenziali, prive di strutture nevrotiche:

 

“Oltre l’io, il soggetto esplode in tutto l’universo storico, il delirante incomincia a parlare lingue straniere, soffre di allucinazioni che modificano la storia; i conflitti di classe o le guerre diventano gli strumenti dell’espressione di sé”.

 

La parola sgangherata dei pazzi non esprime solo la sofferenza per un disordine psichico individuale, in ognuna di queste voci solitarie geme anche il mondo sociale. Senza dubbio, questa presa di posizione nei confronti delle psicosi non deve essere confusa con i postulati dell’antipsichiatria inglese (Cooper e Laing). In Guattari riaffiora sempre la distinzione tra alienazione mentale e alienazione sociale. Il suo interesse per la pazzia non è un elogio dell’infermità mentale; al contrario, il suo pensiero si basa sulla domanda: “come liberare la pazzia dall’infermità mentale?” O, detto con parole sue, “come restituire la potenza del senza-senso in difesa del dolore?”. Egli si rende conto che gli stati psicotici sono rivelatori del fatto che nella soggettività echeggia un mormorio di molteplicità storiche, un mormorio che a volte viene fatto tacere dai legami nevrotici e dalle convenzioni sociali. Le psicosi ci mostrano questa pazzia di flussi e di simultaneità, certo, ma il paradosso è che gli psicotici vivono in uno stato di alienazione all’interno di questo messaggio del quale sono portatori; per questa capacità di pazzia pagano il prezzo atroce dell’infermità mentale. Per Guattari scrivere è lottare, resistire, tracciare delle mappe. Ma come si possono tracciare delle mappe della soggettività? Come si possono definire delle forze che non persistono? Dei territori che mutano? Dei segni irrepetibili? Egli si chiede se le migliori mappe della soggettività o, se si preferisce, le migliori psicanalisi, non siano state fatte da Goethe, Kafka, Proust, Joyce, Artaud e Beckett, piuttosto che da Freud, Jung e Lacan. Scrive a tal proposito:

 

 “Dopo tutto, la parte letteraria nell’opera di questi ultimi costituisce ciò che di migliore rimane di essi (ad esempio, L’interpretazione dei sogni di Freud può essere considerata come uno straordinario romanzo moderno)”.

 

Guattari non si interessa all’analisi in quanto materia trattata da degli specialisti, una professione che viene esercitata da uno psicanalista e che controlla un gruppo o una scuola analitica. Si interessa a un’altra cosa: la produzione di quelli che chiama “dispositivi di enunciazione analitici”. In questo senso considera, ad esempio, Samuel Beckett uno dei più grandi analisti di tutti i tempi e spiega che, anche se a prima vista non sembra coinvolto nelle lotte sociali e politiche o preoccupato per i problemi dell’inconscio, le sue esplorazioni hanno l’effetto di un intervento analitico, perché rivelano le mutazioni micropolitiche dei nostri stati di soggettività e, nello stesso tempo, mettono in crisi i modi collettivi di semiotizzazione. Forse la schizoanalisi (altre volte denominata analisi molecolare, o approccio ecosofico) è uno dei nomi del progetto guattariano di porre la pratica psicanalitica accanto ai problemi sollevati dalle psicosi, una conseguenza tanto della perseveranza di Guattari in quanto psicanalista dissidente critico della teoria freudiana, quanto della sua posizione eterodossa riguardo il discorso lacaniano. Scrive Guattari:


“Con l’invenzione del dispositivo analitico, la modellatura freudiana apportò un arricchimento indubbio nella produzione della soggettività, un ampliamento delle sue costellazioni referenziali, una nuova apertura pragmatica. Ma si scontrò subito con suoi limiti nelle sue concezioni familiariste e universalizzanti, nella sua pratica stereotipata dell’interpretazione, ma soprattutto nella sua difficoltà a prendere una posizione che andasse oltre la semiologia linguistica. Mentre la psicanalisi concettualizza la psicosi attraverso la sua visione della nevrosi, la schizoanalisi approccia tutte le modalità di soggettivizzazione illuminate dall’espressione dell’essere nel mondo della psicosi”.

 

Tuttavia, la schizoanalisi non è una psicanalisi psicotica. Per Guattari la frattura è la via principale per intravedere l’emergere della fratturazione dell’inconscio. Nella sua prospettiva, il lapsus, ad esempio, non è solo l’espressione conflittuale di un contenuto represso, ma anche una manifestazione positiva di un universo che bussa alla nostra finestra “come un uccello magico”. Guattari non concepisce l’inconscio come una struttura, né come un’essenza fissa, né come un’entità chiusa in se stessa, né tanto meno come un cimitero vivente di ciò che è stato espulso dalla coscienza. Lo intende come una macchinazione che incomincia di nuovo ogni volta che si produce un nuovo incontro, un’incarnazione di entità distinte che si fondono le une nelle altre. Macchina di molteplicità, polifonia e eterogeneità che non si possono ridurre solamente a un fatto abituale o sporadico familiare, né a delle catene significanti o ontologie topologiche; anche se si può essere liberi di pensare (in parte) sotto l’influenza di questi schemi. Secondo l’opinione di Guattari, si tratta di scegliere tra “concezioni meccaniche” e “concezioni macchinali” di apertura processuale. Secondo lui, il problema centrale della schizoanalisi non è l’interpretazione, ma l’intervento. Dichiara che, nei limiti, ogni interpretazione “è tutto ciò che esprime e, nello stesso tempo, molto di più”. Forse si può intravedere nei suoi testi (Le tre ecologie, 1989 e Caosmosi, 1992) la postulazione di un programma totalizzante. Da un lato, nel riferimento a un pensiero che consideri allo stesso tempo (in un blocco inseparabile) l’ecologia medioambientale, l’ecologia sociale e l’ecologia mentale; e, dall’altro, rispetto alla proposta di un nuovo paradigma etico-estetico che favorisca nuovi modi di semiotizzazione. È certo che se Guattari afferma (su un fondo di incertezza) che non gli piace che le cose siano come sono, sarebbe un errore nascondere questa ignoranza radicale con la formula (o la soluzione) di uno schema super-ecologico o extra-paradigmatico. Egli offre una testimonianza straziante: reti di parentela alle quali si sciolgono i fili, consumi mass-mediatici che infettano la nostra quotidianità, comportamenti standardizzati nella vita amorosa e familiare, relazioni di vicinanza soggette alla paura e al rifiuto dell’altro, la desertificazione sociale che avanza ogni giorno un po’ di più. Riprende, ad ogni modo, le idee di serialità (Sartre) o di unidimensionalità (Herbert Marcuse), propone forme alternative alla produzione di soggettività uniformizzante ed esorta a immaginare e a inventare spazi di comunicazione collettiva di processi di singolarizzazione. Riferendosi a questo programma esistenziale, Guattari intende l’esperienza della soggettività come l’esitenza di un “estraneo in noi” che, senza dubbio, si materializza come pericolo di disintegrazione, o come terrore dell’altro, o minaccia di ciò che ci è alieno, un dolore per ciò che è estraneo in noi stessi. Per questo, Guattari si chiede in che modo un dispositivo analitico può essere “creazione, supporto e riparo dell’estraneo in noi”, ricezione ospitale dell’altro, rifugio di potenze che vibrano nell’alienazione. O, in altre parole, in che modo un dispositivo di enunciazione analitico può far spazio a vagabondaggi esistenziali espulsi dai territori restrittivi dell’io, o dalle culture di gruppo, o dal deserto mass-mediatico. Se nell’illusione di completezza si rappresenta l’essere altro come carenza, Guattari propone, in cambio, di pensarlo come progetto, come possibilità di un processo di eterogenesi nella soggettività. Una volta egli ha dichiarato:

 

“Sono uno di coloro che hanno vissuto gli anni Sessanta come una primavera che prometteva di essere interminabile. Per questo, mi risulta difficile dovermi abituare a questo lungo inverno”.       



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