WILLIAM HAMILTON
A cura di Daniele Lo Giudice
William Hamilton nacque a Glasgow, in Scozia, l'8 marzo 1788 e morì ad Edimburgo il 6 maggio 1856. Nel 1836 divenne professore di logica e metafisica all'università di Edimburgo. La sua importanza di filosofo è strettamente legata alle Lezioni di Logica ed alle Lezioni di metafisica. Nelle prime Hamilton introdusse la quantificazione del predicato. Secondo questo principio, nelle proposizioni si deve indicare la quantità, ovvero il numero, non solo del soggetto, ma anche del predicato. Ad esempio, risulta indubbiamente più preciso affermare che Pietro, Giacomo e Giovanni furono alcuni apostoli, piuttosto che affermare genericamente che furono apostoli. Nelle Lezioni di metafisica, Hamilton effettuò una ripresa della teoria psicologica della scuola scozzese del senso comune: com’è noto, i filosofi della Scuola Scozzese (primo fra tutti Thomas Reid), ai dubbi humeani e cartesiani, rispondevano dicendo che a garantirci l’esistenza del mondo esterno e la validità della conoscenza è il senso comune, ovvero il sentimento in base al quale ciascuno crede all’esistenza delle cose esterne e del proprio io. Tuttavia, Hamilton introduce una variante alla dottrina del senso comune: infatti – egli nota - la percezione immediata non ci fa conoscere la cosa com'è in se stessa. In proposito, egli scrive:
“La teoria della percezione immediata non
implica che noi percepiamo la realtà materiale assolutamente ed in se stessa,
cioè fuori dalle relazioni con i nostri organi e le nostre facoltà; al
contrario, l'oggetto totale e reale della percezione è l'oggetto esterno in
relazione ai nostri sensi e alla nostra facoltà conoscitiva. Ma per quanto
relativo a noi l'oggetto non è rappresentazione, non è una modificazione
dell'io. Esso è il non-io - il non-io modificato e relativo, forse, ma pur
sempre non-io”. (Lectures on Metaphysics, I, 1870, p. 129)
I motivi della scuola scozzese vengono dunque da Hamilton coniugati con il
trascendentalismo kantiano, poiché se è vero che la conoscenza è data dalla
percezione immediata, è però anche vero che l’oggetto percettivo non è la cosa
come è in se stessa, bensì come è modificata dalla sua relazione con i nostri
organi conoscitivi. Ne segue allora che, kantianamente, la cosa in sé, l’Assoluto da cui la conoscenza sensibile deriva, resta del
tutto in conoscibile. Di esso si può affermare l’esistenza soltanto con
un atto di fede. Alla luce di queste
considerazioni, è evidente che Hamilton, nello sviluppare una teoria della
percezione del mondo esterno sulla base del senso comune, veniva in realtà ad
affermare esattamente il contrario; mentre i filosofi come Reid avevano detto
che noi percepiamo immediatamente l'oggetto così com'è, Hamilton diceva che
l'esistenza di un oggetto non è conoscibile nella sua assolutezza, ma solo in
modi speciali, strettamente legati a quelle che sono le nostre facoltà di
percezione e valutazione. Inoltre, le determinazioni che riusciamo ad attuare
circa gli oggetti sono il risultato di una modificazione delle nostre stesse
facoltà. In altre parole: anche Hamilton conviene nel dire che la nostra conoscenza è sempre relativa e che
l'intuizione può anche sbagliare cogliendo un determinato oggetto in una
particolare situazione, ad esempio un uomo irato o addolorato in una situazione
nella quale egli risulti alterato. Anche Hamilton si pronunciò quindi contro la
dottrina della conoscibilità dell'Assoluto, teorizzata da Schelling e da
Cousin, anche se in accordo con essi, accetta l'idea che l'Assoluto esista,
affermando altresì che la prova della sua esistenza starebbe nella credenza.
Il ragionamento di Hamilton fu, grosso modo, questo: poichè noi non possiamo
cogliere l'infinito, cioè l'Assoluto, con una percezione sensibile, noi
possiamo intuirlo o pensarlo, ma pensandolo, lo condizioniamo, mentre
l'Assoluto è, per sua stessa definizione, incondizionato. Di fronte a questo
paradosso della ragione, Hamilton, disse che "l'Assoluto non è
concepibile che come negazione della concepibilità". Tuttavia, "poichè
la sfera della nostra credenza è molto più estesa della sfera della nostra
conoscenza", quando neghiamo che si possa conoscere, siamo ben lontani
dal dire e dal pensare che non vi si debba credere. Asserendo che credere è legittimo, Hamilton, ritornò, di fatto, ai
principi della scuola scozzese. È solo nella credenza (da Hamilton intesa come
fede), infatti, che si attua quel processo per il quale l'infinito/Assoluto
rivela se stesso all'uomo. In sintesi: Hamilton fu scettico circa le
possibilità della percezione e della ragione, da un lato, ma dall'altro fu
anche un dogmatico della fede, cioè un filosofo che negava alla ricerca
filosofica qualsiasi possibilità di arrivare all'Assoluto e quindi a Dio, nei
termini propri della Rivelazione ricevuta dalla religione. In altre parole,
egli seguì una tradizione che risaliva a Duns Scoto e a Guglielmo di Ockham.
Contro Hamilton polemizzò aspramente John Stuart Mill, autore di uno scritto Esame
della filosofia di Sir William Hamilton (1865): in quest’opera, il cui
cuore è la riflessione sulla conoscenza, Mill va sostenendo che ogni nostra
conoscenza è una conoscenza di idee, le quali non hanno alcun rapporto con una
realtà estrinseca alla sfera della rappresentazione, a differenza di quel che
asseriva Hamilton: l’intero processo conoscitivo si risolve allora per Mill
nell’associazione di idee.