L’idea a cui Habermas resterà sempre
fedele è che la ragione debba essere posta al servizio dell’emancipazione umana, secondo il progetto fatto valere
dagli Illuministi. Dal 1954, quando Habermas
comincia a occuparsi di filosofia, cerca di sviluppare una teoria critica della società, tenendo conto del
concetto di “alienazione” di Karl Marx, della critica alla tecnica di Martin
Heidegger e delle suggestioni della Scuola di Francoforte, presso la quale egli
s’è formato. Secondo Habermas, il tema della tecnica
– sottovalutato da Marx – è di importanza capitale per venire a capo del nostro
tempo: quest’idea è ben espressa nel saggio del 1954, dal titolo Die
Dialektik der Rationalisierung (tr. it Dialettica della
razionalizzazione, Unicopoli, Milano 1983). In questo scritto, il nostro
autore distingue tra “razionalizzazione tecnica”, “razionalizzazione economica”
e “razionalizzazione sociale”, prendendo le distanze dalla Dialettica
dell’Illuminismo (1947), scritta da Horkheimer e da Adorno, di cui Habermas
era assistente. Sbagliano infatti i Francofortesi a sostenere che il filosofo
critico deve mettere alla berlina la tecnica in quanto tale: egli deve
piuttosto attaccare senza tregua l’invadenza della
tecnica, un’invadenza che investe la “razionalizzazione sociale”. Secondo
Habermas (e quest’idea resterà centrale in tutto il suo pensiero successivo) la
razionalizzazione tecnica e quella economica devono essere poste al servizio di
quella sociale, e non viceversa: infatti, non è forse vero che tecnica ed
economia sono costruite in vista dell’uomo, e non viceversa?
Il grande limite ravvisato da
Habermas nel mondo moderno, a partire dal successivo Theorie und Praxis
(1963, tr. it Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza,
Roma-Bari 1969), è l’aver privilegiato unicamente l’agire tecnico-strategico,
subordinando surrettiziamente ad esso la razionalizzazione sociale.
È grazie ad Adorno che Habermas, a
partire da Literaturbericht zur philosophischen Diskussion um Marx und
den Marxismus (1957), si accosta al pensiero di Marx, nel quale
scorge un perfetto equilibrio tra teoria e prassi.
Nel 1961, esce Student und Politik,
un’indagine sociologica che Habermas svolge con altri studiosi della Scuola di
Francoforte a proposito della coscienza politica degli studenti: è assai
interessante il saggio introduttivo all’indagine, intitolato Über den
Begriff der politischen Beteiligung, nel quale il nostro autore prende in
esame la nozione di “partecipazione politica”,
chiarendo come si tratti di un concetto eminentemente “borghese” e, pertanto,
contraddittorio. La contraddizione risiede anzitutto nel fatto che il cittadino
borghese è il prodotto di precise circostanze e, al tempo stesso, vorrebbe
esserne il produttore; ma è anche contraddittorio il fatto che, nelle società
industriali avanzate, il potere economico si intrecci con quello
politico-statale, condizionandolo in maniera decisiva senza a sua volta
sottostare a un controllo democratico. La tragica conseguenza di ciò è che, nel
nostro tempo, è sparita la “sfera pubblica” (Öffentlichkeit),
tema al quale Habermas dedica lo scritto del 1962 Strukturwandel der Öffentlichkeit,
al cui cuore sta l’indagine dei “mutamenti strutturali della sfera pubblica” ai
quali allude il titolo. La sfera pubblica di cui dice il nostro autore è quella
specifica area della società borghese in cui un pubblico colto fatto di
cittadini privati dibatte di questioni collettive di vario genere, sulla
base della critica razionale e della “forza dell’argomento migliore”. La sfera
pubblica borghese lascia trasparire tutte le contraddizioni che innervano la
società borghese: prima fra tutte, la limitata partecipazione alle discussioni
pubbliche (sono infatti solo i “colti” e benestanti a poter prendere parte alla
discussione pubblica, che teoricamente dovrebbe essere aperta a tutti). Con l’avvento degli strumenti tecnici volti alla
manipolazione e al controllo delle masse, la “sfera pubblica” è andata incontro
a un ineluttabile restringimento: tali strumenti, infatti, anestetizzano
l’opinione pubblica, rendendola passiva e dipendente dai bisogni che essi
creano. Fin qui, Habermas sembra concordare coi Francofortesi: da questi
ultimi, però, egli prende le distanze nella misura in cui è convinto che un autogoverno dei cittadini basato sulla sola guida
dell’intelletto, lungi dall’essere un’invenzione perversa e
capovolgentesi nel suo opposto, è il grande portato dell’Illuminismo, al quale
dobbiamo restare fedeli. Non è vero, per Habermas, che seguendo l’intelletto ci
si trova ad avere un governo totalitario o comunque favorevole a ben precise
classi, come invece credevano i Francofortesi.