HEGEL INTERPRETE DELLA MODERNITÁ.

 

 

 

 

1.    La filosofia della storia

 

La filosofia della storia non è altro che la sua considerazione pensante: e il pensiero è appunto ciò che non possiamo omettere mai[1].

 

 

 

 

Ancor prima di addentrarci nella lettura che Georg Wilhelm Friedrich Hegel dà della modernità nelle sue lezioni berlinesi raccolte dai suoi allievi sotto il titolo Lezioni di filosofia della storia, sarà bene soffermarsi, seppur cursoriamente, sulla concezione di “filosofia della storia” elaborata dal nostro autore: e ciò anche alla luce del fatto che la filosofia della storia, al pari della filosofia della scienza, è una delle principali scoperte di quella modernità di cui ci proponiamo di chiarire il senso. Infatti, non elaborarono una filosofia della storia né i Greci, che nel corso storico scorgevano una sequela episodica di eventi sconnessi privi di un senso ultimo e dunque tali da sfuggire all’indagine di una filosofia avente per oggetto l’universale, né i Cristiani, che tutt’al più maturarono una “teologia della storia” nei termini agostiniani del “procursus civitatis Dei”. Pertanto, è solo con la modernità , e in particolare col Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni di Voltaire, che si assiste al sorgere della “filosofia della storia”, ossia al tentativo di interpretare la storia concependola come un processo razionale e in vista di un fine ultimo alla luce del quale acquistano un significato anche i singoli eventi che costellano il corso storico e che, almeno a prima vista, parrebbero frutto del caso. Che la filosofia della storia sia, se non la cifra, sicuramente uno dei tratti essenziali della modernità, lo confermano anche i Postmoderni, i quali individuano uno dei molteplici sensi del “post-moderno” nell’esplosione della storia in una miriade di storie al plurale, nella sua perdita di un significato tale da giustificare una filosofia della storia.

Nella sua introduzione alle lezioni sulla filosofia della storia, Hegel esordisce ponendo l’attenzione sul fatto che il tentativo di trattare filosoficamente la storia potrà sembrare bizzarro, forse una contraddizione in termini: e ciò in forza del fatto che la storia ha per oggetto i singoli fatti ed è tanto più “vera” quanto più si attiene soltanto al dato, senza spingersi oltre, mentre la filosofia persegue con la ragione l’opposto obiettivo di mirare all’universale. Per sfuggire a questa contraddizione, che era stata lucidamente colta dai Greci, Hegel chiarisce come “la ragione governi il mondo”[2], innervandolo dall’interno, in maniera immanente: “la storia del mondo è solo la manifestazione di questa unica ragione, una delle particolari forme in cui essa si rivela”[3]. Così intesa, la storia non sarà se non il dispiegarsi nel tempo di quella stessa ragione che regge il mondo e, pertanto, l’accadere storico potrà essere esaminato filosoficamente.

L’obiettivo principale – e in Hegel assume quasi la forma di un’ossessione – che il filosofo della storia deve porsi è di “eliminare l’accidentale”[4], il caso, gli eventi privi di senso: e, strettamente connesso a questo obiettivo, v’è quello di rinvenire il “senso ultimo del mondo” a cui tende il corso storico nel suo sviluppo. Per questo motivo, specifica Hegel, bisogna convincersi che il contenuto della storia del mondo è razionale e volto a un fine preciso: ciò sfugge agli “occhi fisici”, che nella storia registrano soltanto il caso,  ma deve essere colto dall’“occhio del concetto”[5], che, valicando i confini della “superficie”, si spinge in profondità e rinviene il senso situato al di là del groviglio dei singoli accadimenti. In una simile prospettiva, le passioni umane e le alterne vicende che coinvolgono i popoli e che risaltano più d’ogni altra cosa a chi si accosti con gli “occhi fisici” alla storia sono, per chi invece osserva con l’“occhio del concetto”, secondarie rispetto allo “spirito” che produce e governa tutti quegli accadimenti.

La prima categoria con la quale si trova a operare il filosofo della storia è quella del mutamento: la storia, infatti, è lo scenario in cui si avvicendano, in un succedersi instancabile, popoli, stati, individui, forze. In particolare, Hegel, convinto che “la storia non è il terreno della felicità”[6], intende questo alternarsi in senso catastrofistico, come un succedersi di tragedie e di violenze, di soprusi e di calamità che intessono l’esistenza di popoli e nazioni non di rado nascendo dalle migliori intenzioni. Ma dalle ceneri dei popoli e delle nazioni si vedono rinascere nuovi e più alti popoli e nazioni: è da questa constatazione, e in particolare dal fatto che “dalla morte sorge nuova vita”[7], che il filosofo della storia desume la sua seconda categoria, il “ringiovanire dello spirito”[8].

Inoltre, aggirandosi tra le “rovine della storia”[9], in quel “mattatoio” che fa a pezzi quanto di bello l’uomo produce nel corso del suo sviluppo, il filosofo della storia non può non porsi la domanda fondamentale: qual è il fine di tutto ciò? A che scopo tanti sacrifici? In questo modo, si infrange la superficie “sonante”[10] dei fatti storici per salire al più alto e “silenzioso”[11] livello della razionalità che sta dietro ai singoli eventi. La ragione in cerca di uno scopo nell’accadere storico è la terza categoria con la quale deve operare il filosofo della storia: cercando il senso della storia nascosto dietro i tanti singoli accadimenti che ne costellano il corso, la ragione scopre che il mondo è retto da una provvidenza interna, immanente, che la governa non dall’alto (com’era nella concezione cristiana), bensì dall’interno. Si tratta evidentemente, come meglio di ogni altro ha colto Karl Löwith[12], di una “secolarizzazione” della teologia cristiana.

Quale fine della storia, Hegel indica il dispiegarsi dell’idea della libertà umana: la libertà a cui fa riferimento il nostro autore è intesa come la “sostanza”[13] di uno spirito che “tende a perfezionare la sua libertà”, con la conseguenza che la storia è il dispiegarsi nel tempo di questi tentativi. Inoltre, la filosofia della storia assume la forma di una “teodicea secolarizzata”, nella misura in cui mira a farsi una ragione del male nel mondo e garantisce che alla fine il male non riuscirà a imporsi.

Lo spirito è, sì, individuale: ma nella storia esso assume natura universale, determinandosi in un popolo come Volkgeist[14] rispetto al quale le individualità scompaiono e debbono essere considerate solamente nella misura in cui “traducono in realtà ciò che vuole lo spirito del popolo”[15].  E lo spirito del popolo è uno spirito particolare – che si manifesta in un popolo tramite la sua cultura, la sua arte, le sue istituzioni – ma, insieme, è l’assoluto spirito universale, il Weltgeist[16] che, quando un popolo ha esaurito tutte le sue possibilità e tramonta, risorge in un nuovo popolo. Così nel mondo orientale, nel quale lo spirito non è ancora pervenuto alla coscienza della propria libertà, solo uno è libero (il principe); nel mondo greco e romano, nel quale sta sorgendo l’idea di libertà, solo alcuni sono liberi; infine, nel mondo cristiano-germanico tutti diventano liberi.

Di fronte alla storia intesa come il dispiegarsi progressivo dell’idea di libertà, il filosofo della storia deve anche domandarsi di quali mezzi essa si serva: Hegel spiega che, accanto agli “individui conservatori”, il cui valore risiede nell’essere conformi alla spirito del mondo, vi sono “individui cosmico-storici”, ossia personaggi fuori dal comune (Alessandro Magno, Cesare, Napoleone), che con lungimiranza capiscono che, al di sotto della superficie, sta avvenendo un mutamento, ossia che l’attuale spirito del popolo ha esaurito le sue possibilità, ha fatto il suo tempo ed è soltanto un “guscio”[17] che racchiude una nuova essenza: questi personaggi spezzano il guscio e, col loro agire rivoluzionario, fanno salire in superficie ciò che “già esiste nell’intimo”[18]. Ma essi, lungi dall’agire – come pure credono – spontaneamente, sono manovrati come burattini dall’“astuzia della ragione”[19], che si serve di loro come strumenti per far avanzare il Weltgeist verso nuove e più alte forme di libertà.

 

 

2. La modernità: il nuovo Zeitgeist

 

Il sommo e il vero sussistono ora nel sentimento della conciliazione realizzata. L’umanità ha acquistato il senso della effettiva conciliazione dello spirito in se stesso, e una buona coscienza nella realtà sua propria, nella mondanità[20].

 

 

 

Chiarita, nelle sue coordinate essenziali, la filosofia della storia hegeliana, possiamo ora esaminare quale posto il filosofo tedesco assegni alla modernità. E lo faremo anche in riferimento alla Fenomenologia dello spirito, del 1807, alla luce del fatto che parecchi temi affrontati in questo testo ritornano (alcuni invariati, altri declinati diversamente) nelle Lezioni sulla filosofia della storia

Nella prospettiva di Hegel, la modernità non è né un “processo”, alla maniera della weberiana razionalizzazione che porta al disincantamento del mondo[21], né un “atteggiamento”, secondo la concezione propria di Michel Foucault[22], ad avviso del quale il Moderno sarebbe l’atteggiamento critico che, nato con Socrate e culminato nella figura del “parresiasta” Diogene il Cinico, mai ha smesso di manifestarsi nel corso della storia.

Piuttosto, per Hegel – e in fondo il suo giudizio è, in ciò, molto vicino al nostro senso comune – la modernità è un’epoca dai contorni ben definiti, alla quale si può riconoscere una precisa data di nascita: è infatti con la fine del Medioevo che si ha quello che il nostro autore chiama “il trapasso all’Età moderna”, il cui esordio deve essere riconosciuto nell’Età umanistica e il cui traguardo va ravvisato nella contemporaneità hegeliana e, soprattutto, nel raggiunto dispiegamento del fine della storia: il pieno sviluppo della libertà.

Nel tentativo di comprendere quale sia la cifra della modernità, Hegel segnala quelli che a lui paiono i tratti essenziali della nuova epoca: in primo luogo, egli intende il Moderno come una vera e propria “conversione” dal cielo alla terra; una conversione in forza della quale vengono abbandonati gli astrattissimi cieli della metafisica platonico/aristotelica e, soprattutto, della religione che aveva dominato l’Età medievale, e nasce un nuovo interesse per l’aldiqua, per l’uomo nella sua mondanità e nella sua finitezza.        

Una seconda caratteristica del Moderno, fortemente intrecciata con la prima, è il sorgere di quella che Hegel chiama la Weltweisheit[23], il “sapere mondano” incentrato su una verità che acquista vita nella realtà del mondo: un sapere antropocentrico che non ha più nulla a che vedere con quei filosofemi degli Antichi e dei Medievali troppo ambiziosamente volti a cogliere le eterne essenze del mondo o Dio stesso. Questo “espandersi dello spirito, questo desiderio dell’uomo di conoscere la sua terra”[24] si configura specificamente come emancipazione dal principio di autorità e rinascita della curiosità socraticamente intesa come brama di conoscere ogni cosa.

A ciò è connessa la terza peculiarità del Moderno: lo “svegliarsi della coscienza” in contrapposizione al letargo in cui era sprofondata durante il Medioevo, contro il quale Hegel polemizza incessantemente. Anche le Lezioni sulla filosofia della storia, non meno della Fenomenologia dello spirito, sono innervate da una profonda avversione per il Medioevo, nel quale il nostro autore scorge un momento di caduta, di smarrimento e di negatività. Nella Fenomenologia dello spirito, Hegel intendeva il Medioevo come l’epoca della “coscienza infelice”[25] (unglückliche Bewußtsein), nella quale l’uomo vive la scissione tra il finito e l’infinito, tra la propria autocoscienza e la divinità; in forza di questa scissione, la vita “è soltanto dolore”[26] causato dalla consapevolezza della “propria nullità”[27] dinanzi all’infinita grandezza del divino.

Su questa scia, nelle Lezioni sulla filosofia della storia, Hegel spiega come la modernità debba essere intesa come “l’aurora, che, dopo lunghe tempeste, annunzia per la prima volta un bel giorno”[28], in opposizione a quella “lunga, terribile, gravida di conseguenze, notte del Medioevo”[29].

Questo, che alla nostra storiografia contemporanea pare un pregiudizio inveterato degno d’essere combattuto, era, nel contesto romantico/idealistico in cui Hegel è vissuto, in un certo senso una “novità”: contrapponendosi a tutti i Romantici, che avevano tessuto le lodi del Medioevo come epoca della notte e del divino (pensiamo anche solo a Cristianità o Europa di Novalis), Hegel (inaugurando una lunga tradizione che giunge almeno fino a Giovanni Gentile) scorge nel Medioevo il momento in cui la coscienza umana si nega, smarrisce la propria libertà e cerca fuori di sé la propria essenza, provocando la propria stessa infelicità.

Così inteso, il Medioevo è, per l’appunto, una “notte” non tanto nel senso poetico attribuito da Novalis, quanto piuttosto in quello – decisamente più polemico – di un’epoca di buio e di sonnolenza per la coscienza umana, incapace di esprimere le proprie potenzialità: lo spuntare del giorno avviene, come abbiamo visto, col “trapasso all’Età moderna”, in cui l’uomo guadagna l’autocoscienza, è caratterizzato da uno spirito che si sa libero e che, venuta meno la scissione che dilaniava la “coscienza infelice”, ha trovato una perfetta conciliazione con se stesso, mondanizzandosi e ottenendo una completa autonomia che però, almeno in un primo momento, non si capovolge in ribellione contro il divino.

Se interroghiamo ancora una volta la Fenomenologia dello spirito, vi troviamo spunti interessanti: in particolare, Hegel spiega come, con la modernità, la ragione riacquisti fiducia nelle proprie possibilità e renda possibile l’unificazione della coscienza, la quale si rende così conto della propria assolutezza e può avanzare la pretesa di comprendere in sé la realtà nella sua interezza. L’autocoscienza viene a coincidere con la ragione stessa e consegue la “certezza di essere ogni realtà”[30], ricomprendendo entro sé il momento del divino che, nel Medioevo, aveva inteso come un qualcosa di esterno e superiore.      

Si tratta ora di analizzare, in concreto, quali siano le realizzazioni in cui si esprime lo Zeitgeist della modernità che abbiamo sommariamente tratteggiato.

 

 

 

3.    Le realizzazioni della modernità e i suoi momenti principali

 

Siamo ormai giunti al terzo periodo dell’impero germanico, e con esso entriamo nel periodo dello spirito che si sa libero, in quanto vuole ciò che è vero, eterno, universale in sé e per sé[31]. 

 

 

 

Come abbiamo visto sviluppando la concezione hegeliana della filosofia della storia, la modernità è l’epoca in cui lo spirito giunge a destinazione, rendendo finalmente possibile la libertà di tutti gli uomini. Le tre tappe in cui il nostro autore scandisce la modernità sono la Riforma protestante, il periodo a essa successivo e l’Illuminismo: ciascuna di queste tappe fornisce uno sviluppo particolare dello Zeitgeist moderno, producendone specifiche realizzazioni.

La prima realizzazione della modernità su cui Hegel sofferma la propria attenzione è l’arte: essa è un momento di importanza capitale perché lascia affiorare in modo particolarmente chiaro la perfetta conciliazione con se stesso a cui è pervenuto lo spirito. L’arte dell’Età umanistica, infatti, (e Hegel cita le Madonne di Raffaello) è espressione sensibile del puro spirituale e, al tempo stesso, rende bello il sensibile, che il Medioevo aveva tendenzialmente liquidato come momento negativo.

In seconda battuta, Hegel prende in esame la riscoperta dei Classici e l’invenzione della stampa come momenti che testimoniano della curiosità e della volontà di sapere propri dei Moderni, concentrando l’attenzione anche sul destino della Chiesa: con l’avvenuta autonomia dello spirito, dal 1400 in poi, essa non ha più nulla da dire e da quel momento “resta indietro rispetto allo spirito del mondo”[32] e si capovolge in corruzione, volgarità, ipocrisia e superstizione, frenando lo spirito anziché accompagnarlo nel suo sviluppo.

L’inaggirabile conseguenza a cui si doveva pervenire era la Riforma operata da Lutero e favorita dalla particolare “intimità dello spirito tedesco”[33], inappagato dalla superstizione corrotta in cui era precipitata la Chiesa di Roma: in particolare, Lutero è inteso come figlio legittimo della modernità, nella misura in cui sofferma la propria attenzione non su Dio ma sul rapporto che l’uomo intrattiene con Lui, confermando quello spirito antropocentrico e attento al soggetto tipicamente moderno. Inoltre, Lutero segna un momento importante nell’eticità, nel mondanizzarsi del cristianesimo e del suo messaggio (tutti gli uomini sono liberi).

Alla Riforma s’accompagna quella scissione della Cristianità che trova nelle lotte di religione il suo momento culminante: da esse scaturisce il consolidamento dei governi e la differenziazione tra le varie nazioni, le quali vengono da Hegel qualificate come individui aventi un’unica volontà.

È attraverso questa differenziazione che comincia a svilupparsi un complesso sistema di Stati, che Hegel divide in “romanici” e “germanici”: il nostro autore tenta anche di cogliere lo spirito dei vari popoli europei, qualificando i Francesi come pensatori e spirituali, gli Italiani come artistici, solari e individualisti, gli Scandinavi come cavallereschi, gli Inglesi come industriali e, al vertice, i Tedeschi come uomini dell’interiorità e del giusto agire.

Sul piano culturale, dopo la Riforma sorge il periodo “della cultura formale dell’intelletto (Verstand)”[34] inteso come facoltà di distinguere le parti della realtà, scomponendola e mostrandone le singole porzioni indipendenti le une dalle altre: in forza di questa “ragione osservativa”[35] (così la chiamava Hegel nella Fenomenologia dello spirito) e in opposizione alla Chiesa, prende a svilupparsi la scienza sperimentale e, col cogito di Cartesio che, ancora una volta, pone l’accento sul soggetto e finisce addirittura per identificarlo tout court col pensiero , nasce la filosofia moderna. Le stesse guerre perdono il loro carattere ideologico/religioso e diventano sempre più guerre politiche.

A questo punto, spiega Hegel, si giunge all’Età dei Lumi, al “nostro mondo”[36].

A tutta prima, è con l’Illuminismo che la modernità sembra trovare la sua massima espressione, nella misura in cui l’uomo trova in sé “il vero contenuto”[37], ogni attività è ricondotta sotto l’egida della ragione ed è rimossa ogni autorità che non sia la ragione umana. Addirittura, con l’esperienza del “dispotismo illuminato”, la ragione umana sale sul trono e regge lo Stato. Di conseguenza, è con l’Illuminismo che, dopo il lungo e tortuoso viaggio della storia, dovrebbe giungere a compimento il pieno dispiegamento della libertà. Eppure non è così: memore della Fenomenologia dello spirito, il nostro autore scorge nell’Illuminismo e, in particolare, nei suoi esiti – la Rivoluzione francese – la più perversa delle realizzazioni della modernità, il suo punto di non ritorno.

Abbiamo già accennato a come, in definitiva, l’Illuminismo non faccia altro che condurre a uno sviluppo radicale tutti i principali portati del Moderno: nella fattispecie, la ragione assume il controllo di ogni cosa e tutto è rimandato al suo giudizio, che è un giudizio critico e dissacrante. Infatti, la ragione – meglio: l’intelletto (Verstand) – pensa l’universale astratto (il giusto, il buono,  l’equo, e così via) ma finisce poi per trovare dinanzi a sé soltanto l’individuale concreto: quest’ultimo, naturalmente, contrasta con l’universale astratto e, in forza di ciò, la ragione si fa “violenta” nei confronti dell’esistente, nel quale mai rinviene i propri principi astratti e chimerici. Anziché cogliere la realtà nella sua totalità unitaria e concreta, l’intelletto illuminista la frantuma in una molteplicità di aspetti parziali e astratti.

Ed è per questo motivo che l’Illuminismo non può che portare alla Rivoluzione francese, alla pura violenza contro ogni esistente: a differenza dei Tedeschi, che con Kant hanno trovato nella teoria la loro libertà e sono appagati dalla rivoluzione che hanno compiuto nel Cinquecento con Lutero, i Francesi desiderano una libertà che non sia soltanto teorica, ma anche pratica, seguendo in ciò gli ammaestramenti di Rousseau.   

Ma l’Illuminismo e la Rivoluzione si risolvono non nell’auspicata emancipazione universale, ma, perversamente, nel suo opposto, in quell’oppressione soffocante e negatrice di ogni libertà che fu il Terrore giacobino. Tutto ciò che non è ragione, viene “ghigliottinato” e annientato, nella convinzione che la ragione, là dove non scorge tracce di sé, debba annientare ogni cosa come forma di inganno da cui gli uomini debbono liberarsi.  La prima e la più grande nemica della ragione è la fede, la quale, nel momento in cui deve giustificarsi dinanzi alla ragione, è perduta. Pertanto quel terrore e quella superstizione da cui l’illuminismo doveva liberare sono stati da esso rinforzati all’ennesima potenza, in quel processo perverso che Adorno e Horkheimer etichetteranno come “dialettica dell’Illuminismo”.
Contro l’ateismo a cui inevitabilmente doveva portare l’Illuminismo, Hegel ripete, ancora una volta, che “riconciliare lo spirito con la storia del mondo e con la realtà può soltanto la nozione, che quanto è accaduto e accade ogni giorno, non solo viene da Dio e non è senza Dio, ma è essenzialmente l’opera di Dio stesso” [38].

 

 

Diego Fusaro, 17 novembre 2005.

 

 

 



NOTE

[1] G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, 1837; tr. it. Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze 1963, 4 voll., a cura di G. Calogero e C. Fatta, vol. I, p. 3.

[2] Ivi, p. 7

[3] Ivi, p. 9.

[4] Ivi, p. 8.

[5] Ivi, p. 11.

[6] Ivi, p. 82.

[7] Ivi, p. 15.

[8] Ibidem.

[9] Ivi, p. 14.

[10] Ivi, p. 16.

[11] Ibidem

[12] K. Löwith, Meaning in History, 1949; tr. it. Significato e fine della storia. I  presupposti teologici della filosofia della storia, Edizioni di Comunità, Milano 19794, pp. 73 ss.

[13] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., vol. I, p. 36.

[14] Ivi, p. 43.

[15] Ivi, p. 44.

[16] Ibidem.

[17] Ivi, p. 88.

[18] Ivi, p. 89.

[19] Ivi, p. 97.

[20] Ivi, vol. IV, p. 145.

[21] Cfr. M. Weber, Wissenschaft als Beruf, 1917; tr. it. La scienza come professione, Rusconi, Milano 1997, a cura di P. Volonté. 

[22] M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1997.

[23] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., vol. IV, p. 203.

[24] Ivi, p. 138.

[25] G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, 1807; tr. it. Fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano 1995, a cura di V. Cicero, pp. 307 ss.

[26] Ivi, p.. 309.

[27] Ibidem.

[28] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., vol. IV, p. 139.

[29] Ibidem.

[30] “Die Gewißheit alle Realität zu sein”: G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 339.

[31] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., vol. IV, p. 146.

[32] Ivi, p. 140.

[33] Ivi, p. 147.

[34] Ivi, p. 185.

[35] “Beobachtende Vernunft”: G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 347.

[36] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., vol. IV, p. 197.

[37] Ivi, p. 192.

[38] Ivi, p. 220.



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