A cura di Mai Saroh Tassinari
Presentazione
David Hartley (1705-1757) è l’autore delle Osservazioni sull’uomo, la sua costituzione, il suo dovere e le sue aspettative (1749) – un compendio di ampio respiro sulla neurologia, la psicologia morale e la spiritualità (cioè, la nostra costituzione, il nostro dovere e le nostre aspettative). Le Osservazioni si guadagnarono devoti sostenitori in Inghilterra, in America e nell’Europa continentale, dove erano apprezzate sia per la loro scienza che per la loro spiritualità. In quanto scienza, l’opera basa la coscienza sulla neuro-fisiologia e la mente sul cervello. Su questa base, il concetto centrale di “associazione”, assai discusso tra filosofi e psicologi inglesi, è trattato a parte: il termine denomina dapprima il processo fisiologico che genera le “idee”, e in seguito i processi fisiologici per mezzo dei quali le percezioni, i pensieri e le emozioni si collegano e si fondono tra di loro. Conservando questo approccio fisiologico, Hartley offre una descrizione concettualmente nuova di come impariamo e compiamo azioni specifiche, una dimensione della natura umana, questa, che spesso viene tralasciata nelle opere di filosofia. In qualità di lavoro concernente la condizione spirituale dell’umanità, le Osservazioni proclamano la salvezza universale – la promessa che tutti, alla fine, diventeranno “partecipi della natura divina”. A questo proposito, il libro presenta un modello originale di crescita psicologica, che descrive come l’io si formi e si trasformi nella misura in cui acquisisce l’armonia con gli altri e con Dio, o, detto più semplicemente, nella misura in cui impara ad amare sia gli altri che Dio.
Biografia
Figlio di un pastore anglicano, David Hartley nacque nel giugno 1705 presso Halifax, nello Yorkshire. Sua madre morì tre mesi dopo la sua nascita e suo padre quando David aveva quindici anni. Dopo aver conseguito la laurea e il dottorato al Jesus College di Cambridge, praticò medicina a Bury St. Edmunds (1730-35), Londra (1735-42) e Bath, dove morì il 28 agosto 1757. Si sposò due volte: nel 1730 con Alice Rowley, che morì nel 1731 nel dare alla luce il loro figlio David (1731-1813); e nel 1735 con Elizabeth Packer (1713-78), nonostante l’opposizione della assai abbiente famiglia di lei. La coppia ebbe due figli, Mary (1736-1803) e Wincombe Henry (1740-94). Anche se afflitto da calcoli alla vescica, Hartley visse una vita piena e attiva: praticò medicina, si impegnò nella ricerca matematica, cercò una cura per i calcoli, si dedicò a progetti intellettuali e filantropici e scrisse le Osservazioni sull’uomo.
Reazioni alle Osservazioni sull’uomo
Nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, le Osservazioni furono valutate molto positivamente dalle persone facenti parte dei circoli del dissenso religioso, del progresso scientifico e della riforma sociale. Nel 1774 Joseph Priestley, filosofo materialista ed eminente scienziato, scrisse che le Osservazioni “contengono una nuova e più ampia scienza” e promise che “il loro studio […] sarà come entrare in un nuovo mondo”. Aggiunse: “ritengo di essere io stesso maggiormente in debito nei confronti di questo unico trattato che verso tutti gli altri libri che ho mai letto; eccetto le Sacre Scritture”.
Priestley e gli altri Unitari diedero alle Osservazioni un posto centrale nel curriculum di studi delle università dissenzienti. (Per essere ammesso alle università di Oxford e Cambridge, uno studente doveva aderire alle dottrine della Chiesa di Inghilterra – una richiesta che escludeva gli Unitari, che non accettavano che Gesù fosse Dio; da qui il bisogno di avere delle istituzioni accademiche proprie). Da un resoconto, apprendiamo che in una di queste università dissenzienti gli studenti leggevano e analizzavano quest’opera per due ore, ogni mattina. Inoltre, negli ultimi anni del 1700, i radicali di Cambridge e Oxford ne possedevano anche loro delle copie.
Così le Osservazioni erano al centro di uno studio prolungato e di una elevata considerazione – secondo Prestley, questo era il libro più importante, dopo la Bibbia. Il poeta Samuel Taylor Coleridge, convertito all’Unitarismo Prestelyano a Cambridge, si fece ritrarre con una copia delle Osservazioni in mano e chiamò il suo primo figlio David Hartley Coleridge. Altri scrittori offrono simili testimonianze.
Mentre gli ammiratori di quest’opera la consideravano “una nuova scienza” della natura umana, i suoi critici – tra cui Thomas Reid, esponente della Scuola scozzese, e il Coleridge degli ultimi anni, non più il giovane radicale – la ritenevano concettualmente erronea e moralmente pericolosa. Ad esempio, Sir James Mackintosh, che pure lodò appassionatamente “lo straordinario valore del sistema di Hartley”, vedeva che nel suo credo la coscienza derivava dai processi neurologici un “errore […] più profondo e più sostanziale di qualsiasi altro”, che avrebbe sicuramente “avvolto tutta la natura nel buio e nella confusione”.
Durante il diciannovesimo secolo, James Mill, John Stuart Mill e William B. Carpenter (i quali avevano tutti studiato le Osservazioni in facoltà dissenzienti), assieme ad Alexander Bain, fondarono la scuola di pensiero nota come “psicologia associativa” e ritenevano che Hartley fosse stato il precursore della scienza che essi avevano sviluppato. Ad ogni modo, John Stuart Mill scrisse nella Prefazione all’edizione del 1869 dell’Analisi dei fenomeni della mente umana di suo padre che, in confronto, le Osservazioni non erano “nient’altro che un semplice abbozzo, anche se molto suggestivo”. Difficilmente questa dichiarazione poteva essere considerata come una raccomandazione a leggere il libro sul quale i Mill avevano trascorso così tante ore da studenti. Perché guardare il canovaccio, quando era disponibile il ritratto terminato?
Alla fine del XIX secolo, l’unitarianismo priestleyano, in quanto tradizione di pratica filosofica, era scomparso; i filosofi accademici, specialmente quelli educati nella Scuola scozzese del “senso comune” (la filosofia ufficiale insegnata, ad esempio, dagli Unitari che dirigevano Harvard), sapevano che le Osservazioni si basavano su di un errore di fondo, e gli psicologi associativi conservavano solo più un ricordo sbiadito del precursore della loro scienza. L’interesse iniziale per quest’opera, che a suo tempo era stata letta, analizzata, discussa nelle lezioni universitarie, citata in articoli e libri, era svanito. L’ultimo che si raffrontò con le Osservazioni in maniera approfondita fu William James nei suoi Principi di psicologia, e anche in questo caso a un lettore disattento potrebbe sfuggire tale riferimento.
Nel XX secolo, le Osservazioni sono rimaste al di fuori del curriculum filosofico: coloro che studiavano filosofia potevano seguire un cammino ben battuto, a partire dagli “empirici inglesi” fino a Kant, senza fermarsi a prenderle in considerazione. E anche se qualcuno lo avesse voluto, sarebbe stato difficile, perché dopo le edizioni del 1749, 1775, 1791, 1810 e 1834, e le traduzioni in francese (1755 e 1802), tedesco (1772) e italiano (1809), non ne vennero pubblicate altre. Oggi sono disponibili delle ristampe in brossura di edizioni precedenti, ma non esiste nessuna edizione critica moderna. Nel suo Secondo trattato sul governo, John Locke fece la celebre affermazione secondo la quale “il lavoro determina la proprietà”. È il lavoro delle persone nei campi della filosofia che definisce un testo filosofico in quanto “proprietà” – che ne delinea i confini e ne definisce il valore. Ma un’opera che è rimasta al di fuori dell’economia pedagogica della filosofia contemporanea, come le Osservazioni, dimora in una posizione ambigua. Se oggi una persona prendesse in mano questo libro, si ritroverebbe con un trattato riguardante una costellazione di argomenti. Come determinarne l’appartenenza? E come rispondere al quesito economico: qual è il suo valore? Per poter porre queste domande, immaginiamo come uno dei colleghi di Hartley, un Membro della Royal Society, possa aver reagito all’apparizione del libro nel 1749.
Le Osservazioni – Un primo approccio
Un membro della Royal Society che avesse frequentato regolarmente la società londinese, sarebbe sicuramente stato a conoscenza di Hartley e avrebbe saputo che egli era uscito vittorioso da una controversia medica pubblica dieci anni prima, la quale aveva confermato la sua reputazione nei circoli medici sia in Inghilterra che sul continente. Hartley, con Stephen Hales, aveva ricercato la base chimica per ciò che essi ritenevano un rimedio popolare efficace per i calcoli della vescica – una condizione estremamente dolorosa e pericolosa che affliggeva Hartley stesso e molti altri, tra cui Benjamin Franklin. Durante la controversia, Hartley aveva pubblicato una descrizione rivelatrice delle prolungate e intense sofferenze che aveva sopportato mentre era sotto trattamento. Il membro della Royal Society sarebbe stato a conoscenza del fatto che questo orfano, figlio di un pastore dello Yorkshire, era divenuto un fisico di successo, che, in parte grazie a mecenati potenti (tra i quali la famiglia Cornwallis e il duca di Newcastle, che era anche primo ministro), in parte grazie al suo secondo matrimonio, era venuto in possesso di un considerevole patrimonio, e che si era dedicato a vari progetti filantropici, tra cui la pubblicazione del sistema stenografico ideato dal suo amico, John Byrom. Se il membro della Royal Society avesse conosciuto Hartley come amico, avrebbe saputo che era un matematico con uno speciale interesse per la statistica, un violinista dilettante e un vegetariano che credeva che gli animali avessero una “stretta relazione” con gli esseri umani. Lo avrebbe conosciuto nei panni di marito e padre (a differenza di Cartesio, Locke, Hume e Kant). Sarebbe stato al corrente del fatto che spesso soffriva di dolori atroci ed era in pericolo di vita a causa dei calcoli; e avrebbe saputo che era un uomo dal credo religioso profondamente anticonvenzionale. Prendendo in mano le Osservazioni, tale lettore avrebbe visto che il libro si presentava come scienza newtoniana – sia attraverso l’uso del termine “Osservazioni” nel titolo (cfr. due testi altamente innovatori, gli Esperimenti e osservazioni sull’elettricità di Franklin, 1751, e gli Esperimenti e osservazioni di diverso tipo sull’aria di Priestley, 1774), sia attraverso la struttura geometrica dei paragrafi e dei corollari che definiscono il testo. Se avesse sfogliato le sezioni introduttive, avrebbe visto che Hartley aveva scritto per un lettore già familiare con i concetti tecnici di, ad esempio, anatomia, fisiologia e di fisica speculativa dell’Ottica di Newton. Se il lettore si fosse spinto oltre le proposizioni iniziali, avrebbe incontrato elementi di un’altra tradizione, più antica: riferimenti al “perfetto auto-annullamento, e il puro amore di Dio”(2, par. 67) e citazioni di passaggi biblici riguardanti la promessa di diventare “partecipi della natura divina” (2 Pietro. 1.4). Tutte queste cose inseriscono Hartley negli ambiti del pietismo e del misticismo. In particolare, esse sono espressioni dell’“eterno vangelo” della salvezza universale, perché le Osservazioni prevedono il recupero di un’umanità caduta, frammentata e autoemarginata in un’umanità perfetta, in cui tutti, senza eccezione, saranno “membri del corpo mistico di Cristo” e in quanto tali diventeranno “nuovi insiemi di sensi e facoltà percettive gli uni per gli altri, in modo da accrescere a vicenda la felicità senza limiti” (2, par. 68; cfr. par. 35). Né l’approccio scientifico all’uomo, né la dichiarazione della salvezza universale erano di per sé originali. Si poteva trovare il primo nella letteratura medica e in Cartesio. Per trovare delle versioni del “vangelo eterno” si potevano considerare vari scrittori, tra i quali Peter Sterry, il cappellano di Cromwell, ne Un discorso sulla libertà d’arbitrio (1675), Jeremiah White, altro cappellano di Cromwell, ne La restaurazione di tutte le cose (1712), il visionario Jane Lead, il matematico Thomas Bayes, in Divina benevolenza (1731) e, sul continente, Charles Hector de Marsay. Ciò che contraddistingue le Osservazioni è la presenza simultanea di due approcci. Anche se Hartley afferma che l’intera persona è un “meccanismo”, soggetto allo studio scientifico, non è un ateo francese, né un La Mettrie (autore del noto L’uomo-macchina, 1748), ma una persona dalla profonda sensibilità religiosa; di conseguenza, proclama la salvezza universale, ma senza il misticismo allucinatorio di Lead o Marsay. Piuttosto, la dottrina è sorretta da un’applicazione del più recente pensiero scientifico. Se si considera il titolo intero: Osservazioni sull’uomo, la sua struttura, il suo dovere e le sue aspettative, si può comprendere come Hartley tenti di fornire una sintesi, mostrando che la “struttura” corporea, il “dovere” morale e le “aspettative” religiose convergono tutti allo stesso punto e quel punto consiste nel superamento dell’abisso tra paradiso e inferno. Si ricordi che Hartley, come altri Unitari, credeva che la divinità di Gesù e la sua espiazione dei peccati fossero dottrine che oscuravano la luce originale della Cristianità. In questo senso, una spiegazione della “salvezza” in quanto qualcosa di esterno e di immeritato non trova spazio all’interno del suo pensiero. Egli offre più che altro una descrizione scientifica di come siamo strutturati, sia fisicamente che psicologicamente, in modo da raggiungere, in ultima istanza, lo stato in cui siamo tutti “partecipi della natura divina, dando e ricevendo amore, santi e felici” (2, par. 56).
La dimensione scientifica delle Osservazioni è in parte metodica e in parte sostanziale. In quanto al metodo, Hartley propone l’indagine scientifica dell’uomo. Come già notato, questo non è un fatto originale: i fisici avevano fatto la stessa cosa da decenni e c’erano degli esempi anche nelle Passioni dell’anima (1649) e nel Trattato sull’uomo (1664) di Cartesio, e nel Trattato sulla natura umana (1739-40) di Hume, pubblicato anonimamente (anche se non c’è nessuna prova che Hartley conoscesse Hume, o che Hume conoscesse Hartley). Ad ogni modo, ciò che contraddistingue le Osservazioni è che applicano la scienza newtoniana allo studio della natura umana.
Dovremmo assumere, scrive Hartley, che le “particelle costituenti” del corpo siano “soggette alle stesse leggi ingegnose” (1, par. 9) che regolano tutte le altre entità materiali. Le leggi ingegnose sono quelle che Newton aveva suggerito nella sua Ottica e che Stephen Hales (1677-1761, ricordato oggi come il padre della fisiologia delle piante e per la misurazione della pressione sanguigna) sviluppò ulteriormente nella teoria chimica nei suoi Saggi statici. Cartesio aveva precedentemente proposto un modello di fisiologia neurale, ma nell’Inghilterra degli anni attorno al 1740 la fisica dalla quale dipendeva questo modello sarebbe sembrata superata. Hartley, al contrario, presentò una “teoria delle vibrazioni” che spiegava in dettaglio come le “particelle costituenti” che costituiscono i nervi e il cervello interagiscono con l’universo fisico postulato da Newton – un mondo costituito da “forze di attrazione e repulsione”, e avente un minimo di materia solida. Per quanto riguarda la sostanza, Hartley scrive:
“Quindi, siccome le sensazioni sono mostrate alla mente dall’efficienza delle cause individuali […] mi sembra che le facoltà di generare delle idee e di plasmarle per mezzo dell’associazione, debbano anch’esse originarsi da cause individuali e di conseguenza ammettere una esplicazione dalle sottili influenze delle piccole particelle di materia le une sulle altre, non appena queste vengono comprese in maniera sufficiente” (1, par. 11).
Si noti il linguaggio: “cause individuali”, “generare” e “plasmare” idee “tramite l’associazione”. A differenza degli “psicologi associazionisti” successivi, come James Mill, Hartley non parte dalle idee in quanto entità soggettive già presenti empiricamente nella mente, per poi chiedere come siano relazionate tra di loro. Parte, invece, da dei processi neurologici e si chiede: in che modo tali processi generano e plasmano le nostre percezioni, le nostre emozioni, i nostri pensieri e le nostre azioni? Questo è un quesito per la neuroscienza, non una versione dell’empirismo filosofico e psicologico.
Se le reazioni di un sistema nervoso al suo ambiente fisico possono generare e plasmare un’idea, possono generarne altre, tutte. Così, “l’intera superstruttura delle idee e delle associazioni osservabile nella vita umana può […] essere basata su un fondamento piccolo quanto vogliamo” (1, par. 11). Per Hartley, questo fondamento è semplice: i nervi “vibrano” (a un livello molecolare, non come corde di violino), cambiano le loro frequenze o estensioni di vibrazione e trasmettono questi cambiamenti agli altri nervi. Ma grazie al vasto numero di connessioni associative tra i nervi e all’interno del cervello, questo meccanismo fondamentale genera tutte le complessità d’azione che osserviamo negli esseri viventi – sia animali che umani.
Il primo volume delle Osservazioni termina con un’affermazione audace: se un organismo “può essere rivestito dai tipi più semplici di sensazioni, può anche giungere a tutta quell’intelligenza da cui la mente umana è posseduta” (1, Conclusione).
Tale è un’espressione dell’“errore […] più profondo e più sostanziale di nessun altro” con cui Mackintosh accusava Hartley: quello di tralasciare “la distinzione primordiale e perpetua tra l’essere che pensa e la cosa che è pensata”. Cartesio aveva mantenuto questa distinzione postulando un dualismo di corpo e mente (e considerando gli animali come meri meccanismi senza coscienza e gli umani come esseri razionali e coscienti) e, come Hume e più tardi James Mill, l’aveva rispettata scrivendo a proposito dei contenuti delle menti consce e tenendosi alla larga dalla neurofisiologia. Ma Hartley ignora la distinzione tra “pensante” e “pensato” ed afferma che i processi neurologici generano la coscienza. Secondo lui, gli animali sono esseri consapevoli, dotati di sensazioni, e, nel caso di alcune specie neurologicamente complesse, dei loro peculiari tipi di intelligenza: per questo ribadisce il loro “stretto legame” con noi, legame che ci obbliga a “essere i loro guardiani e benefattori” e che è la ragione che ci impedisce di farli soffrire per il nostro svago o il nostro utile e di ucciderli per procurarci il cibo (1, par. 93; cfr. 2, par. 52). Ciò che ci separa dagli animali sono solo delle semplici differenze di tipo neuro-anatomiche. Correggendo Locke, Hartley è convinto che non esistano idee di riflessione, ma solo di sensazione. Si accetti il fatto che “tutta quell’intelligenza di cui la mente umana è posseduta” possa essere derivata da un organismo che possiede “i più semplici tipi di sensazione”, cosa ne segue? Per molti, una linea di pensiero “che avvolge tutta la natura nel buio e nella confusione”. Per altri, tra cui Prestley, la via per “entrare in un nuovo mondo” di scoperta scientifica libera dal dualismo di spirito e materia.
Il punto di partenza di Hartley è l’organismo vivente e più precisamente le “vibrazioni” fisiche presenti nel cervello, nel sistema nervoso e nell’universo con cui interagisce l’organismo. A questo punto, seguono due importanti considerazioni: la prima è che le sensazioni e le idee sono dei prodotti, non delle cose scontate, perciò richiedono una spiegazione; la seconda implica l’ammissione del fatto che gli organismi sono degli esseri attivi. Come altri animali, gli uomini si muovono, esplorano e interagiscono all’interno del loro ambiente; inoltre, diventano esperti nel compiere svariati tipi di azioni altamente specializzate come, ad esempio, suonare il violino. Le “idee” che gli umani hanno servono in gran parte per guidare tali pratiche. Riguardo la prima considerazione, anche se l’associazione è un concetto centrale nelle Osservazioni, non è solo un nome per definire il processo per cui semplici e discrete entità empiriche si congiungono tra di loro, ma indica anche il processo dell’associazione neurologica che genera le idee, incluse le nostre categorie della percezione. Nel paragrafo 11, Hartley afferma che “le idee, e le mini-vibrazioni, devono prima essere create […] per poi poter essere associate.” Aggiunge:
“Ma poi (cosa degna di nota) questo potere di plasmare le idee e le loro mini-vibrazioni corrispondenti, presuppone in ugual maniera il potere dell’associazione. Poiché, siccome tutte le sensazioni e le vibrazioni sono infinitamente divisibili rispetto al tempo e allo spazio, potrebbero non lasciare né tracce né immagini di se stesse, cioè nessuna idea o mini-vibrazione, a meno che le loro parti infinitesimali non vengano unite dall’impressione congiunta, cioè dall’associazione” (1, par. 11).
Affermando che “tutte le sensazioni e le vibrazioni sono infinitamente divisibili”, Hartley elabora un punto esposto da George Berkley nel suo Saggio riguardo una nuova teoria della visione, secondo il quale un ipotetico essere nato privo del senso del tatto e che possiede solo la vista non avrebbe nessun concetto dello spazio e sarebbe incapace di percepire un mondo ordinato geometricamente. Per tale essere, le sensazioni sarebbero “infinitamente” – cioè arbitrariamente – divisibili e nessuna “idea” stabile e ripetibile potrebbe essere originata da esse.
Hartley concorda con Berkley anche riguardo alla soluzione di questo problema: noi percepiamo un mondo coerente grazie alla generazione di “idee” (reazioni cognitive, semantiche e pragmatiche al mondo), la quale avviene attraverso l’associazione di sensazioni provenienti da modalità sensoriali distinte – la vista, l’udito e soprattutto il tatto. Come Berkley, Hartley descrive il tatto come “la fonte principale dell’informazione rispetto alle proprietà essenziali della materia” e come “la nostra chiave principale per la conoscenza del mondo esterno” (1, par. 30) e scrive: “diamo al tatto il nome di realtà e definiamo la luce come ciò che rappresenta”. La vista “può essere considerata, in accordo con l’osservazione di Berkley, come un linguaggio filosofico per le idee della sensazione.”
Un “linguaggio filosofico” è un linguaggio “senza nessun difetto, nessuna superficialità o equivoco” e ciò che rende la vista un “linguaggio filosofico” nei confronti del tatto è che i due si corrispondono: “le stesse qualità sono create per mezzo della luce per imprimere le vibrazioni nei nostri occhi e tali qualità corrispondono in gran parte a quelle create dal tatto, così da variare in accordo con le variazioni di queste ultime” (1, par. 30). Il tatto e la vista vanno di pari passo, senza nessun movimento mancato, diverso, o equivoco. È quindi l’associazione, la correlazione dei flussi della sensazione attraverso due (o più) modalità sensoriali, in modo che le sensazioni “varino in accordo con le variazioni” le une delle altre, che spiega perché abbiamo delle idee.
Invece, una persona i cui input visuali sono dissociati dagli altri sensi, e soprattutto dal moto e dal tatto, non può identificare in maniera coerente nessuna “idea visuale”; tale è la condizione di una persona che soffre di agnosia visiva.
Questa prima considerazione porta quindi in maniera del tutto naturale alla seconda, poiché sia Hartley che Berkley, prima di lui, trattano le azioni di un essere concreto, un essere vivente le cui capacità per la differenziazione sensoriale e la categorizzazione percettiva sono tutte impiegate nei repertori delle azioni che quell’essere compie, sia innatamente che attraverso l’apprendimento.
Per molti animali, i modi in cui i movimenti fisici variano con il variare degli stimoli visuali sono relativamente fissi: i gatti balzano sui topi (alcuni di pezza) e colpiscono le farfalle (o ombre che si muovono su una parete illuminata dal sole). Per gli esseri umani, grazie all’elasticità del cervello nel formare delle associazioni, ci sono molti modi in cui le “varietà” di una sensazione “variano a seconda del variare” di un’altra: alla vista delle note su di un pentagramma, le dita si muovono in una determinata maniera sopra la tastiera di un pianoforte, ma i musicisti esperti, alla vista delle note, odono la melodia nella loro mente.
Ma come spiegare ciò che fa il musicista, o qualsiasi professionista esperto? E come si può imparare a fare ciò?
Nelle Osservazioni, Hartley offre una trattazione concettualmente nuova dell’azione fisica – un argomento per lo più assente in altri trattati, o ricerche, sulla natura umana o sull’intelletto umano. Perfino nell’Analisi dei fenomeni della mente umana di James Mill, un’opera con un debito riconosciuto nei confronti di Hartley, l’azione fisica è trattata solo nell’ultimo capitolo, “La volontà”. Ma a un attento “osservatore dell’uomo”, dovrebbe essere ovvio che viviamo compiendo atti che dipendono da repertori di movimenti perfezionati, alcuni (come camminare) imparati nell’infanzia, altri (come suonare il pianoforte) più tardi nel corso della vita.
Hartley ha inventato due parole per descrivere i movimenti fisici: “automatico” e “decomplesso”. Ha formato l’aggettivo “automatico” da un nome già esistente, “automa”, per descrivere movimenti quali “i moti del cuore e il “movimento peristaltico delle viscere”. Tali movimenti “originariamente automatici” sono omeostatici: quando un cuore batte, l’alternarsi di contrazione e rilassamento è mantenuto e modificato in risposta alle esigenze dell’organismo (1, par. 19).
Segue alla discussione del movimento “originariamente automatico” questo teorema: “se una qualsiasi sensazione A, idea B, o movimento C viene associata […] con una qualsiasi altra sensazione D, idea E, o movimento F, ciò provocherà d, la semplice idea che appartiene alla stessa sensazione D, la stessa idea E, o lo stesso movimento F” (1, par. 20). Tramite l’associazione fisica o gli impulsi nervosi nel cervello, qualsiasi sensazione, idea, o movimento muscolare può diventare lo stimolo che provoca qualsiasi altra idea o movimento muscolare; per fare un esempio, il cuore di una persona batte più velocemente alla vista, al suono, o al pensiero di qualcosa che uno ha appreso a temere.
La formazione di tali nuove associazioni di stimoli alle reazioni fisiologiche significa che i movimenti “originariamente automatici” possono diventare dei movimenti “volontari” o “secondariamente automatici” (1, par. 21).
Un’azione è volontaria quando il suo stimolo è “un’idea, o uno stato d’animo […] che noi chiamiamo volontà” (1, par. 21). Per illustrare come le idee del tipo “la volontà di …” derivano da movimenti “originariamente automatici”, Hartley descrive come un bambino acquisisce il controllo motorio di parti e funzioni del suo corpo. I movimenti “originariamente automatici” vengono controllati per mezzo di una serie di sostituzioni dello stimolo iniziale. Un bambino afferra il dito che si trova nel suo palmo, poi il giocattolo che vede e poi afferra “al suono delle parole afferra, prendi, ecc.… alla vista della mano della bambinaia ...” Queste e “altre innumerevoli circostanze simili […] indurranno il bambino ad afferrare fino a quando, alla fine, quell’idea, o stato d’animo, che possiamo definire come la volontà di afferrare, viene generata e associata a sufficienza con l’azione da produrla istantaneamente.”
È importante notare che, nella descrizione di Hartley, il compimento di un movimento volontario non è un processo a due fasi, con una “facoltà” esecutiva della Mente, la Volontà, che dapprima fornisce l’istruzione che poi il corpo esegue. Piuttosto, un movimento diventa volontario attraverso l’interazione dell’essere vivente con le “innumerevoli […] circostanze correlate” del suo ambiente e tale interazione causa una serie di sostituzioni dello stimolo iniziale. In questa luce, la “volontà” non denota nulla di concreto: è un termine usato per descrivere “un’idea, o uno stato d’animo” ed è un termine che la gente usa spesso per esprimere perplessità nei confronti di ciò a cui equivale lo “stato d’animo”. Hartley nota che gli adulti incominciano a considerare un bambino come dotato di volontà propria nel momento in cui incomincia a camminare, perché “il bambino, in alcuni casi, non cammina se non vuole, anche se le circostanze sono apparentemente le stesse di quando cammina. In questo caso la causa non palese del camminare, o del non camminare, è la volontà” (1, par. 77). Ma aggiunge: “un’attenta osservazione […] mostrerà sempre […] che quando i bambini fanno cose diverse, le circostanze reali, naturali o associate, sono proporzionalmente diverse, e che lo stato d’animo chiamato volontà dipende dalla differenza.”
Le sequenze di sostituzione trasformano le azioni originariamente automatiche in volontarie e questo processo continua fino a quando le azioni volontarie non diventano a loro volta ciò che Hartley definisce “secondariamente automatico”:
“Dopo che le azioni, che sono in tutto e per tutto volontarie, sono state rese tali da un tipo di associazioni, possono essere rese, da un altro tipo, dipendenti dalle più piccole sensazioni, idee e movimenti, talmente piccole che la mente le considera appena, o non ne ha quasi coscienza […]. Ne consegue che l’associazione non solo muta le azioni automatiche in volontarie, ma anche quelle volontarie in automatiche, poiché queste azioni […] sono da attribuire più al corpo che alla mente […]. Li chiamerò movimenti automatici del secondo tipo per distinguerli da quelli che sono originariamente automatici e da quelli volontari” (1, par. 21).
Si pensi a quando si impara a suonare uno strumento: dapprima si sviluppa un insieme di movimenti volontari, ma la bravura richiede che i movimenti siano secondariamente automatici.
Per i suoi critici, soprattutto Reid e il Coleridge più maturo, la dedizione di Hartley al “meccanicismo” mette in dubbio la “libertà della volontà” e quindi anche la responsabilità morale. Ma dove tali critici sono intenti ad affermare il controllo esecutivo dell’io adulto sul pensiero e sull’azione, l’interesse di Hartley è l’opposto: egli parte dal bambino e si chiede: come può un bambino acquisire il controllo dei processi originariamente automatici presenti nell’infanzia? Acquisire il controllo motorio delle proprie mani? Imparare a camminare e a ballare? A suonare uno strumento musicale? A trasformare gorgheggi e grida spontanee in un discorso articolato? I suoi critici lo accusano di ridurre l’essere umano a un “mero meccanismo”, ma da una prospettiva hartleyana, il “meccanismo” delle azioni “secondariamente automatiche” è una conquista, non un dato di fatto – ed è una conquista necessaria, se uno vuol vivere appieno la propria vita.
La maggior parte delle competenze umane, anche se eseguite volontariamente, si basa su vasti repertori di azioni secondariamente automatiche; tali performance non sono routine pre-stabilite e immutabili. Quando la gente suona la musica, aggiunge dei virtuosismi alla melodia e improvvisa, se è sufficientemente abile; nel fare ciò, le azioni che essa compie sono ciò che Hartley chiama “decomplesso”.
I lettori delle Osservazioni sicuramente erano familiari con i termini “decomporre” e “decomposto” – entrambe derivate dal tardo latino decompositus, una traduzione del greco parasynthetos – in cui il prefisso de- significa “ripetutamente” o “ulteriormente”. Probabilmente conoscevano anche la parola “complesso” dal Saggio riguardo l’intelletto umano di Locke: “chiamo Complesse le idee così costituite da diverse idee semplici messe assieme; tali idee sono la Bellezza, la Gratitudine, un Uomo, un Esercito, l’Universo”.
Note ad Hartley erano sia la distinzione di Locke tra “semplice” e “complesso”, sia gli esempi in cui il prefisso de- significava “ulteriormente”. Sull’analogia tra “comporre” e “decomporre”, scrisse che le idee e le azioni possono essere sia “complesse” che “decomplesse”. Nella sua teoria, le associazioni in un’azione o un’idea complessa sono sincroniche, mentre quelle in un’azione o un’idea decomplessa sono diacroniche: nel suonare il piano, toccare il tasto FA alla vista della nota FA è un movimento complesso, mentre suonare un componimento è un’azione decomplessa.
Gli elementi di un movimento complesso e secondariamente automatico sono strettamente correlati tra di loro. Al contrario, quelli in un’azione o idea decomplessa sono associati più liberamente (1, par. 12); questa libertà rende possibile includere un repertorio di movimenti secondariamente automatici in una varietà di movimenti decomplessi – le stesse note in un numero infinito di melodie. Hartley osserva anche che le persone trovano impossibile compiere azioni decomplesse – come suonare una melodia o dire una frase – al contrario.
Le azioni decomplesse si basano su diversi tipi di movimenti complessi, che implicano l’associazione di movimenti con percezioni in una o più modalità sensoriali: alla vista delle note nel pentagramma, o al suono dei toni musicali, il pianista tocca i tasti. Nella misura in cui una persona diventa abile in un tipo di azione decomplessa, la modalità sensoriale guida può cambiare. Quando si impara a danzare, osserva Hartley, in principio “l’alunno desidera guardarsi i piedi e le gambe, in modo da giudicare dalla vista se sono in una posizione giusta”, ma “per gradi apprende a giudicare dalle proprie sensazioni” (1, par. 77). In maniera simile, un musicista provetto suona l’arpa grazie alla “connessione di diverse parti complesse dei movimenti decomplessi” ( 1, par. 21).
Hartley improvvisò con il linguaggio in maniera da strutturare una nuova visione dell’azione umana. L’uso di una parola divenne … automatico. L’altra non entrò mai nell’uso comune. In una parola in cui “decomporre” significa “guastare”, questo era il destino. Tuttavia, manchiamo di una parola all’altezza di esprimere il concetto che delinea il termine “decomplesso”.
La descrizione di Hartley conferisce un’attenzione particolare alla dipendenza delle nostre capacità per l’intenzionalità, la flessibilità e l’innovazione delle nostre azioni decomplesse dai repertori di azioni che abbiamo reso secondariamente automatiche. La descrizione si incentra perciò su di un aspetto fondamentale: “tutte le nostre facoltà volontarie dipendono dalla memoria” (1, par. 90).
Secondo Hartley, veniamo al mondo sapendo già compiere movimenti “originariamente automatici”; grazie all’attività del nostro cervello e dei nostri nervi, questi movimenti sono auto-regolatori e omeostatici, sensibili alle retroazioni del corpo e agli stimoli esterni. Poi, crescendo, acquisiamo il controllo volontario su alcuni dei nostri movimenti, perfezioniamo quelli che diventano secondariamente automatici e impariamo a compiere azioni decomplesse che ricorrono ai repertori delle componenti secondariamente automatiche. Secondo la teoria di Hartley della natura umana, il concetto di “associazione di idee” ha un ruolo centrale, ma gli esempi paradigmatici dell’associazione sono, in primo luogo, le “impressioni congiunte” che generano le “idee” (inclusi i movimenti complessi) e, in secondo luogo, i flussi continui di movimento che costituiscono le azioni decomplesse. Tali azioni decomplesse hanno una funzione centrale nelle vite che conduciamo e, cosa più importante, tra le azioni decomplesse si trovano anche le frasi che diciamo.
Il linguaggio è un’attività motoria altamente “decomplessa” che implica la consolidazione delle associazioni tra i suoni percepiti e quelli emessi e, per la persona colta, tra i segni percepiti ed emessi. Ulteriori connessioni devono essere fatte tra i suoni percepiti o emessi e le caratteristiche del mondo, soprattutto tra le azioni proprie e quelle altrui. L’approccio di Hartley è quasi l’opposto di quello di Locke, che scrive come se il linguaggio fosse un dizionario in cui ogni parola denota un idea già nota prelinguisticamente a chi parla e che sosteneva che “essendo le parole dei segni volontari, non possono essere segni volontari assegnati da chi parla a delle cose che non conosce […]. A meno che non abbia qualche idea propria, egli non può supporre che questi segni corrispondano alle idee che ha un’altra persona, né può usare alcun segno per esprimerle”.
Così, mentre Locke sembra affermare che gli individui prima hanno delle idee e poi si affidano al linguaggio per comunicarle agli altri, Hartley descrive un processo per cui, da bambini, borbottiamo, gridiamo e ascoltiamo, poi gradualmente acquisiamo il controllo dei nostri borbottii e delle nostre grida, che associamo con ciò che sentiamo, tocchiamo e facciamo e infine apprendiamo il significato di ciò che diciamo. Ancora una volta, il processo dell’associazione – che in questo caso consiste nell’attività di ascoltare e parlare, e più tardi in quella di leggere e scrivere – genera le idee: noi abbiamo delle idee perché usiamo il linguaggio in interazioni sociali concrete; non creiamo il linguaggio per esprimere delle idee che, in quanto individui, abbiamo già.
A questo proposito, si consideri l’affermazione di Hume secondo la quale se non siamo sicuri riguardo il significato di una parola “abbiamo bisogno di ricercare da quale impressione derivi tale idea” e il suo suggerimento di tralasciare le parole che mancano di tali derivazioni. Dal punto di vista di Hartley, questo è evidentemente un cattivo consiglio.
Infatti, per lui le idee complesse e decomplesse sono insiemi che non “hanno nessuna relazione con i loro componenti”. In modo particolare, “l’idea decomplessa che appartiene a ogni frase non è composta solo dalle idee complesse che appartengono alle parole presenti in essa” (1, par. 12). Il significato di un enunciato appartiene al tutto – al compimento di una specifica azione decomplessa in un contesto sociale e pragmatico. Inoltre, “sia i bambini che gli adulti apprendono le idee che appaiono in intere frasi per molte volte e in maniera sommaria e non aggiungendo le une alle altre le idee delle varie parole presenti in una frase.” Di conseguenza, i bambini e gli adulti non istruiti trovano difficile “separare le frasi nelle parole che le compongono” (OU 1, par. 80).
In questo modo, il significato delle frasi non è semplicemente deducibile da quello delle parole che le compongono e i significati di quelle parole non sono deducibili dalle “impressioni” alle quali si riferiscono. Quando i bambini incominciano a parlare enunciano delle “frasi” che, anche se corte (mamma!), costituiscono delle espressioni complete e significative, ma è solo quando imparano a leggere che realizzano che le frasi sono composte da singole parole. Con il tempo, le frasi aumentano in decomplessità nella misura in cui le persone partecipano alle attività della vita. Da adulti, si impiegano, nel parlare, una varietà di espressioni altamente decomplesse – tra le quali, ad esempio, quelle riguardano la pratica di una scienza o di una religione.
Dopo aver affermato che il significato è una proprietà di espressioni complete, Hartley ribadisce subito dopo che le parole singole spesso mancano di significati definiti, tuttavia tale indefinitezza non è, secondo lui, un difetto, ma piuttosto una preziosa caratteristica del linguaggio. Egli scrive che il linguaggio è “una sorta di algebra”, e che l’algebra “non è nient’altro che un linguaggio […] particolarmente adatto per spiegare grandezze di ogni tipo” ( 1, par. 80).
La qualità algebrica del linguaggio è importante soprattutto nella pratica scientifica: come x e y in algebra, i termini scientifici quali le “vibrazioni” di Hartley o le “particelle” dei fisici contemporanei stanno per delle incognite, al confronto delle quali le corde vibranti e i granelli di sabbia non sono che delle libere analogie assai ingannevoli. La presenza di questi termini specifici è necessaria per la pratica della scoperta scientifica; gli scienziati li per discernere correlazioni e schemi che altrimenti potrebbero passare inosservati: “relazionare una quantità incognita corrisponde, in filosofia, all’arte di dare dei nomi […] e poi di inserire questi nomi […] in tutte le enunciazioni di un fenomeno, per vedere se, da un paragone di questi termini gli uni con gli altri, possa risultare qualcosa di definito in maniera, grado o mutua relazione” (1, par. 87).
In tale pratica scientifica, più algebriche – vale a dire libere da associazioni con le “impressioni” sensoriali – sono le parole, meglio è (in questo senso, “quark” è una brillante scelta). Perciò il consiglio di Hume di usare solo termini che si riferiscano a “impressioni” chiare, se seguito, condurrebbe la pratica della scienza a una stasi.
Ad ogni modo, l’utilità delle parole per esprimere delle incognite dipende dal loro uso appropriato nell’ambito di pratiche in via di sviluppo. Per esempi su come condurre una ricerca scientifica, Hartley si affida ai metodi matematici e ne include un’analisi esaustiva nel paragrafo 87 del volume I delle Osservazioni, intitolato: “Dedurre le regole per l’accertamento della verità e l’avanzamento della conoscenza dai metodi matematici che considerano la quantità”.
Una deduzione implica il raffronto dell’investigazione scientifica all’uso della regola dell’ipotesi errata in matematica: “in questo caso si ottiene una prima ipotesi che, anche se non accurata, si avvicina tuttavia alla verità. Dall’applicazione di questa alle equazioni si deduce una seconda ipotesi, che è più vicina alla verità di quanto non lo fosse la prima; da questa se ne deduce una terza e così via…”. Hartley aggiunge che “questo è il modo in cui l’innovazione scientifica viene portata avanti e gli scienziati sono consapevoli che è e deve essere così” (1, par. 87).
“Non elaboro ipotesi”. Così aveva scritto Newton nei Principia e Hartley replica direttamente: “è inutile obbligare un ricercatore a formulare delle ipotesi” ( 1, par. 87). Si ricordi che Hartley era un fisico praticante; sulla base di sintomi ambigui e di una conoscenza medica fallibile egli “elaborava delle ipotesi” ogni giorno nel fare delle diagnosi. Quindi, per lui, la questione riguarda il grado di fiducia che possiamo riporre nelle nostre ipotesi. Come facciamo a misurare quanto fosse lontana la nostra “prima ipotesi” dalla verità, se non sappiamo cosa sia la verità? E come possiamo misurare di quanto sia diminuito il margine d’errore della seconda e della terza?
A questo proposito, ciò che è più interessante nel paragrafo 87 è l’analisi della probabilità. Sembra che Hartley avesse fatto parte di un piccolo gruppo di matematici che leggevano, e capivano, dei documenti che fornirono dei contributi fondamentali alla teoria della probabilità di Abraham De Moivre (1667-1754) e Thomas Bayes (1792-61). De Moivre aveva sviluppato un teorema che permetteva di determinare il grado di convergenza tra la frequenza di eventi osservati e l’implicita percentuale di probabilità, per ogni numero finito di eventi; ma, ciò che era più importante, è che questo teorema forniva anche “la soluzione al problema opposto. Infatti, esso cerca di determinare le percentuali di probabilità che possono essere dedotte dagli esiti osservati e fornisce una (ancora dubbia) base per la deduzione statistica. Nella sua analisi della teoria della probabilità e di altri argomenti matematici, Hartley è interessato soprattutto ai metodi per passare dall’osservazione alla spiegazione, per valutare la verosimiglianza – la credibilità – delle ipotesi.
Egli, come Hume, pensava che la fiducia fosse in gran parte una questione di sentimenti. “L’assenso razionale” è una questione di forza dell’associazione tra una frase (o addirittura delle parole in essa!) e la parola “vero” (1, par. 86). “L’assenso pratico”, la volontà di una persona di agire, dipende dalla vividezza dell’affermazione, la quale può perfino far sì che “un evento interessante, ma probabilmente dubbio, o addirittura fittizio, […] appaia reale”, ottenendo in tal modo l’assenso razionale. (Hartley nota con sarcasmo che “la base dell’assenso è ancora la stessa. Qui descrivo solo il fatto.”) Ma non si accontentò di fermarsi qui, al livello di un esponente dello scetticismo urbano. La fiducia e l’assenso sono materia di sentimenti, sì, ma ci sono anche dei modi matematici di pensare alle probabilità della fiducia. (Quante sperimentazioni di un trattamento non testato per i calcoli alla vescica sono necessarie prima di raggiungere un livello minimo di fiducia nei risultati?) Da questo punto di vista, è giusto affermare che Hartley fu uno dei primi Bayesiani.
Un’altra conseguenza dell’approccio pratico e “algebrico” di Hartley al linguaggio riguarda la validità di linguaggi alternati. Nel linguaggio “popolare” che usiamo tutti i giorni, parliamo di scelte, intenzioni e risoluzioni, ma nel linguaggio “filosofico” delle Osservazioni, Hartley propose di pensare in termini di “necessità filosofica” – secondo la quale ogni azione “volontaria” è “generata da una circostanza correlata” ( 1, par. 70). Alcune persone non sanno che farsene di un tale tipo di discorso, perché ai loro occhi nega la libertà (e quindi l’esistenza) della volontà. Hartley ritiene che l’uso di due linguaggi incommensurabili, “popolare” e “filosofico”, non sia un problema, a patto che vengano usati separatamente e coerentemente: “difficoltà insormontabili insorgeranno” solo “se mescoliamo questi linguaggi” (2, par. 15), poiché entrambi funzionano solo nel proprio ambiente di pratica.
Hartley aveva un valido garante per questo suo approccio affermativo ai linguaggi nella sua formazione scientifica e matematica: Newton scrisse i Principia nel linguaggio della geometria, ma “i principi matematici della filosofia naturale” potevano ugualmente (e meglio?) essere espressi nel linguaggio “algebrico” del calcolo – per il quale c’erano vari segni grafici convenzionali. In maniera simile, Hartley sosteneva un nuovo tipo di “segni grafici” per la lingua inglese – la stenografia del suo amico John Byrom, che egli vedeva come una riforma che avrebbe reso il linguaggio scritto più simile a quello “filosofico”. Quando incominciò a lavorare alle Osservazioni, concepiva questo progetto come una dimostrazione del fatto che i linguaggi riguardanti “l’interesse personale”, “il bene comune” e “la volontà di Dio” erano modi diversi per dire la stessa cosa; il progetto si rivelò così molto più morale e religioso che scientifico.
Come già notato, Hartley riteneva che tutte le persone alla fine sarebbero diventate “partecipi della natura divina”, come prevedeva “l’eterno vangelo” della salvezza universale. Inoltre, egli cercava di mostrare che l’unione di tutta l’umanità nel “corpo mistico di Cristo” era un processo inerente alla nostra natura: la dinamica psicologica dell’associazione, che genera le nostre idee e perfeziona i nostri movimenti secondariamente automatici, ha anche “la tendenza di porre rimedio allo stato di coloro che hanno mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male, riconducendoli verso una condizione paradisiaca” (1, par. 14). La domanda è: in che modo l’associazione compie tutto ciò?
Per capire come sia possibile, dobbiamo analizzare in maniera più precisa (1) il concetto di associazione, (2) la nozione di Hartley di “trasferimento” e (3) le serie di orientamenti che l’associazione e il trasferimento generano. Nel fare ciò, dovremmo tenere a mente che molti di coloro che hanno studiato le Osservazioni nelle accademie dissenzienti sembrano aver valutato Hartley soprattutto in quanto teorico e modello morale, a causa della sua descrizione del cammino di trasformazione morale.
(1) Abbiamo già ricordato la collaborazione di Hartley con il suo amico Hales per scoprire una cura per i calcoli alla vescica. In accordo con Newton, Hales credeva che le “forze di attrazione e repulsione” fossero alla base della natura fisica e attraverso vari esperimenti chimici dimostrò che le concrezioni solide, inclusi i calcoli, erano composti che avevano racchiuse in essi notevoli quantità d’aria, che di solito sono segno di una forza altamente repellente. L’aria all’interno del calcolo poteva essere fatta uscire, e la pietra disciolta, tramite una reazione con un agente che avrebbe cambiato il pH dell’urina. Tali agenti chimici sono numerosi in laboratorio; i due uomini ne stavano cercando uno che si potesse ingerire senza correre rischi. Nei suoi Saggi di statistica, Hales ipotizza che l’aria sia un componente in molte “sostanze animali, vegetali e minerali”. Una particella apparentemente inerte di materia contiene al suo interno forze di attrazione e di repulsione in equilibrio dinamico (da qui la prontezza delle particelle di far sì che i nervi “vibrino”). In tali particelle le concrezioni e le dissoluzioni avvengono in continuazione; i materiali all’interno dei corpi degli esseri viventi formano, dissolvono e formano di nuovo – “in tal modo questa meravigliosa struttura può essere mantenuta”.
Hartley applica questi concetti chimici anche alla psicologia. In analogia alle forze di “attrazione” e di “repulsione”, egli scrive riguardo le “associazioni” e le “contro-associazioni” che generano la struttura del sé di una persona. Il ruolo dell’associazione è ovvio: attraverso l’associazione genera le “idee”, delle quali fanno parte i movimenti complessi che sono alla base delle azioni decomplesse che compiamo ogni giorno. Come vedremo tra breve, le associazioni psicologiche formano (“modellano”) gli orientamenti fondamentali del sé. Ma le “contro-associazioni” sono ugualmente importanti; nei nostri sogni, ad esempio, esse sono “particolarmente d’aiuto nell’interrompere il corso delle nostre associazioni. Perché, se fossimo sempre svegli, alcune associazioni accidentali verrebbero consolidate dalla continuità e niente in seguito potrebbe dividerle, la qual cosa sarebbe una pazzia” (1, par. 91). Una mente sana, quindi, è “mantenuta in un continuo circolo di produzione e dissoluzione” e cioè in un equilibrio dinamico di unione e distacco, memoria e dimenticanza, che conserva la possibilità di cambiamento e trasformazione.
(2) Abbiamo notato nell’analisi dell’azione che, secondo la teoria di Hartley, un bambino acquisisce il controllo volontario sul suo corpo per mezzo di una serie di sostituzioni. Tale serie di sostituzioni, o “trasferimenti” di emozione, formano il carattere di una persona. Ad esempio, Hartley fornisce una descrizione dettagliata e affascinante di come il gesto spontaneo per il quale un bambino spaventato e abusato alza la mano per respingere una percossa diventa, attraverso una serie di tali trasferimenti, la percossa che l’adulto violento dirige. accecato dalla rabbia, verso un bambino indifeso (1, par. 97). In questo caso, i legami per i quali la paura viene trasferita, e trasformata in rabbia, includono elementi situazionali, simbolici e semantici: ad esempio, “i segnali e i simboli” di una percossa imminente – la bottiglia di gin, o le parole violente e affettuose, le maledizioni e i baci, che accompagnano l’ebbrezza.
(3) Hartley fornisce un modello originale di sviluppo psicologico: i vari stati emotivi (“gioie e dolori”) che proviamo si dividono in “sei classi”: l’immaginazione, l’ambizione, l’interesse personale, la comprensione, la teopatia e il senso morale. Queste classi si dividono in due gruppi di tre, ognuno dei quali è costituito da due orientamenti fondamentali e da un mezzo per regolarli.
Il primo gruppo è costituito dall’immaginazione, l’orientamento verso gli oggetti e le fonti di piacere o di dispiacere, e dall’ambizione, per cui il piacere o il dolore derivano dalla propria consapevolezza di trovarsi di fronte agli occhi degli altri. In questo gruppo l’interesse personale è l’io, che tenta di controllare e di soddisfare le richieste dell’immaginazione e dell’ambizione. Il secondo gruppo unisce la comprensione, l’orientamento dell’intersoggettività personale, e la teopatia, la relazione personale con il divino (sembra che “teopatia” sia un neologismo di Hartley). Il senso morale (che all’epoca era un termine molto diffuso) è il “regolatore” della comprensione e della teopatia, è un io più elevato, o un sé, che si trova al di sopra dell’io.
La struttura psicologica dei gruppi è epigenetica e trasformativa. Allo stesso modo delle descrizioni degli psicologi del ventesimo secolo quali Maslow, Erikson e Kohlberg, la teoria di Hartley delinea un processo di sviluppo morale come conseguenza delle trasformazioni del sé.
Il processo è epigenetico nel senso che gli orientamenti che precedono “modellano” quelli che seguono. Un bambino, ad esempio, prova un piacere derivato dall’immaginazione quando gioca con dei giocattoli nuovi, ma quando il piacere si trasferisce allo status che deriva dall’essere percepito dagli altri come un (bravo) bambino che ha una collezione di giochi costosi, allora sta sperimentando un piacere derivato dall’ambizione; quindi l’immaginazione e l’ambizione “modellano” l’interesse personale, nella misura in cui il bambino soppesa i piaceri e i dispiaceri, i pro e i contro, di giocare con i giochi o di tenerli su uno scaffale, in mostra. Il problema resta anche più tardi nella vita, quando il piacere degli oggetti acquistati proviene più dal loro valore simbolico che dal loro uso effettivo. Questo è in particolare il caso degli acquisti fatti per soddisfare i piaceri derivati dall’ambizione – dall’essere considerati come il tipo di persona che può possedere una Mercedes, o che riesce a stare al passo con le mode che cambiano freneticamente.
Un altro fatto che contribuisce alla formazione epigenetica del sé è che l’immaginazione, l’ambizione e l’interesse personale generano inevitabilmente delle contro-associazioni – esperienze di dolore o di indifferenza laddove ci si era aspettati il piacere. L’indulgenza nei piaceri dell’immaginazione, scrive Hartley, spesso “porta gli uomini a un grado tale di sollecitudine, ansia e timore per le cose più piccole da far sì che si affliggano da soli dei tormenti più grandi di quelli che potrebbe inventare il più crudele dei tiranni” (2, par. 54). Lo stesso vale per l’ambizione: stare al passo con le “ultime” mode (che si tratti di auto, vestiti, o filosofi) è assai faticoso e provoca ansia.
“Fin dalla nascita incominciamo, e dobbiamo incominciare, la pratica dell’idolatria delle cose esterne e, col procedere del nostro cammino, continuiamo con l’idolatria di noi stessi” (2, par. 4). Così, alcuni accumulano i loro sacrifici per tutta la vita; in altri, le inevitabili e dolorose contro-associazioni agiscono da solvente e finiscono con il disintegrare gli idoli di pietra. In questi ultimi, la comprensione e la teopatia sostituiscono l’immaginazione e l’ambizione in qualità di “obiettivi primari”, di modi fondamentali di esperienza e interazione. Hartley definisce questa trasformazione “l’annullamento del sé”.
Questo “annullamento” non è simile a quello mistico, ma piuttosto è una scoperta di un sé più elevato formato dalla comprensione, dalla teopatia e dal senso morale; esso implica la liberazione da ciò che William Blake chiama “le catene forgiate dalla mente” di un inferno che ci si è creati da soli, per potersi finalmente risvegliare nella propria vera umanità.
Una volta “modellati” gli orientamenti più elevati, essi “modellano nuovamente” quelli inferiori. Per la persona per cui la comprensione e la teopatia sono gli obiettivi principali, l’immaginazione e l’ambizione restano dei modi di interazione, ma modi che sono stati trasformati. A questo punto, la bellezza può essere scorta in persone e cose che precedentemente erano state considerate con indifferenza o disgusto, e la propria felicità e le proprie speranze possono essere relazionate alla felicità di persone che prima si cercava di evitare.
Ciò non significa che la vita diventi più semplice, anzi, Hartley descrive questo percorso come sempre più difficile. Anche se profondamente ottimista riguardo il futuro ultimo dell’umanità – dopo tutto, descrive come l’associazione tenda “a porre rimedio allo stato di coloro che hanno mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male, per ricondurli a una condizione paradisiaca” – è profondamente consapevole dei molti sentieri secondari dell’autoinganno e dell'autodistruzione. È soprattutto conscio dei pericoli che affrontano coloro il cui obiettivo principale è quello di essere comprensivi, teopatetici e moralmente saggi: tali persone possono sviluppare “un’indole amaramente persecutoria” (1, par. 97). In generale, più è alto il livello del conseguimento morale e spirituale, più grande è il rischio di una distruzione rovinosa. A questo proposito, nel leggere Hartley si riscontra una visione della natura umana come profondamente travagliata, in lotta contro se stessa – una visione simile a quella che si trova in Dostoyevsky o Kierkegaard.
Anche se Hartley ritiene che la “comprensione” e la “teopatia” siano degli orientamenti fondamentali, essi non hanno necessariamente un contenuto positivo. Egli non afferma che tutti sono gentili con gli altri, o che tutti amino Dio. In alcuni questi modi sono meramente patologici e la teopatia spesso è sviluppata solo in maniera rudimentale. Nell’affermare che “si possono osservare le associazioni accumularsi sulla parola Dio”, nota che queste hanno inizio con la “falsa idea” che i bambini si creano quando “suppongono che Dio sia un uomo che non hanno mai visto” e che terminano, per molte persone, quando questa idea “viene cancellata senza che niente dalla natura stabile e precisa prenda il suo posto” (1, par. 98). Molti adulti vivono con sentimenti di paura, avversione, noia e, a volte, ardente desiderio, rivolti verso un vuoto – un quadro mentale dal quale è stata cancellata l’immagine centrale.
Il modello del sé di Hartley in termini di immaginazione, ambizione e interesse personale e, in seguito, di comprensione, teopatia e senso morale, è dinamicamente complesso. Nella sua psicologia morale, le emozioni sono come delle cariche elettriche che saltano facilmente da un oggetto, un simbolo, una parola, o un pensiero all’altro. Tramite tali “trasferimenti” di emozione, sei orientamenti sviluppano i loro contenuti; come delle concrezioni fisiche, si uniscono; allo stesso modo, le energie emotive sono legate assieme e quando la forza in una è sufficientemente potente, l’orientamento diventa “l’obiettivo primario” della persona: richiede l’accrescimento del piacere.
Tuttavia, il modello non è statico, con il sé che si fossilizza in “un unico ammasso inattivo” perché, grazie all’interazione delle associazioni e delle contro-associazioni, i sei orientamenti si “modellano” e “rimodellano” a vicenda. I corpi psicologici sono, come Hales disse dei corpi vegetali e animali, in “un continuo circolo di produzione e dissoluzione” – fino a quando, secondo Hartley, tutti scopriranno la propria identità in quel “corpo mistico” dove “tutti hanno uguale cura della felicità propria e altrui; tutti provano più amore, e si realizzano pienamente, creando l’umanità perfetta, per mezzo della quale ogni gioia viene dispensata” (2, par. 68; cfr. Efesini 4.16).