Il nostro proposito inizia con l'esibizione di un domandare metafisico, tenta poi l'elaborazione della domanda e si conclude con la sua risposta.
La filosofia è secondo Hegel -- dal punto di vista del buon senso umano -- il «mondo invertito». La peculiarità del nostro inizio necessita dunque d'una descrizione preliminare. Essa risulta da una duplice caratteristica del domandare metafisico.
In primo luogo ogni domanda metafisica abbraccia sempre l'intera problematica della metafisica. Essa è ogni volta l'interezza stessa. Poi ogni domanda metafisica può essere formulata solo in modo che l'interrogante -- in quanto tale -- sia contemporaneamente dentro alla domanda, cioè sia posto in questione. Da qui ricaviamo un'indicazione: il domandare metafisico dev'essere posto nella sua interezza e a partire dalla situazione essenziale dell'«esserci» (Dasein) che domanda. Noi domandiamo, qui ed ora, per noi. Il nostro «esserci» -- nella comunità di ricercatori, docenti e studenti -- è decisa dalla scienza. Che cosa ci accade di essenziale nel fondo dell'«esserci» se la scienza è divenuta la nostra passione?
[2] I campi delle scienze si trovano lontani l'uno dall'altro. Il modo di trattare i loro oggetti è fondamentalmente diverso. Questa disgregata pluralità di discipline oggi viene ancora tenuta assieme solo grazie all'organizzazione tecnica di università e facoltà, e mantenuta significativa attraverso la finalità pratica delle materie. Il radicamento delle scienze nel loro fondamento essenziale è invece inaridito.
E tuttavia -- in tutte le scienze siamo in rapporto, seguendo il loro più proprio intento, con l'esistente stesso. Proprio dal punto di vista delle scienze nessun campo prevale sugli altri, né la natura sulla storia, né viceversa. Nessun modo di trattare gli oggetti è superiore all'altro. La conoscenza matematica ha solo il carattere dell'«esattezza», che non coincide con il rigore. Richiedere esattezza alla storiografia vorrebbe dire trasgredire l'idea del rigore che è specifico delle scienze umane. Il riferimento col mondo che domina tutte le scienze in quanto tali fa loro cercare l'esistente stesso, per renderlo, secondo la sua quiddità e il suo modo d'essere, oggetto d'una ricerca e d'una determinazione delle cause. Nelle scienze si compie -- secondo il loro ideale -- un venire-nelle-vicinanze dell'essenziale di tutte le cose.
Questo speciale riferimento col mondo, con l'esistente stesso, è portato e guidato da un atteggiamento liberamente scelto dell'esistenza umana. Con l'esistente è certo in rapporto anche qualsiasi azione prescientifica ed extrascientifica dell'uomo. Ma la scienza ha la sua particolarità nel fatto che, in un modo ad essa proprio, dà la prima e l'ultima parola espressamente e unicamente alla cosa stessa. In questa oggettività del domandare, determinare e motivare si realizza una sottomissione, limitata in un modo peculiare, all'esistente stesso, di modo che tocchi ad esso rivelarsi. Questo servizio della ricerca e dell'insegnamento diviene, sviluppandosi, fondamento della [3] possibilità d'una guida propria, seppure limitata, nell'intera esistenza umana. Lo speciale riferimento della scienza col mondo e l'atteggiamento dell'uomo che lo guida sono ovviamente pienamente compresi solo allorquando vediamo e afferriamo che cosa avviene nel riferimento col mondo così tenuto. L'uomo -- che è tra l'altro un esistente -- «fa scienza». In questo «fare» (treiben) accade nulla di meno che l'irruzione di un esistente, chiamato uomo, nell'interezza dell'esistente, cosicché in quest'irruzione e a causa di essa l'esistente si schiude nella sua quiddità e qualità. A suo modo, questa irruzione dischiudente procura all'esistente anzitutto sé stesso.
Queste tre cose -- riferimento col mondo, atteggiamento, irruzione -- portano nella loro radicale unità una luminosa semplicità e precisione dell'«esserci» nell'esistere scientifico. Quando prendiamo possesso espressamente dell'esistere scientifico così illuminato, dobbiamo allora dire:
Ciò a cui è diretto il riferimento col mondo è l'esistente stesso -- e nulla di diverso.
Ciò da cui ogni atteggiamento prende la sua direzione è l'esistente stesso -- e nulla di più.
Ciò con cui la discussione della ricerca accade nell'irruzione è l'esistente stesso -- e nulla oltre a ciò.
Ma stranamente -- proprio nel modo in cui l'uomo di scienza s'assicura di ciò che gli è più proprio, egli parla di qualcos'altro. Dev'essere ricercato solo l'esistente, e di diverso -- nulla; l'esistente soltanto, e di più -- nulla; unicamente l'esistente, e oltre a ciò -- nulla.
Che succede con questo nulla? È un caso che del tutto spontaneamente parliamo così? È solo un modo di dire -- e nulla di diverso?
Tuttavia, perché ci preoccupiamo di questo nulla? Il nulla proprio dalla scienza viene rifiutato e gettato via come una cosa di valore nullo. Però, quando in questo modo gettiamo via il nulla, non lo ammettiamo proprio allora? Ma possiamo parlare di un ammettere, quando nulla ammettiamo? Ma [4] forse questo andirivieni del discorso si muove già in un vuoto bisticcio di parole. La scienza deve invece ora nuovamente sostenere la propria serietà e utilità, deve sostenere che per essa è in gioco solo l'esistente. Il nulla -- che cosa può essere per la scienza se non un orrore e una fantasticheria? Se la scienza ha ragione, allora è certa quest'unica cosa: del nulla la scienza vuole sapere nulla. In fondo è questa la rigorosa comprensione scientifica del nulla. Il nulla lo sappiamo mentre di esso vogliamo sapere nulla.
La scienza vuole sapere nulla del nulla. Ma altrettanto certo è questo: laddove tenta di esprimere la propria essenza essa chiama in aiuto il nulla. Ricorre a ciò che rigetta. Quale essenza conflittuale si disvela qui?
Meditando sulla nostra esistenza di questo momento -- in quanto deciso dalla scienza -- siamo piombati in un conflitto. Attraverso di esso si è esibito un domandare. La domanda richiede soltanto di essere propriamente formulata: che succede del nulla?
L'elaborazione della domanda sul nulla ci deve mettere in grado di vedere chiaramente la possibilità o viceversa l'impossibilità della risposta. Il nulla è ammesso. La scienza lo getta via, con un'ostentata indifferenza, come ciò che «non c'è».
Nondimeno tentiamo d'interrogarci sul nulla. Che cos'è il nulla? Già il primo approccio a questa domanda mostra qualcosa d'inusuale. In questo domandare supponiamo in anticipo il nulla come qualcosa che «è» così e così -- come un esistente. Tuttavia da esso è proprio assolutamente diverso. Il domandare sul nulla -- che cosa e come esso [5] sia -- inverte l'oggetto della domanda nel suo contrario. La domanda si priva da sé del suo stesso oggetto.
Di conseguenza anche ogni risposta a questa domanda è di sua natura impossibile. Infatti essa si muove necessariamente nella forma: il nulla «è» questo e questo. Domanda e risposta sono riguardo al nulla parimenti in sé controsenso.
Dunque non è in primo luogo necessaria la confutazione tramite la scienza. La regola fondamentale e comunemente invocata di ogni pensiero, il principio di non contraddizione, la «logica» generale, sopprime la domanda. Infatti il pensiero, che è essenzialmente sempre pensiero di qualcosa, dovrebbe in quanto pensiero del nulla comportarsi contro la sua propria essenza.
Giacché così ci rimane interdetto rendere oggetto il nulla in generale, col nostro domandare sul nulla siamo già alla fine -- presupponendo che in questa domanda la suprema istanza è la «logica», che l'intelletto è il mezzo e il pensiero è la strada per afferrare originariamente il nulla e decidere sul suo possibile disvelamento.
Ma può essere attaccata la signoria della «logica»? L'intelletto è veramente il signore in questa domanda sul nulla? Solo col suo aiuto noi possiamo in generale determinare il nulla e porlo come problema, sebbene autodistruggentesi. Infatti il nulla è la negazione dell'interezza dell'esistente, semplicemente il non-esistente. Con ciò portiamo il nulla sotto la superiore determinazione di ciò che è influenzato dal «non» (nichthaft) e dunque del negato. Ma la negazione è, secondo la dominante e mai attaccata dottrina della «logica», una specifica operazione dell'intelletto. Come possiamo allora voler licenziare l'intelletto nella domanda sul nulla e anzi nella domanda sulla sua domandabilità? Tuttavia, è sicuro ciò che noi presupponiamo? Davvero il «non», l'esser negato e dunque la negazione rappresentano la superiore determinazione sotto cui il nulla cade come una particolare specie di negato? Il nulla c'è solo perché c'è il «non», cioè la negazione? O [6] viceversa, la negazione e il «non» ci sono solo perché c'è il nulla? Ciò non è deciso, neanche ancora ne è stata esplicitamente sollevata la domanda. Noi sosteniamo: il nulla è più originario del «non» e della negazione.
Se questa tesi è nel giusto, allora la possibilità della negazione come operazione intellettuale e quindi l'intelletto stesso dipendono in un certo qual modo dal nulla. Come può esso allora decidere su questo problema? In fondo, l'apparente contro-senso di domanda e risposta in riferimento al nulla non si basa semplicemente su di un cieco e ostinato senso-unico dell'intelletto divagante?
Ma se non ci lasciamo fuorviare dall'impossibilità formale della domanda sul nulla e invece vi contrapponiamo la domanda, allora dobbiamo almeno soddisfare quella che rimane l'esigenza fondamentale per poter proseguire ogni domanda. Se il nulla deve divenire, comunque ciò avvenga, oggetto di domanda -- esso stesso --, allora deve prima essere dato. Lo dobbiamo poter incontrare.
Dove cercare il nulla? Come trovare il nulla? Non dobbiamo, per trovare qualcosa, già almeno sapere che esiste? Infatti! Anzitutto e per lo più l'uomo ha la capacità di cercare solo allorquando ha anticipato la presenza sott'occhio di ciò che cerca. In fondo, c'è un cercare senza questa anticipazione, un cercare cui corrisponda un puro trovare?
Comunque ciò si possa fare, noi conosciamo il nulla, se anche solo come ciò di cui quotidianamente parliamo avanti e indietro. Questo nulla comune, che così innavvertitamente s'insinua nella nostra chiacchiera sbiadito in tutto il pallore dell'ovvio, lo possiamo sistemare addirittura seduta stante in una «definizione»:
Il nulla è la completa negazione dell'interezza dell'esistente. Questa caratteristica del nulla non dà in fondo un'indicazione nella direzione dalla quale soltanto ci può venire incontro?
[7] L'interezza dell'esistente dev'essere prima data, per potere in quanto tale cadere semplicemente sotto la negazione, nella quale allora il nulla stesso dovrebbe mostrarsi.
Però, anche se prescindiamo dal carattere problematico della relazione tra la negazione e il nulla, come dobbiamo -- in quanto esseri finiti -- rendere accessibile, in sé e per di più a noi, tutto l'esistente nella sua interezza? Possiamo tutt'al più pensare l'interezza dell'esistente nell'«idea», negare ciò che abbiamo così immaginato nei pensieri e pensarlo «negato». Su questa strada raggiungiamo sì il concetto formale del nulla immaginato, mai però il nulla stesso. Ma il nulla è nulla, e tra il nulla immaginato e quello «vero e proprio» non può dominare una differenza, giacché d'altronde il nulla rappresenta la completa mancanza di differenze. Lo stesso nulla «vero e proprio» tuttavia -- non è di nuovo quel concetto nascosto ma controsenso di un nulla che è? Sia questa l'ultima volta che le accuse dell'intelletto hanno trattenuto la nostra ricerca, che può essere dimostrata nella sua liceità solo tramite un'esperienza fondamentale del nulla.
Quanto è sicuro che non afferriamo mai assolutamente l'interezza dell'esistente in sé, tanto è certo che ci troviamo però posti in mezzo all'esistente in qualche modo svelato nella sua interezza. In fondo c'è un'essenziale differenza tra l'afferrare l'interezza dell'esistente in sé e il trovarsi in mezzo all'esistente nella sua interezza. La prima cosa è fondamentalmente impossibile. La seconda avviene continuamente nel nostro «esserci». Ovviamente sembra che proprio nell'affaccendarsi di tutti i giorni ci attacchiamo ogni volta solo a questo o a quell'esistente, come se fossimo perduti in questo o quell'ambito dell'esistente. Per quanto la vita quotidiana possa apparire frazionata, essa ancora mantiene sempre l'esistente, seppure confusamente, nell'unità della sua «interezza». Anche quando e proprio quando non siamo propriamente occupati con le cose e con noi stessi, sopravviene a noi questo «interezza», per esempio nella noia vera e propria. Essa è ancora lontana quando ci annoia semplicemente questo libro [8] o quello spettacolo, quell'occupazione o quest'ozio. Irrompe invece quando «tutto ci viene a noia» (es einem langweilig ist). La noia profonda, che come una nebbia silenziosa va di qua e di là negli abissi dell'«esserci», spinge assieme tutte le cose e gli uomini e sé stessi con loro in una strana indifferenza. Questa noia rivela l'esistente nella sua interezza.
Un'altra possibilità d'una tale rivelazione la racchiude la gioia per la presenza dell'«esserci» -- non della pura e semplice persona -- di chi si ama.
Una tale disposizione di spirito, in cui le cose per uno «sono» così e così, ci fa trovare in mezzo all'esistente nella sua interezza. La situazione dello stato d'animo non solo svela ogni volta a sua maniera l'esistente nella sua interezza, ma questo svelare è al contempo -- ben lungi da un semplice accidente -- l'avvenimento fondamentale della nostra esistenza.
Ciò che dunque chiamiamo «sentimento» non è né un fuggevole fenomeno collaterale del nostro comportamento riflessivo e volontario, né un semplice stimolo che lo causa, né un semplice stato di fatto al quale in un modo o nell'altro ci rassegniamo.
Tuttavia, proprio quando gli stati d'animo ci conducono in questa maniera davanti all'esistente nella sua interezza, essi ci nascondono il nulla che cerchiamo. Ora tanto meno saremo dell'opinione che la negazione dell'esistente nella sua interezza, rivelato secondo gli stati d'animo, ci ponga davanti il nulla. Una cosa simile potrebbe in maniera corrispondente accadere originariamente solo in uno stato d'animo che riveli il nulla secondo il suo più proprio senso disvelativo.
Nell'esserci dell'uomo avviene una simile disposizione di spirito in cui egli viene portato davanti al nulla stesso?
Quest'avvenimento è possibile e anche reale -- sebbene assai raro -- solo in attimi, nella disposizione fondamentale dell'angoscia. Con quest'angoscia non intendiamo la ben frequente ansia, che fondamentalmente fa parte della paura che fin troppo facilmente si fa sentire. L'angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. Noi abbiamo paura sempre di questo o quel [9] determinato esistente, che ci minaccia sotto questo o quel determinato punto di vista. La paura di... ha sempre paura anche per qualcosa di determinato. Poiché è propria della paura questa delimitazione di ciò che si teme e di ciò per cui si teme, colui che ha paura, in questo momento oppure abitualmente, viene tenuto stretto da ciò in cui si trova. Tentando di salvarsene -- da questa cosa determinata -- egli diviene insicuro in riferimento al resto, cioè «perde la testa» completamente.
L'angoscia non fa più sorgere una tale confusione. Al contrario, essa passa per una strana calma. L'angoscia è sì sempre angoscia di..., però mai di questo o di quello. L'angoscia di... è sempre angoscia per..., mai però per questo o per quello. Tuttavia l'indeterminatezza di ciò di cui e di ciò per cui ci angosciamo non è una semplice mancanza di determinazione, ma la sua impossibilità essenziale. Essa viene alla luce in una nota espressione.
Nell'angoscia -- diciamo -- «tutto per uno è inquietante». Che significa questo «tutto» e questo «per uno»? Non siamo in grado di dire per quale cosa tutto per uno è inquietante. Nell'interezza è così. Tutte le cose e noi stessi affondiamo nell'indifferenza. Ciò tuttavia non nel senso di un puro scomparire: ma piuttosto esse si volgono a noi nel loro spinger via in quanto tale. Questo spinger via l'esistente nella sua interezza, che nell'angoscia ci soffoca, ci opprime. Non rimane un appiglio, nessuno. Rimane soltanto e viene su di noi -- nel sottrarsi dell'esistente -- questo «nessuno».
L'angoscia rivela il nulla.
Noi «siamo in sospeso» nell'angoscia. Più chiaramente: l'angoscia ci fa essere in sospeso, perché essa porta l'esistente nella sua interezza a sottrarsi. Ciò causa il fatto che anche noi stessi -- questi enti umani -- ci sottraiamo in mezzo all'esistente. Dunque fondamentalmente tutto è inquietante non «per me» o «per te», ma «per uno». Ancora esiste solo la pura esistenza nel tremore di questa sospensione in cui a nulla ci si può aggrappare.
L'angoscia ci toglie la parola. Poiché l'esistente nella sua interezza si sottrae, e così proprio il nulla si serra, al suo cospetto tace ogni dire «è». Il fatto che nell'inquietudine [10] dell'angoscia cerchiamo spesso di rompere il vuoto silenzio parlando a caso è solo la dimostrazione della presenza del nulla. Che l'angoscia sveli il nulla lo conferma l'uomo stesso, appena l'angoscia s'è allontanata. Nella lucidità dello sguardo che porta il ricordo fresco dobbiamo dire: ciò di cui e ciò per cui ci angosciavamo era «propriamente» -- nulla. Infatti: il nulla stesso -- in quanto tale -- esisteva.
Con lo stato d'animo fondamentale dell'angoscia abbiamo raggiunto l'avvenimento dell'«esserci» in cui il nulla è evidente e a partire da cui esso deve venire domandato.
Che succede del nulla?
La risposta che per il nostro intento è la sola anzitutto essenziale è già raggiunta quando badiamo che la domanda sul nulla resti realmente posta. Per far questo è necessario che condividiamo quella trasformazione dell'uomo nella sua esistenza che ogni angoscia fa sì che accada in noi, per tener stretto, nel modo in cui esso si manifesta, il nulla che in essa è evidente. Con ciò nasce al contempo l'esigenza di tenere esplicitamente lontane le caratterizzazioni del nulla che non si siano sviluppate allorquando gli abbiamo rivolto la parola.
Il nulla si svela nell'angoscia -- ma non come esistente. Nemmeno viene dato come oggetto. L'angoscia non è un afferrare il nulla. Tuttavia il nulla diviene evidente attraverso essa e in essa, sebbene di nuovo non come se il nulla si mostrasse separatamente «accanto» a quell'esistente nella sua interezza che c'è nell'inquietudine. Dicevamo piuttosto: nell'angoscia il nulla viene incontro assieme all'esistente nella sua interezza. Che significa questo «assieme»?
Nell'angoscia l'esistente nella sua interezza viene meno. In che senso ciò accade? L'esistente non viene [11] annientato dall'angoscia lasciando così come resto il nulla. E come dovrebbe essere annullato, laddove l'angoscia si trova proprio nella completa impotenza di fronte all'esistente nella sua interezza? Piuttosto il nulla si rivela propriamente con l'esistente e nell'esistente che si sottrae nella sua interezza.
Nell'angoscia non avviene nessun annientamento di tutto l'esistente in sé, ma nemmeno compiamo una negazione dell'esistente nella sua interezza per raggiungere anzitutto il nulla. Prescindendo dal fatto che l'angoscia in quanto tale è estranea all'esplicito compimento di un'asserzione negativa, con una tale negazione, da cui dovrebbe risultare il nulla, arriveremmo anche sempre troppo tardi. Il nulla ci viene incontro già da prima. Dicevamo che esso ci viene incontro «assieme» all'esistente nella sua interezza che si sottrae.
Nell'angoscia c'è un ritrarsi da..., che ovviamente non è più un fuggire, ma una calma in preda ad un incantesimo. Questo indietro da... prende dal nulla il suo punto di partenza. Esso non attira a sé, anzi essenzialmente rifiuta. Questo rifiuto di sé è però in quanto tale un rimando all'esistente nella sua interezza che affonda, un rimando che lo fa sottrarre. Questo rifiuto nell'interezza che rimanda all'esistente nella sua interezza che si sottrae, quale avviene quando il nulla nell'angoscia stringe l'«esserci», è l'essenza del nulla: la mancanza. Essa né è un annientamento dell'esistente, né sorge da una negazione. La mancanza non può essere nemmeno associata all'annientamento e alla negazione. È il nulla stesso che manca.
Il mancare non è un accidente qualsiasi, ma, in quanto rifiuto che rimanda all'esistente nella sua interezza che si sottrae, rivela questo esistente nella sua piena estraneità finora nascosta: come il semplicemente altro -- di fronte al nulla.
Solo nella chiara notte dell'angoscia nasce l'originaria apertura dell'esistente in quanto tale: il fatto che esso è esistente -- e non nulla. Ma questo «e non nulla» aggiunto da noi nel discorso non è una [12] spiegazione successiva, ma ciò che rende preliminarmente possibile una qualsiasi evidenza dell'esistente. L'essenza del nulla originariamente mancante è nel fatto che esso porta l'esistenza anzitutto davanti all'esistente come tale.
Solo sulla base dell'originaria evidenza del nulla l'«esserci» dell'uomo può accedere all'esistente ed entrarvi. Ma in quanto l'«esserci», secondo la sua essenza, è in rapporto con l'esistente che essa non è e con quello che essa è, essa proviene in quanto tale ogni volta già dal nulla evidente.
Esistere significa: trattenimento nel nulla.
Trattenendosi nel nulla l'«esserci» è ogni volta già oltre l'esistente nella sua interezza. Questo esser fuori oltre l'esistente lo chiamiamo trascendenza. Se l'«esserci» non trascendesse nel fondo della sua essenza, cioè adesso, non si tratterrebbe già da prima nel nulla, e allora non potrebbe mai essere in rapporto con l'esistente e dunque neanche con sé stessa.
Senza un'originaria evidenza del nulla, nessun «sé», nessuna libertà.
Con ciò è raggiunta la risposta alla domanda sul nulla. Il nulla non è né un oggetto né un esistente qualsivoglia. Il nulla non compare né per sé né accanto all'esistente al quale per così dire s'appiglia. Il nulla è per l'«esserci» umano la condizione di possibilità dell'evidenza dell'esistente in quanto tale. Il nulla non offre anzitutto il concetto contrario all'esistente, ma appartiene originariamente all'essenza stessa. Nell'essere dell'esistente avviene il mancare del nulla.
Ma ora dev'essere formulata una riflessione che per troppo tempo ci siamo trattenuti dall'esprimere. Se l'«esserci» può essere in rapporto con l'esistente, e quindi esistere, solo trattenendosi nel nulla, e se il nulla diviene evidente originariamente solo nell'angoscia, non dobbiamo allora permanentemente stare in sospeso in quest'angoscia per poter comunque esistere? Ma non abbiamo noi stessi ammesso che questa angoscia originaria è rara? Ma anzitutto noi esistiamo tutti e siamo in rapporto con l'esistente [13] che noi non siamo e con quello che noi stessi siamo -- senza quest'angoscia. Non è essa una trovata arbitraria, e il nulla attribuitole un'esagerazione?
Ma che significa che quest'angoscia originaria accade solo in rari attimi? Null'altro che il nulla ci è anzitutto e per lo più dissimulato nella sua originarietà. Ma in che modo? Perdendoci noi in una maniera determinata completamente nell'esistente. Quanto più ci volgiamo all'esistente nelle nostre manovre, tanto meno lo facciamo sottrarre in quanto tale, tanto più volgiamo le spalle al nulla. E tanto più sicuramente però ci accalchiamo nella superficie pubblica dell'«esserci».
E tuttavia questo continuo volgere le spalle al nulla, sebbene ambiguo, è in certi limiti conforme al suo senso più proprio. Esso -- il nulla nel suo mancare -- ci rimanda proprio all'esistente. Il nulla manca incessantemente senza che noi, con tutto il sapere in cui ci muoviamo quotidianamente, sappiamo propriamente di quest'avvenimento.
Che cosa nel nostro «esserci» testimonia più insistentemente della negazione la continua e ampia, seppure dissimulata, evidenza del nulla? Ma la negazione non produce affatto da sé il «non» come mezzo della distinzione e della contrapposizione, aggiungendolo a ciò che è dato e quasi per così dire spingendovelo in mezzo. Come dovrebbe la negazione procurare da sé il «non», se essa può negare solo se le è già dato ciò che si può negare? E come dovrebbe ciò che si può e si deve negare poter esser visto sotto l'influenza del «non», se non perché ogni pensiero in quanto tale già da prima guarda al «non»? Ma il «non» può divenire evidente solo quando la sua origine, cioè il mancare del nulla in generale e con ciò il nulla stesso, è sottratta al nascondimento. Il «non» non nasce attraverso la negazione, ma la negazione si fonda sul «non», che sorge dal mancare del nulla. Ma anche la negazione è solo un modo dell'atteggiamento mancante, cioè fondato fin da prima sul mancare del nulla.
[14] In questo modo è dimostrata nei tratti fondamentali la tesi precedente: il nulla è l'origine della negazione, non viceversa. Quando così è infranta la potenza dell'intelletto nel campo delle domande sul nulla e sull'essere, allora si decide contemporaneamente anche il destino della signoria della «logica» all'interno della filosofia. L'idea della «logica» stessa si dissolve nei vortici di un domandare più originario.
Ora, per quanto frequentemente e sotto molte forme la negazione -- sia o no esplicita -- attraversa ogni pensiero, essa non è davvero l'unica valida testimone di quell'evidenza del nulla che appartiene essenzialmente all'«esserci». Infatti la negazione non può essere considerata né l'unico e neanche il principale atteggiamento mancante in cui l'«esserci» rimane scosso dal mancare del nulla. Più profonda della semplice conformità della negazione del pensiero è la durezza dell'opposizione e l'acredine della detestazione. Più responsabile è il dolore del rifiuto e la brutalità della proibizione. Più pesante è l'amarezza della rinuncia.
Queste possibilità dell'atteggiamento mancante -- forze in cui l'«esserci» porta il proprio abbandono (Geworfenheit) senza tuttavia dominarlo -- non sono generi del semplice negare. Ciò non impedisce però loro di esprimersi nel no e nella negazione. Certamente così si tradisce tanto più il vuoto e l'ampiezza della negazione. Il fatto che l'«esserci» è compenetrato di atteggiamento mancante testimonia la continua e certamente oscurata evidenza del nulla, che solo l'angoscia disvela in modo originario. Ma ciò fa in modo che questa originaria angoscia nell'«esserci» viene per lo più repressa. L'angoscia esiste. Dorme solo. Il suo respiro trema continuamente attraverso l'«esserci»: nella maniera minore attraverso quella «ansiosa», e impercettibile per il «sì sì» e «no no» di quella laboriosa; nella maniera maggiore attraverso quella repressa; nella maniera più sicura attraverso l'«esserci» fondamentalmente temerario. Ma questa accade solo a causa di ciò per cui essa si adopera per così conservare l'ultima grandezza dell'«esserci».
[15] L'angoscia del temerario non sopporta nessuna contrapposizione con la gioia o addirittura con i comodi piaceri del tranquillizzato lasciarsi trasportare. Essa sta -- di qua da tali opposizioni -- in un segreto patto con la serenità e la dolcezza della nostalgia creatrice.
L'angoscia originaria può destarsi nell'«esserci» in qualsiasi momento. Per questo non necessita d'essere risvegliata da un evento fuori dell'ordinario. Alla profondità del suo dominio corrisponde la trascurabilità della sua possibile occasione. È sempre pronta, ma solo raramente ci assale per trascinarci nella sospensione.
Il trattenimento dell'«esserci» nel nulla sulla base della nascosta angoscia fa sì che l'uomo occupi il posto del nulla. Siamo così limitati (endlich) che proprio non abbiamo la capacità di portarci originariamente davanti al nulla con una nostra propria decisione volontaria. La finitizzazione (Verendlichung) è così profondamente radicata nell'«esserci» che la più propria e profonda finitudine si nega alla nostra libertà.
Il trattenimento dell'«esserci» nel nulla sulla base della nascosta angoscia è l'oltrepassamento dell'esistente nella sua interezza: la trascendenza.
Il nostro domandare sul nulla ci deve portare dinanzi alla metafisica stessa. Il nome «metafisica» deriva dal greco metá ta physiká. Questo curioso titolo fu più tardi interpretato come caratterizzazione del domandare che esce metá -- trans -- oltre l'esistente in quanto tale.
La metafisica è il domandare uscendo oltre l'esistente, per trattenerlo in quanto tale e nella sua interezza per la comprensione.
Nella domanda sul nulla avviene un simile uscir fuori oltre l'esistente in quanto esistente nella sua interezza. È quindi dimostrato che essa è una domanda «metafisica». Delle domande di tale genere abbiamo dato all'inizio una duplice caratteristica: in primo luogo ciascuna domanda metafisica abbraccia ogni volta l'interezza della metafisica. In secondo luogo in ogni domanda metafisica l'«esserci» interrogante viene ogni volta coinvolta nella domanda.
[16] In che misura la domanda sul nulla attraversa e abbraccia l'interezza della metafisica?
Sul nulla la metafisica si esprime dall'antichità con una legge indubbiamente ambigua: ex nihilo nihil fit, nulla viene dal nulla. Sebbene nella discussione di questa legge il nulla stesso non diviene mai propriamente problema, essa esprime tuttavia, a partire dal rispettivo riferimento al nulla, la comprensione fondamentale dell'esistente in essa dominante. La metafisica antica comprende il nulla nel significato del non-esistente, cioè della materia informe, che non si può trasformare in un esistente dotato di forma e che quindi offra un aspetto (éidos). È esistente la cosa (Gebilde) che si configura, che in quanto tale si rappresenta nella figura (spettacolo). Origine, diritto e limiti di questa comprensione dell'essere vengono discusse tanto poco quanto il nulla stesso. La dogmatica cristiana invece nega la verità della legge «ex nihilo nihil fit» e con ciò dà al nulla un significato modificato nel senso della completa assenza dell'esistente extradivino: ex nihilo fit -- ens creatum, l'ente creato viene dal nulla. Ora il nulla diventa il concetto contrario all'esistente vero e proprio, al summum ens, a Dio come ens increatum. Anche qui l'interpretazione del nulla indica la comprensione fondamentale dell'esistente. La discussione metafisica dell'esistente si mantiene però sullo stesso piano della domanda sul nulla. Le domande sull'essere e sul nulla in quanto tali non hanno entrambe luogo. Perciò non preoccupa affatto neanche la difficoltà che, se crea dal nulla, proprio Dio deve poter essere in rapporto col nulla. Ma se Dio è Dio, non può conoscere il nulla, dato che d'altronde l'«assoluto» esclude da sé ogni negatività.
Questo rozzo richiamo storiografico mostra il nulla come concetto contrario all'esistente vero e proprio, cioè come sua negazione. Ma quando il nulla diviene in qualche modo problema, allora questo rapporto di contrapposizione non solo subisce certamente una più chiara determinazione, ma suscita per la prima volta la vera e propria posizione della domanda metafisica sull'essere dell'esistente. Il nulla non rimane [17] qualcosa d'indeterminato di fronte all'esistente, ma si svela come appartenente all'essere dell'esistente.
«Il puro essere e il puro nulla sono dunque la stessa cosa». Quest'affermazione di Hegel (Scienza della logica, I libro, WW II, p. 74) è giusta. Essere e nulla devono essere messi assieme, ma non perché entrambi -- dal punto di vista del concetto hegeliano di pensiero -- coincidono nella loro indeterminazione e immediatezza, ma perché l'essere stesso nell'essenza è finito e si rivela solo nella trascendenza dell'«esserci» trattenuto nel nulla.
Giacché d'altronde la domanda sull'essere in quanto tale è la domanda più comprensiva della metafisica, la domanda sul nulla mostra d'essere siffatta da abbracciare l'interezza della metafisica. Ma la domanda sul nulla attraversa l'interezza della metafisica in quanto ci conduce con la forza davanti al problema dell'origine della negazione, cioè in fondo davanti alla decisione sulla legittimità della signoria della «logica» nella metafisica.
L'antica legge ex nihilo nihil fit riceve allora un altro senso, adeguato al problema stesso dell'essere, che suona: ex nihilo omne ens qua ens fit, ogni ente in quanto ente viene dal nulla. Solo nel nulla dell'«esserci» l'esistente nella sua interezza viene a sé stesso secondo la sua più propria possibilità, cioè in modo finito.
In che misura allora la domanda sul nulla, se è una domanda metafisica, ha coinvolto in sé il nostro «esserci» interrogante? Noi caratterizziamo il nostro «esserci» che qui e ora sperimentiamo come essenzialmente deciso dalla scienza. Quando il nostro «esserci» deciso in questo modo è posto nella domanda sul nulla, allora dev'essere diventato problematico attraverso questa domanda.
L'«esserci» scientifico ha la sua semplicità e precisione nel fatto che è in rapporto in un modo speciale con l'esistente stesso e unicamente con esso. La scienza vorrebbe gettar via il nulla con un gesto altezzoso. Ora però nel domandare sul nulla diventa evidente che questo «esserci» scientifico è possibile solo quando prima [18] si trattiene nel nulla. Essa si comprende in ciò che è solo allorquando non getta via il nulla. La presunta ragionevolezza e superiorità della scienza diviene ridicola se essa non prende sul serio il nulla. Solo poiché il nulla è evidente la scienza può rendere l'esistente stesso oggetto di ricerca. Solo quando la scienza esiste a partire dalla metafisica ha la capacità di raggiungere sempre di nuovo il suo compito essenziale, che non consiste nel raccogliere e ordinare cognizioni, ma nell'apertura da compiere sempre di nuovo dell'intero spazio della verità di natura e storia.
Unicamente perché il nulla è evidente nel fondamento dell'«esserci», la completa estraneità dell'esistente può venire su di noi. Solo quando l'estraneità dell'esistente ci opprime, esso risveglia e attira a sé lo stupore. Solo sulla base dello stupore -- cioè dell'evidenza del nulla -- nasce il «perché?». Solo poiché il perché in quanto tale è possibile, noi possiamo in un modo determinato far domande sui motivi e motivare. Solo perché noi possiamo domandare e motivare, il destino del ricercatore è dato in mano alla nostra esistenza.
La domanda sul nulla pone noi stessi -- noi che domandiamo -- in questione. È una domanda metafisica.
L'«esserci» umano può essere in rapporto con l'esistente solo quando si trattiene nel nulla. L'uscire oltre l'esistente avviene nell'essenza dell'«esserci». Ma questo uscire è la metafisica stessa. Da ciò il fatto che la metafisica fa parte della «natura dell'uomo». Non è né una materia di filosofia libresca né un campo di arbitrari lampi di genio. La metafisica è l'avvenimento fondamentale nell'«esserci». È l'«esserci» stesso. Poiché la verità della metafisica abita in questo abissale fondamento, essa ha come più prossimo vicino la possibilità, sempre in agguato, del più profondo errore. Per questo nessun rigore d'una scienza raggiunge la serietà della metafisica. La filosofia non può mai essere misurata sul metro dell'idea della scienza.
[19] Se abbiamo veramente posto assieme la domanda sul nulla qui sollevata, allora non abbiamo condotto la metafisica davanti a noi dall'esterno. Non ci siamo nemmeno «trasferiti» in essa. Non possiamo affatto trasferirci in essa, perché -- in quanto esistiamo -- vi stiamo già sempre. «Una certa filosofia, amico mio, si trova naturalmente nella ragione umana» (Platone, Fedro 279 a). In quanto l'uomo esiste, avviene in un certo modo il far filosofia. La filosofia -- ciò che noi così chiamiamo -- è mettere in moto la metafisica, nella quale essa viene a sé stessa e ai propri espliciti compiti. La filosofia si mette in moto attraverso un peculiare salto della propria esistenza nelle possibilità fondamentali dell'«esserci» nella sua interezza. Per questo salto è decisivo: in primo luogo far spazio all'esistente nella sua interezza; poi perdersi nel nulla, cioè liberarsi dagli idoli che ciascuno ha e ai quali è solito scappar di nascosto; infine lasciar oscillare questa sospensione, affinché oscillando torni continuamente nella domanda fondamentale della metafisica, che il nulla stesso estorce: perché c'è l'esistente e non piuttosto il nulla?
[Traduzione di Giovanni Salmeri]