Apparente ovvietà dell'essere
Quello di essere è un concetto ovvio. In ogni conoscere, in ogni asserzione, in ogni comportamento [che ci pone in rapporto] con l’ente, in ogni comportamento che ci pone in rapporto con noi stessi si fa uso di "essere", e l’espressione è "senz’altro comprensibile". Tutti comprendono cosa significhi: "Il cielo è azzurro", "Sono contento", e così via. Ma questa comprensione media non dimostra che un’incomprensione. Essa sta a denunciare che in ogni comportamento e in ogni modo di essere che ci ponga in relazione con l’ente in quanto ente si nasconde a priori un enigma. Il fatto che già sempre viviamo in una comprensione dell’essere e che, nel contempo, il senso dell’essere continua a restare avvolto nell’oscurità, attesta la necessità fondamentale di una ripetizione del problema del senso dell’"essere".
Hölderlin e il colloquio
L'essere dell'uomo si fonda nel linguaggio (Sprache); ma questo accade (geschieht) autenticamente solo nel colloquio (Gespràche). [...]Ma che cosa significa allora un "colloquio"? Evidentemente il parlare insieme di qualcosa. in tal modo che il parlare rende possibile l'incontro. Ma Hölderlin dice: "da quando siamo un colloquio e possiamo ascoltarci l'un l'altro". Il poter ascoltare non è una conseguenza che derivi dal parlare insieme, ma ne è piuttosto, al contrario, il presupposto. Ma anche il poter ascoltare è in sé a sua volta orientato in relazione alla possibilità della parola e di essa ha bisogno. Poter discorrere e poter ascoltare sono cooriginari. Noi siamo un colloquio, e questo vuol dire: possiamo ascoltarci l'un l'altro. [...] Ma l'unità di un colloquio consiste nel fatto che di volta in volta nella parola essenziale è, manifesto quell'uno e medesimo su cui ci troviamo uniti, sul fondamento del quale siamo uniti e siamo quindi autenticamente noi stessi. Il colloquio, con la sua unità, sorregge il nostro esserci.
Il modo di essere della verità e la presupposizione della verità
L'Esserci, in quanto costituito dall'apertura, è essenzialmente nella verità. L'apertura è un modo di essere essenziale dell'Esserci. "C'è" verità solo perché è fin che l'Esserci è. L'ente è scoperto solo quando, ed aperto solo fin che, in generale, l'Esserci è. [...]Se si muove dal modo di essere della verità esistenzialmente intesa, diviene comprensibile anche il senso della presupposizione della verità. Perché noi dobbiamo presupporre che c'è la verità? Che significa "presupporre"? Che stanno a significare "dobbiamo" e "noi"? Che significa "c'è la verità"? "Noi" presupponiamo la verità non come qualcosa che stia "al di fuori" e "al di sopra" di noi e a cui noi ci rapporteremmo come ci rapportiamo ad altri "valori". Non siamo noi a presupporre la "verità", ma essa è ciò che rende ontologicamente possibile che noi possiamo esser siffatti da "presupporre" qualcosa. E' la verità che rende possibile qualcosa come il presupporre.
La comprensione dell'essere e l'esserci nell'uomo
La comprensione dell'essere, definita così, in pochi tratti, si mantiene sul piano senza scosse e senza pericoli della più pura evidenza. E tuttavia, se la comprensione dell'essere non avesse luogo, l'uomo non sarebbe mai in grado di essere l'ente che è, anche qualora fosse dotato delle più straordinarie facoltà. L'uomo è un ente che si trova in mezzo all'ente, e vi si trova in modo tale, per cui l'ente che egli non è e l'ente che egli stesso è gli sono sempre già manifestati. A questo modo d'essere dell'uomo diamo il nome di esistenza. L'esistenza è possibile solo sul fondamento della comprensione dell'essere. Nel rapportarsi all'ente che egli non è, l'uomo si trova già davanti l'ente come ciò che lo sostiene, ciò cui si trova assegnato, ciò che, con tutta la sua cultura e la sua tecnica, egli non potrà mai, in fondo, signoreggiare. Assegnato all'ente diverso da lui, l'uomo non è in fondo, padrone nemmeno dell'ente che egli stesso è.
La critica a Cartesio
[...]Cartesio sa bene che l'ente non si manifesta innanzitutto nel suo essere autentico. "Innanzitutto" è dato questo pezzo di cera, che ha un certo colore, un certo sapore, che è duro, freddo e risonante. Ma tutto ciò e, in genere, ogni dato sensibile, è privo d'importanza ontologica. Satis erit, si advertamus sensuum perceptiones non referri, nisi ad istam corporis humani cum mente coniunctionem, et nobis quidem ordinarie exibere, quid ad illam externa corpora prodesse possint aut nocere. I sensi non ci fanno conoscere l'ente nel suo essere, ma denunciano semplicemente l'utilità o la dannosità delle cose presenti nel mondo "esterno" nei confronti dell'essere umano corporeo. Nos non docent, qualia (corpora) in seipsis existant. I sensi non ci informano sull'ente nel suo essere.
La "voce della coscienza"
Un'analisi approfondita della coscienza la rivela come una chiamata. Il chiamare è un modo del discorso. La chiamata della coscienza ha il carattere del richiamo dell'Esserci [semplificando: dell'uomo] al suo più proprio poter essere e ciò nel modo del risveglio al suo più proprio essere-in-colpa [...] Alla chiamata della coscienza corrisponde un sentire possibile. La comprensione del richiamo si rivela come un voler-avere-coscienza [...] Inoltre non dobbiamo dimenticare che il discorso, e quindi anche la chiamata, non implicano necessariamente la comunicazione verbale [...]. Quando l'interpretazione quotidiana parla di una 'voce' della coscienza non intende alludere a una comunicazione verbale che, difatti, non ha luogo; qui 'voce' significa 'dare a comprendere'. Nello sforzo di aprire, proprio della chiamata, c'è un momento di urto, di brusco risveglio. Chi è chiamato, lo è dalla lontananza"
Originarietà della poesia
L’essenza dell’arte è la Poesia. Ma l’essenza della Poesia è l’instaurazione [Stiftung] della verità. Instaurare qui è inteso in un triplice significato: come donare, come fondare, come iniziare. L’instaurazione è reale solo nel salvaguardare. Pertanto ad ogni modalità dell’instaurare corrisponde una modalità del salvaguardare. Qui non è possibile che delineare a larghi tratti questa struttura dell’arte, e sempre relativamente ai risultati raggiunti nella determinazione dell’essenza dell’opera.
Perché i poeti?
"... e perché i poeti [wozu Dichter] nel tempo della povertà?", chiede l'elegia di Hölderlin Pane e vino. Oggi comprendiamo a stento la domanda. Come potremo intendere la risposta che Hölderlin dà? [...]Con la venuta e il sacrificio di Cristo ha avuto inizio, secondo la concezione storica di Hölderlin, la fine del giorno degli Dei. È caduta la sera. Da quando i "tre che sono uno": Ercole, Dioniso e Cristo, hanno lasciato il mondo, la sera del tempo mondano va verso la flotte. La notte del mondo distende le sue tenebre. Ormai l'epoca è caratterizzata dall'assenza di Dio, dalla "mancanza di Dio". [...] La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le cose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli uomini in essa. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo gli Dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero.[...]Potenzialità dell'essere
La possibilità come esistenziale non significa un poter-essere indeterminato del genere della "libertà indifferente" (libertas indifferentiae). L'Esserci, in quanto emotivamente situato nel suo essere stesso, è già sempre insediato in determinate possibilità e, in quanto è quel poter-essere che è, ne ha già sempre lasciate perdere alcune; rinuncia incessantemente a possibilità del suo essere, riesce a coglierne talune oppure fallisce. Ciò significa che l'Esserci è un esser-possibile consegnato a se stesso, una possibilità gettata da cima a fondo. L'Esserci è la possibilità di esser libero per il più proprio poter-essere. L'esser-possibile è trasparente a se stesso secondo le modalità e gradi diversi.
(Heidegger, Essere e tempo)