Hermann Hesse
Hermann Hesse?
Perché inserire in una rassegna di filosofi un autore come Hermann Hesse?
Una domanda come questa è più che legittima, visto che tutti lo conosciamo come narratore.
La risposta sta nel fatto che: in primo luogo non si tratta di un narratore ma di un Artista, ed in secondo luogo di un Artista che è tale solo in quanto "filosofo".
Artista non tanto perché pittore, poeta e romanziere, non tanto perché detentore di un arte, quanto nel senso freudiano del termine, dice infatti Freud che "l’Artista è un nevrotico, è colui che, non potendo realizzare le sue aspirazioni nella realtà, si fabbrica una realtà artificiale corrispondente ai suoi bisogni e di cui è perfettamente padrone, ovvero l’opera d’arte".
Chi meglio di Hesse corrisponde a questa descrizione?
Lui che non seppe mai avere un rapporto sereno con il mondo che lo circondava.
Lui che non riusciva ad inserirsi nella società del suo tempo e nei meccanismi di questa.
Lui che a quindici anni scappò dal seminario evangelico dove studiava.
Lui che, destinato ad avere una sicura carriera come teologo, si ridusse a lavorare come apprendista di un orologiaio.
Lui che ebbe infiniti contrasti con le autorità politiche del suo paese e che per questo fu costretto ad andare a vivere in Svizzera.
Lui che murandosi nella sua casa di Montagnola, tagliò i ponti che lo collegavano con un mondo che non lo comprendeva, isolandosi completamente dall’umanità in un momento nel quale(agli esordi della seconda guerra mondiale) la sua voce ,che aveva credito presso gli intellettuali tedeschi, avrebbe potuto avere un ruolo storico di primaria importanza, di fondamentale importanza, nell’economia degli sviluppi politici e bellici.
Lui che si presenta in tutto e per tutto come l’antitesi del mondo borghese, come l’antitesi del suo caro amico e corrispondente epistolare Thomas Mann, un grandissimo romanziere, forse il più grande del novecento, ma non un Artista, non un nevrotico
Lui che, allorché gli fu dato del buddista da qualcuno fuorviato dal suo celebre romanzo Siddhartha, pur protestando ammise:"Eppure c’era un grano di vero. Se fosse possibile scegliersi la propria religione, io per intimo desiderio avrei certamente abbracciato una religione conservatrice: Confucio o il brahmanesimo o la chiesa romana. Ma l’avrei fatto per amore del polo opposto, non per innata affinità, poiché non solo per caso sono nato figlio di protestanti, ma sono protestante anche per indole e natura. Infatti il vero protestante è contro la propria chiesa come contro qualunque altra, perché la natura lo spinge ad approvare più il divenire che l’essere, lo spinge a non realizzarsi nel presente, lo spinge a non accettare la realtà presente. E proprio in questo senso anche Budda era certo protestante come lo sono io", anche se "chi cerca veramente, chi ha come unica meta il trovare, chi è veramente alieno a qualsiasi forma di ipocrisia, chi agisce sempre in conformità a questo suo proprio fine non cedendo minimamente alle lusinghe di un seppur lieve e saltuario filisteismo, non può accogliere nessuna dottrina ’’.
Lui che, quando Fischer, il suo editore, desideroso di pubblicare un volume di racconti scelti, lo pregò di indicargli quali delle sue opere narrative reputava le più degne di esservi raccolte, si limitò a scrivere la prefazione al volume, una prefazione dove spiegava che non poteva che rifiutarsi di fare una scelta, vi raccontava infatti di essersi riletto tutte le sue precedenti pubblicazioni, avendo di mira due criteri principali: vedere se nel loro genere fossero di una certa classe, e stabilire quali fossero meglio riuscite per la forma e per l’espressione della sua personalità.
Il risultato dell’indagine fu che si accorse che i suoi scritti non potevano misurarsi con quelli dei grandissimi maestri da lui venerati, come Cervantes, Dostoevskij, Swift, Balzac, e nemmeno con grandi scrittori quali Dickens e Keller. I suoi scritti erano diversi, non avevano nulla a che fare con quelli dei maestri, i suoi romanzi non erano romanzi, le sue novelle non erano novelle: erano lirica travestita, erano autobiografie dell’anima, erano oneste espressioni di un mondo interiore, erano ricerca incessante della Verità su se stesso e sul mondo circostante.
(Non è forse proprio questo il presupposto più intimo ed il punto di partenza di ogni filosofia, la ragione d’essere della filosofia stessa?)
Hesse concludeva infine la prefazione scrivendo che "nessuno dei suoi racconti era dunque racconto puro, degno di entrare in una scelta narrativa" ed inoltre"lì (nelle sue opere) con il passare degli anni erano stati accolti concetti che solo in seguito si sarebbero chiariti, perché la vita non è stasi, bensì sviluppo, evoluzione. E quelle pagine non erano più tali da soddisfare l’incontentabile autore, giacché nessun’opera resiste al confronto con l’ideale esigenza di chi la scrive". La conclusione fu che la scelta non si fece e rimase solo quel saggio.
In altri termini possiamo dunque giustificare la presenza di Hermann Hesse in questa "enciclopedia di autori filosofici" asserendo che lui era un romanziere, che scriveva romanzi perché era un Artista e come tale aveva bisogno delle proprie opere d’arte per realizzarsi, non riuscendo a farlo nella realtà reale.Ma il nocciolo della questione sta proprio nel perché non riuscisse a realizzarsi nella realtà. Beh, non ci riusciva perché nevrotico, perché intimamente "filosofo", perché il suo scopo, il suo compito, il suo fine erano non tanto vivere nella realtà, quanto scoprirla, quanto capirla nei sui più reconditi e fondamentali aspetti, nelle sue più varie sfaccettature, quanto trovare una verità, quanto trovare La Verità; tutte cose che un animo assetato della sincerità più dissacrante, un animo tanto dinamico ed in continua evoluzione come il suo, un animo che potremmo definire zeticista, non riuscì mai e poi mai a raggiungere in maniera stabile, definitiva, unitaria; tutte cose che quindi in maniera più o meno velata, più o meno evidente, più o meno esplicita, analizzò, sviscerò ed indagò nelle sue opere.
La vita e la formazione
Hermann Hesse nacque a Claw nel Wurttemberg il 2 Luglio 1877, da Johannes Hesse e Maria Gundert. "Venni al mondo verso la fine dei tempi moderni, poco prima che incominciasse il nuovo Medioevo, nel segno del sagittario e sotto l’influsso benigno di Giove, in una delle prima ore della sera di un giorno di luglio, ed è la temperatura di quell’ora che ho inconsciamente amato e cercato per tutta la vita, e, quando mi è mancata, ne ho sentito dolorosamente la privazione: non ho mai potuto vivere in paesi freddi, e tutti i viaggi che ho intrapreso di mia volontà erano verso il sud", scrisse in Kurzgefasster Lebenslauf del 1925.
Per capire gli sviluppi sia artistici che biografici di qualsiasi autore è noto che sia di primaria importanza un’analisi della famiglia da cui proviene, questa ha una validità ancora maggiore nel caso di Hesse che usava per la propria produzione artistica quasi escusivamente materiale che gli venisse offerto dalla vita reale, dalla vita vissuta, fedele al suo principio di superiorità dell’esperienza diretta sull’esperienza intellettuale, superiorità della sensibilità (da intendere come capacità prettamente "corporea" di recepire gli impulsi forniti dai cinque sensi), sulla razionalità mediata.
La forte influenza, evidentissima in certi casi, della vita sulle opere artistiche sarà quindi una delle categorie obbligate attraverso le quali cercheremo leggere ed esporre, analizzando, la sua personalità.
Il padre, cittadino russo di origine baltica, e la madre erano stati entrambi missionari in India, dove Maria era nata; il nonno materno, Hermann Gundert, era un noto orientalista e linguista, che si era costruito a torno un vasto circolo di intellettuali e studiosi di ogni paese.
La famiglia Hesse, fervidamente pietista, impartì al giovane scrittore un’educazione dura ed austera, contraria a qualsiasi velleità artistica: "Accadeva spesso che mamma e papà esprimessero approvazione per una poesia o un componimento musicale, aggiungendo però subito che tutto ciò, naturalmente, era solamente atmosfera, solamente vuota bellezza, solamente arte, senza mai attingere un valore elevato come la morale, la volontà, il carattere, ecc. Questa teoria mi ha rovinato l’esistenza e da essa mi sono distaccato senza possibilità di ritorno", scriveva Hesse alla sorella Adelaide.
Noi pensiamo che questo relativo all’arte non sia un caso particolare isolato, ma che obbedisca invece ad una legge generale valida per tutta la vita dell’autore del Pellegrinaggio In Oriente: la legge della ribellione di fronte al "Dovere" e quindi di fronte ai detentori del potere che possono imporre dei doveri.
Pensiamo che se i suoi genitori avessero avuto una diversa opinione dell’arte Hermann avrebbe avversato anch’essa o avrebbe trovato di certo, se per caso l’accettazione di questa gli fosse stata assolutamente necessaria per il compimento del suo "Mito personale": "diventare poeta o nulla", altri motivi di scontro con la famiglia che lo avrebbero comunque inesorabilmente portato a quella rottura inconciliabile.
Questo tema dell’antitesi drammatica con la famiglia, dalla nascita del decadentismo in poi, è presente in quasi tutti gli Artisti che ricevettero un educazione rigida e severa, noi ne citiamo solo il più illustre rappresentante che forse ne fu anche il prototipo: Rimbaud.
Naturalmente Hesse fu condizionato ed influenzato dal decadentismo in maniera molteplice, come spiegheremo nel capitolo successivo, ora ci limitiamo a far presente però che il rifiuto del modello fornito dal nucleo familiare è uno dei fondamenti stessi del decadentismo riconducibile al disprezzo per il mondo borghese, disprezzo dal quale nasce in sintesi l’intero movimento decadente.
Un lampante esempio di questo lo troviamo anche nel Demian dove Hesse, nei panni di E.Sincler, trova la sua famiglia "ideale": la famiglia di Demian appunto, una famiglia in tutto e per tutto antiborghese, una famiglia dove manca completamente la figura paterna, una famiglia aperta, che non si basa su un legame biologico ma su uno spirituale, una famiglia alla quale appartengono tutti gli Artisti e gli "Uomini Dello Spirito"(da contrapporsi agli "Uomini Bambino", alla gente comune, ai borghesi, ai filistei), non solo coevi, ma di ogni tempo, una famiglia che non ha nulla a che fare con la materia e che quindi non deve sottostare alle sue leggi, lo spazio ed il tempo,ovvero l’etarna famiglia "Dei Pellegrini D’Oriente".
Ricapitolando le influenze più importanti che Hesse ebbe dal circolo dei suoi parenti più stetti furono: l’alto livello culturale, l’appartenenza al ristretto circolo dei "cittadini del mondo"alieni a qualsiasi forma di nazionalismo, favorita dalle diverse sue origini nazionali (avevamo infatti tralasciato di dire che la nonna materna era francese), l’amore per l’India e l’oriente in genere ("Non solo da genitori e maestri venni educato, ma anche da più alte, misteriose e segrete potenze, e fra esse ci fu pure il dio Pan che stava in armadio a vetri nella biblioteca di mio nonno nella figura di un piccolo idolo danzante. Questa ed altre divinità si sono prese cura della mia infanzia, e, ben prima che io imparassi a legger ed a scrivere, mi hanno talmente riempito di antichissime immagini e pensieri d’Oriente, che in seguito ogni incontro con i saggi indiani e cinesi mi è parso un ritrovamento, un ritorno" scrisse nell’Infanzia Del Mago), una sensibilità religiosa di stampo pietista e quel disprezzo per il "tu devi" che ebbe disastrosi effetti in ambito scolastico.
La storia scolastica di Hesse è una storia fatta di sofferenze, delusioni e costanti ribellioni, una storia che inizia con la Scuola Per Missionari di Basilea dove viene segnalato per il temperamento troppo vivace, che prosegue, allorché viene ottenuta la cittadinanza tedesca, con gli scadenti risultati presso il ginnasio di Goppingen,e che termina con la fuga del Marzo 1892 dal seminario di Maulbronn, dopo questa infatti il giovane Hermann non riprenderà più di fatto gli studi ufficiali.
Quando infatti fu ricondotto in seminario divenne completamente inattivo e soffrì di frequenti crisi depressive, per "curare" le quali i genitori lo portarono a Ban Boll presso l’esorcista Cristoph Blumhardt.La reazione del ragazzo fu delle più negative: comprò una pistola e minaccio di suicidarsi; a seguito di tutto ciò fu ricoverato nella casa di cura per malati di mente ed epilettici di Stetten, dove passando mesi di assoluta disperazione consumò il suo definito allontanamento da religione e famiglia.
Tutte queste travagliate esperienze gli fornirono l’ispirazione ed il materiale necessari per Sotto la ruota breve romanzo pubblicato solo nel 1906.
Riuscì ad uscire dalla casa di cura solo grazie alle suppliche fatte al pastore Pfisterer di Basilea, che lo ospitò e gli diede la possibilità di frequentare il ginnasio di Canstatt; naturalmente questa situazione apparentemente stabile durò molto poco, Hermann scrisse infatti ai genitori di non poter sopportare per un attimo di più la vita scolastica, fu così che, tornato a casa, secondo la volontà del padre, divenne apprendista presso la fabbrica di orologi Pierrot, dove lavorò fino al 1895 quando divenne commesso libraio da Heckembauer.
Conoscendo già un po’ il nostro autore crediamo sia relativamente facile indovinare a quando risalga la sua profonda ed imponente formazione culturale: al periodo scolastico nel quale era costretto a studiare o al periodo lavorativo quando letteralmente piegato dal lavoro era logico che non studiasse?
A scanso di equivoci renderemo esplicito quello che crediamo debba essere implicito per il navigatore che abbia letto attentamente il nostro saggio fino a questo punto: l’immensa formazione culturale di Hesse, che dice (noi crediamo a torto) testualmente di aver letto dai 14 ai 18 anni la metà di tutta la letteratura mondiale, risale al periodo lavorativo.
La smisurata biblioteca del nonno gli dava la possibilità di avere a disposizione una notevole quantità di classici, oltre a quasi tutta la filosofia e letteratura tedesca del sedicesimo e diciassettesimo secolo, sfruttò questa opportunità a pieno integrandola con i contemporanei che la sua professione di librai gli dava la possibilità di procurarsi molto facilmente; gli autori più letti furono: Goethe (che anche in seguito rimase il suo mito e maestro, e del quale disse: "insieme a Nieztsche è colui le opere del quale mi hanno costretto a pensare e riflettere di più"),Schiller, Dostoevskij (sul quale, ed in particolare su due sue opere : L’Idiota e I Fratelli Karamazov, scrisse tre interessantissimi saggi dal titolo Uno Sguardo Nel Caos),Turgenev (che in questa sua prima parte della vita preferiva a Dostoevskij, che invece amò in seguito; questo cambio di vedute crediamo sia dovuto alla particolare ammirazione che il giovane Hesse dovette avere per un romanzo quale Padri e Figli che trattava proprio situazioni similari a quelle che lui stesso si trovava ad affrontare quotidianamente, ed alla sua non completa comprensione dell’autore dei Demoni alla prima acerba lettura dovuta alla tenera età), Ibsen, Hamsun e i romantici dell’ottocento, in particolare Brentano, Novalis, Eichendorff e Uhland.Proprio sulla scorta di questa passione per il romanticismo nacquero la sua prima raccolta di poesie, Canti Romantici, e quella di prose brevi, Un Ora Dopo Mezzanotte.
Nel 1899 lo troviamo a guadagnarsi da vivere a Basilea come libraio ed antiquario; in questo periodo frequentò vari circoli pesantemente influenzati dalla figura dello storico e filosofo svizzero Jacob Bueckhardt e scrisse Scritti e Poesie Postumi di Hermann Lauscher, reminescenze dei precedenti anni vissuti in Svizzera.
Ma la sua pubblicazione più importante, quella dopo la quale si dedicò solo alla carriera artistica, fu il Peter Camenzin, ispiratogli da un viaggio in Italia che gli diede: " un inestimabile tesoro i cui frutti si rivelano anche esteriormente", e sulla base del quale iniziò anche i suoi studi sulla novellistica trecentesca, su Boccaccio e San Francesco.
Nel 1904 sposò una raffinata pianista, la svizzera Maria Bernoulli,e si trasferì a Gaienhofen, sul lago di Costanza, dove sua moglie diede alla luce 3 figli e dove visse una vita e ritirata agreste fino al 1910,data in cui il matrimonio entrò in una crisi profonda che lo portò a decidere di andare per qualche tempo in India alla ricerca di se stesso.
Appena tornato in Europa e stabilitosi a Berna con la famiglia, come di consueto, utilizzo le proprie esperienze vissute per fini artistici, infatti scrisse e pubblicò tra il ‘13 ed il ’14: Dall’india, ovvero la raccolta dei suoi appunti di viaggio, e Rosshalde, "il più perfetto" dei suoi romanzi brevi, la storia dell’insanabile distacco creatosi tra due coniugi, che termina con la separazione della coppia: per una volta, ironia della sorte, fu l’opera d’arte a precedere la vita vissuta, e non il contrario: nel 1923 fu ufficializzato il divorzio tra Hermann e Maria,che però era avvenuto di fatto da vari anni.
Come abbiamo visto fino ad ora la vita di Hesse procede secondo uno schema abbastanza ricorrente: c’è sempre una crisi, che costituisce però nel momento in cui viene superata un importante fattore di crescita sia umana, che artistica che culturale e di evoluzione, crisi senza la quale la vita rimarrebbe statica e la formazione subirebbe una considerevole battuta d’arresto, è quindi a questa dialettica tra periodi di crisi e periodi di stabilità che Hesse deve quel "autoperfezionamento" che sempre più lo allontanava dalla condizione "normale" e "standard" dell’umanità, che lo portò ad essere quello che fu ed a scrivere quello che scrisse. Questo schema,che come abbiamo visto si è ripetuto la prima volta con la famiglia di appartenenza, la seconda con la scuola, la terza con il matrimonio, si ripeté una quarta volta durante la prima guerra mondiale.
E’ proprio nell’ambito della prima guerra mondiale che si consumò la rottura tra l’autore di Siddharta ed una parte degli intellettuali tedeschi, rottura che poi permanse fino alla morte dello scrittore, e che dall’ascesa al potere di Hitler in poi fu uno dei principali anelli di congiunzione tra lui e Mann accomunandoli entrambi. Causa della rottura fu l’atteggiamento assunto da Hesse nei confronti del bellicismo tedesco della prima metà del ‘900, un atteggiamento pacifista nemico dell’odio e della violenza che fu espresso non solo attraverso appelli ed articoli di giornale, ma anche con l’impegno diretto (è il caso del servizio di assistenza ai prigionieri di guerra), un atteggiamento che fu tacciato dai nazionalisti di tradimento verso la patria e di facile disimpegno.
Ma alla crisi nell’ambito dei suoi rapporti con gli intellettuali tedeschi, ed alla crisi "morale" causata dalla guerra, si andarono ad aggiungere varie altre tragiche vicende personali: la morte del padre, i disturbi mentali della moglie, la malattia del figlio Martin. A causa di tutto ciò entrò nella più grave delle depressioni, per curare la quale entrò in terapia presso il dottor Lang, allievo di Jung,che lo salverà dal completo crollo nervoso e lo inizierà ai concetti basilari della psicoanalisi.
Proprio grazie agli insegnamenti assimilati con il contributo del dottor Lang ed alle esperienze fatte in questo durissimo momento della sua vita, dopo aver divorziato dalla prima moglie ed essersi risposato con la contante Ruth Wenger, giunse alla maturità artistica, sono infatti di questo periodo le opere più importanti e conosciute: Demian (che pubblicato sotto mentite spoglie gli valse il premio Fontane per gli scrittori esordienti,premio che naturalmente non accettò) Il lupo della steppa, Narciso e Boccadoro e Siddharta (che riuscì però a finire solo grazie all’intervento di Jung in persona che lo curo da una nuova crisi depressiva).
Nel ’31 si sposo nuovamente, per la terza volta, quella definitiva e duratura, con Ninon Dublin, studiosa di storia dell’arte e si trasferì a Montagnola, da dove non si mosse più, se non per delle brevi cure termali, da dove assisté in modo passivo a tutti gli stravolgimenti politici europei e mondiali, da dove tenne un’intensa attività epistolare e di critica letteraria.
Andò a vivere in una casetta con giardino recintato al cancello del quale attaccò la scritta "Niente visite per favore", il luogo idilliaco che aveva sempre cercato, che aveva più volte dipinto nei suoi scritti e che già una volta, poco più cinque lustri prima aveva trovato, ma non era riuscito a "sopportare"; se infatti ci fu sempre in lui una brama di vivere al di fuori del mondo moderno e della sua società, una volontà di fare di se un eremita e un desiderio di solitudine (nei quale crediamo di scorgere una componente dovuta alla grande influenza di Nietzsche, oltre ad una naturale predisposizione), non riuscì mai a realizzarli in maniera duratura negli anni della giovinezza e della maturità perché erano avversati e vinti, in quel periodo, dal suo dinamico attivismo; attivismo, che affievolendosi con l’andare degli anni per il progressivo indebolimento delle forze vitali causato dall’invecchiamento corporeo ed per l’appagamento mentale dovuto ai successi, fu sconfitto invece dalla volontà isolazionista (corroborata anche, tra l’altro, dalle gravi delusioni patite ad opera della Germania nazista) alla quale cedette il passo nell’anzianità.
Fu proprio lì, nella sua fiabesca abitazione di Montagnola, che ospitò Mann, Weiss, Brecht, Wolff e molti altri intellettuali tedeschi che abbandonavano la Germania nazista.
Ultimi fatti notevoli occorsogli dal trentuno alla morte avvenuta il 9 agosto del 1962 furono una lunga serie di riconoscimenti tra i quali ricordiamo il premio Keller, il premio Goethe, il premio
Raabe, il premio per la pace e soprattutto il premio Nobel per la letteratura conferitogli nel 1946 a seguito della pubblicazione della sua ultima, monumentale opera, Il gioco delle perle di vetro, summa del suo pensiero e di tutte le opere e le esperienze precedenti.
Il pensiero e le opere
Decadentismo - Il rapporto con il movimento decadente è di fondamentale importanza nell’economia del pensiero e delle opere di Hesse, e costituisce una categoria essenziale per una corretta interpretazione della sua produzione.
Cerchiamo di vedere perché ed in che modo.
Prima di tutto è molto importante precisare che Hesse non aderì mai al decadentismo: nel senso che non si identificò mai con esso e non cercò mai, minimamente, di conformarsi ai sui "dettami".
Eppure le affinità, sopratutto di carattere concettuale, tra lui e questa corrente culturale, sono molteplici. Perché?
Secondo noi questo è dovuto sopratutto al fatto che l’autore di Demian partì dagli stessi "presupposti" da cui partirono i decadenti, dallo stesso substrato ideologico, sintomatico di ciò è il fatto che " i suoi maestri" figurano anche tra i padri del decadentismo.
Possiamo dire in sostanza che Hesse visse un suo decadentismo, un decadentismo estremamente soggettivo, e puramente "esistenziale", completamente alieno a quello letterario ed in parte retorico che imperversava agli inizi del novecento e che era anche diventato quasi una moda tra gli artisti.
Il decadentismo di Hesse non ha nulla a che vedere con tutti gli elementi per così dire di tipo formale, possiamo definirlo ideologico, filosofico e consiste in un disagio esistenziale, in un rifiuto della società, soprattutto quella borghese che stava emergendo, ed anzi era ormai emersa e prosperava indisturbata in un disgusto verso il sistema di valori di questa società che lui considerava completamente inautentico, nella non integrazione nelle strutture, ad esempio quelle politiche, quelle istituzionali e quelle scolastiche, di questa stessa società, in una non accettazione del positivismo, dell'industrializzazione, del mito del progresso ,del profitto e della tecnologia, all'altare del quale gli sembrava che il genere umano stesse immolando la propria naturalità,la propria "umanità".
Veniamo ora ad analizzarne quali furono le ripercussioni e le influenze di tutto ciò sulla sua produzione artistica, stando ben attenti a mettere in evidenza soprattutto gli elementi che questa ha in comune col movimento decadente vero e proprio.
Decadentismo, personaggi… e Gioco delle perle di vetro - Un primo dato interessante che ci salta agli occhi è quello relativo all’identità della maggior parte dei personaggi del nostro autore.
Molti di questi personaggi (che, ci teniamo a ricordarlo, come abbiamo visto in precedenza sono delle trasfigurazioni, o meglio delle proiezioni di Hesse) infatti sono riconducibili, a nostro giudizio, a figure e topos tipici del decadentismo.
E’ il caso di Knulp il vagabondo, lo sradicato; di Peter Camenzind, il viaggiatore che non ha più una patria e si sente ovunque estraneo tra gli uomini; naturalmente di Demian, della situazione famigliare del quale abbiamo già dissertato a lungo; di Boccadoro che fugge dal mondo della ragione, dal mondo dei valori,dal mondo della società civilizzata e ben definita, dal mondo che i suoi genitori avevano scelto per lui, per diventare un giramondo e vivere nel mondo della natura, dell'imprevisto, dell'istinto; ma è anche il caso di tutti quei personaggi riconducibili alla figura del saggio eremita che ha tagliato per sempre i ponti che lo collegavano al mondo civile, ovvero: Vasudeva in Siddharta, tutti i vari anacoreti e maestri di vita secondari presenti praticamente in ogni opera, l’esperto di I Ching nel Gioco delle perle di vetro.
Per quest’opera bisogna poi fare un discorso a parte, soprattutto riguardo alle tre "vite" che ne costituiscono la conclusione. Ma partiamo dal principio, ovvero dalla sua struttura: ad una lunga nota introduttiva di carattere storico segue una sorta di saggio biografico su Josef Knecht, al termine del quale troviamo i suoi scritti postumi. Proprio di questi scritti postumi fanno parte tre "vite": si tratta di autobiografie dell’anima relative a vite passate (alla base di tutto c’è qualcosa di simile alla teoria della reincarnazione, naturalmente vista in modo non semplicistico e deterministico, ma come insieme di rimandi e sensazioni profonde, come appartenenza ad un'unica realtà noumenica amateriale ed atemporale, quella dello spirito, quella del Pellegrinaggio in oriente, quella che"non è soltanto un paese o un'entità geografica, ma la patria e la giovinezza dell'anima, il Dappertutto, il In-nessun-luogo, l’unificazione di tutti i tempi", quella che poi si esplica in varie realtà fenomeniche imbrigliate in vincoli spazio-temporali che non sono altro che sue sfaccettature depotenziate); quindi visto che Knecht è a sua volta un personaggio intimamente ed essenzialmente autobiografico, non dobbiamo aver paura di essere in errore se affermiamo che quelle tre vite si riferiscono direttamente ad Hesse (d’altra parte è lui stesso a suggerirci un’interpretazione di questa lettura in una lettera a Mann), che cioè è la sua anima ad averle vissute, che rappresentano delle situazioni passate e dei contesti sociali, culturali e storici in cui lui si rivede, in cui lui ravvisa profonde affinità ed analogie con la sua vita interiore.
Sarà di primaria rilevanza perciò notare che nella prima vita, Il mago della pioggia, il protagonista è uno stregone, o meglio un ragazzo un po' particolare ed isolato che apprende le arti della stregoneria da un vecchio saggio e che diventa lo Sciamano del proprio villaggio; si tratta di un uomo che vive una vita prettamente spirituale e ritirata e che limita al minimo i contatti con gli altri, il suo compito è soprattutto quello di far cadere la pioggia (il tutto è ambientato nella preistoria). Già per quello che abbiamo detto questo personaggio, per le sue caratteristiche di originalità, spiritualità e mancata integrazione, appartiene alla categoria dei personaggi che stavamo analizzando, quelli riconducibili a topos decadenti; ma aggiungiamo ora altri due elementi interessantissimi: nel villaggio in cui viveva, lo stregone, non aveva autorità suprema sulle questioni "metafisiche", a lui si contrapponeva una vecchissima avola, che non aveva nulla a che fare con la magia, l'anima e i riti, e che contrastava questi con la saggezza pratica, quella della propria esperienza; quando tra stregone ed avola c'era un disaccordo sembrava che gli abitanti del villaggio propendessero per la vecchia(come non vedere in questo il conflitto tra spiritualità tipica dell'artista e praticità tipica della società borghese, e come non vedere nel fatto che l'avola in un certo senso vincesse le ''lotte'' con lo stregone, la sconfitta dell'artista nel mondo moderno, la sua inadeguatezza, il suo isolamento, la sua mancanza di potere nelle questioni politiche e sociali ?). Infine, un anno, lo sciamano non riuscirà "far piovere" e gli abitanti del villaggio per questo lo uccideranno (come non vedere in questo ancora la condanna dell'artista e della sua spiritualità che non hanno futuro in un mondo che ha preso tutt'altra strada?).
La seconda e la terza vita, che analizzeremo molto più brevemente visto che presentano caratteristiche similari alla prima, sono quella del Confessore e Una vita indiana: nella prima il protagonista è un santone eremita che vive di stenti in una grotta e che confessa e conforta chi invoca il suo aiuto e va da lui; nella seconda troviamo lo stupendo personaggio del Saggio e vecchio yoghino, anche lui un eremita, che ha un rapporto privilegiato con la natura e che spiega il concetto di Velo di Maya ( ne parleremo più approfonditamente in seguito).
Il gioco delle perle di vetro (che come a buon ragione abbiamo detto in precedenza rappresenta la sintesi e la chiave di lettura di tutta l'opera ed il pensiero di Hesse) ci fornisce anche un altro esempio di topos decadente, non si tratta di un personaggio vero e proprio questa volta, ma di un insieme di personaggi, di una situazione: la Castalia. Che cosa è la Castalia?
La Castalia è uno stato, uno stato che nascerà sulla terra ( bisogna infatti ricordare che questo romanzo-saggio è ambientato nel futuro), lo stato dello spirito e della cultura, lo stato(provincia)pedagogico fantasticheggiato da Goethe, uno stato a cui solo chi è particolarmente dotato di certe doti può accedere, uno stato la cui sopravvivenza dipende dagli altri (infatti non vi si produce nulla di materiale), un mondo a parte, che non ha contatti con l'esterno, con il mondo "reale" ( la Castalia rappresenta quindi nuovamente la condizione dell'artista) e non può averne (il protagonista Knecht, il cui cognome in tedesco è riconducibile alla radice che significa servire, cerca proprio di servire l'umanità di ridarle da sua interezza, di rimetterla in contatto con la Castalia e di fonderla con essa, di riportarla quindi in uno stato naturale, unitario, non scisso; ma pagherà questo con la morte. Ormai la scissione è irrecuperabile).
Il decadentismo, il Lupo della steppa e… Goethe- Emblematico di tutto quello che fino ad ora abbiamo detto è il romanzo il Lupo della steppa, dove la scissione tra mondo borghese e artista è addirittura teorizzata, nella sua caleidoscopica molteplicità, in maniera particolare e puntuale.
Pensiamo che a questo proposito sia utile, ed anzi necessario, per il lettore interessato al nostro autore, andarsi a leggere integralmente la Dissertazione sul lupo della steppa,un saggio di una ventina di pagine, contenuto all'interno del romanzo, che non riportiamo per ovvie ragioni di spazio e che non antologizziamo ritenendo che questo sarebbe assolutamente riduttivo e che andrebbe contro la logica stessa del testo farlo, riducendolo, in questo modo, in fondo, ad una serie di slogan slegati e disarticolati tra di loro.
Un altro aspetto che invece ci preme mettere in luce in questa sede è quello riguardante Goethe.
Abbiamo già visto quanto sia importante questo autore nella formazione di Hesse, veniamo ora ad analizzare il rapporto tra Goethe e mondo borghese, o meglio dei valori borghesi, secondo il nostro romanziere.
Il protagonista del Lupo della steppa (ovvero il lupo stesso) Harry Heller (come conferma dell'identificazione di Hesse con questo suo personaggio possiamo notare come sia in Hermann Hesse, sia in Harry Heller, nome e cognome inizino con H, caso questo non nuovo nel panorama letterario mondiale, basti pensare a Kafka, il nome dei protagonisti delle opere del quale inizia sempre per K.) immagina di incontrare in sogno Goethe (dopo aver visto la sua foto in una casa borghese che lo aveva disgustato) e lo redarguisce per aver avuto paura delle sue scoperte, per aver temuto di andare fino in fondo nella ricerca della verità, per averla scorta, da lontano, ma in maniera abbastanza nitida, nei dolori del giovane Werther, ma accuratamente evitata, per aver "respinto e represso gli apostoli dell’abisso, le voci dell’eterna verità cruda e disperata" in nome di un "ottimismo volontaristico". Lo rimprovera di aver fatto questo per la sua mentalità filistea e servile, di averlo fatto per guadagnarsi il consenso e l'Immortalità, di aver sacrificato l’assoluto per una vita più tranquilla, di essersi messo a sedere, grasso, felice e soddisfatto, quando invece c'era da combattere contro la falsità che si andava propagando e che aveva, ed avrebbe in seguito, annebbiato le menti degli uomini.
La colpa di Goethe è assolutamente maggiore di quella di qualsiasi altro: lui, che aveva incontrato Napoleone e che era universalmente riconosciuto e rispettato, dall'alto del suo piedistallo, avrebbe dovuto e potuto fare qualcosa, ed invece non l' ha fatto, ha agito anche lui, soprattutto lui, da borghese.
Quest'immagine di Goethe borghese, servo dei potenti, nemico della rivoluzione per l'assoluto, per la libertà e per la verità la dobbiamo, in gran parte, ad un aneddoto (certamente falso)pervenutoci grazie a Bettina, la storica "amante" di Goethe, Bettina infatti in una lettera (da ricordarsi come sia stato provato a livello filologico che tutte o quasi le lettere appartenenti all'epistolario di Bettina siano state da lei falsificate e modificate) racconta di come una volta Goethe e Beethoven si fossero incontrati presso Teplitz, e di come avessero deciso di fare una passeggiata per conoscersi. Durante la passeggiata, lungo un viale alberato, si legge nella lettera, i due incrociarono l'imperatrice con la famiglia e la corte. Goethe, accorgendosene, smise di ascoltare quello che Beethoven gli stava dicendo, si fece da parte sul margine della strada e si tolse il cappello. Beethoven (il romantico, il rivoluzionario, l'antifilisteo e l'antiborghese, servo solo dell'assoluto di cui lui stesso si sente parte ) invece si calò decisamente il cappello sulla fronte, aggrottò le folte sopracciglia e continuò a camminare senza rallentare il passo. Perciò furono i nobili che si fermarono, si fecero da parte e salutarono. Solo quando fu ad una certa distanza da loro, Beethoven, si girò ad aspettare Goethe e gli disse tutto quello che pensava di lui e del suo servile comportamento da lacchè.
Altri elementi riconducibili alla contrapposizione con il mondo borghese presenti nel Lupo della steppa, sono quelli relativi alla forma, si tratta infatti di un romanzo surrealista (è noto come il surrealismo sia una fuga dal modo di vedere la realtà tipicamente razionalista), alla grande importanza data alla dimensione onirica ed irrazionale in genere, alla assunzione di droghe a scopi allucinogeni, alla distruzione di tabù, quali quello del sesso omosessuale, bisessuale, di gruppo e dell'orgia animalesca.
Il decadentismo, la società, la scuola - Circa i rapporti tra Hesse e società, precedentemente ne abbiamo parlato in maniera esauriente, abbiamo visto come il suo rapporto con la società si esplichi in isolamento, non integrazione, nevrosi, rifiuto. Abbiamo visto come Hesse a livello politico non fu in grado di far valere la propria influenza sia durante la prima, sia sopratutto durante la seconda guerra mondiale proprio a causa di questa sua deficienza sociale.
Veniamo ora ad analizzare il suo rapporto con una struttura fondamentale della società di cui si interessò particolarmente soprattutto per motivi biografici: la scuola.
Hesse non riuscì mai a rapportarsi felicemente con questa istituzione (circa i suoi rapporti con la scuola, da studente, si vada a rivedere il capitolo precedente), emblematici di questo sono molti suoi personaggi, ne citeremo i più rappresentativi: Hans Giebenrath, il protagonista del bellissimo racconto-romanzo Sotto la ruota, che a causa della sua ambientazione nella società, ma specialmente nel prestigioso istituto in cui grazie alle sue capacità era riuscito ad arrivare, trova la morte (come d'altra parte il suo compagno, Heilner, al quale lo legava forse qualcosa di più di un amicizia profonda, qualcosa che sfociava in un amore platonico di tipo omoerotico); Boccadoro che fugge dal monastero dove era studente e vive una vita antitetica a quella accademica del suo opposto dialettico Narciso (anche tra in questo caso c'è la presenza di una velata e presunta omosessualità, sopratutto nei primi rapporti tra i due); Hans Amstein, uno studente che ugualmente trova la morte, protagonista dell'omonimo racconto; racconto che si chiude con queste parole "...Al giorno d'oggi i suicidi di studenti non sono più una rarità, ma a quel tempo si aveva rispetto per la vita e per la morte e si parlò ancora a lungo del mio amico Hans."
Per concludere il tema dei rapporti tra Hesse e la scuola riteniamo doveroso parlare della lettera che avrebbe voluto scrivere ad un istituto che gli chiedeva di poter scolpire alle pareti del proprio edificio citazioni tratte dalle sue opere.
In questa lettera, che viene riportata nel suo vasto epistolario con Mann ( N.123, fine Ottobre 1951), l'autore di Damian risponde ai dirigenti dell’istituto dicendo che non permetterà che lo facciano per due motivi: per il bene delle sue opere, perché se venissero scritte sui muri della scuola automaticamente andrebbero ad appartenere all'insieme della cultura morta, dell'erudizione storicizzata ed innocua, del sapere ingessato che lui aveva tanto disprezzato in gioventù e che tanti problemi gli aveva creato, perchè così facendo le nuove generazioni avrebbero odiato la sua produzione ( ne viene fuori che lui non vuole che la sua opera divenga materia di studio delle scuole perché il risultato sarebbe quello di rovinarla; "quello che la scuola tocca la scuola sporca, imputridisce"); e per il bene dell'istituto stesso: Hesse immagina che, in un futuro prossimo, la società e le istituzione saranno completamente avverse a lui e distruggeranno le sue opere e con esse chi aveva aderito alle loro idee e chi ne era ammiratore (ne viene naturalmente fuori il suo insanabile contrasto con la società).
Il decadentismo e l'omosessualità- Parlando della produzione letteraria di Hesse non è facile intravedere, ne’ tanto meno isolare, il tema dell'omosessualità, che in realtà si presenta più come omoeroticità; ma si tratta invece di un tema fondamentale e concretamente presente in varie opere.
L'importanza di questo tema, in ambito decadente, verrebbe da pensare sia direttamente proporzionale al suo rifiuto nel sistema di valori della società borghese: dal momento che questa disprezza l'omosessualità e tende a isolare e non integrare gli omosessuali sarebbe infatti quasi naturale che questi divenissero parte integrante del ''patrimonio" dell'artista decadente.
In effetti, ad una prima e superficiale occhiata, sembrerebbe così: parlando di omosessualità e decadentismo, viene spontaneo pensare a Rimbaud ed altri poeti maledetti, ad Oscar Wilde, a Gide, a Musil, a Mann (che però non parlò mai della propria bisessualità, e che volle che i suoi diari, che ne erano la prova, fossero aperti e letti solo venticinque anni dopo la sua morte.)
Ma questa prima lettura è ingannevole.
E' vero che un artista omosessuale è più facile che sia decadente, sì (logicamente perché l'omosessuale si sente un escluso, un non integrato, un diverso, tutti presupposti essenziali dell’artista decadente), ma non è assolutamente vero che gli artisti decadenti abbiano una particolare sensibilità per gli omosessuali; non è vero che l'omosessuale appartiene alla vastissima gamma di topos tipici dei decadenti, di cui fanno parte: lo straniero, lo sradicato , il diverso( diverso per qualsiasi caratteristica che non sia la sessualità ), l'idiota, il perverso, il criminale, l'omicida, il vagabondo, il suicida, l'escluso, il saltimbanco , la prostituta.... Eppure è strano, l'omosessuale ha tutte le caratteristiche necessarie per appartenervi.
Non troppo strano se pensiamo che il mondo occidentale è stato schiavo del "Vaticano" per centinaia di anni e che molte delle idee di quest'ultimo si sono inculcate nella cultura occidentale (quella in cui il decadentismo si sviluppò) in maniera troppo stabile, si sono stampate in maniera indelebile. Non è troppo strano se pensiamo che dalla caduta dell'impero romano (in verità da molto prima) alla scoperta dell'America (in realtà molto dopo) tutta l'Europa visse sotto la teocrazia, la paura, l'ignoranza, la superstizione tipiche del medioevo. Proprio in questo periodo storico si andarono a formare molti degli elementi costitutivi dei sistemi di valori che ancora oggi sono in atto, anzi che alla fine dell'800 e all'inizio del 900 (le epoche che ci interessano) erano in atto.
Il disvalore dell'omosessualità divenne troppo forte, ma soprattutto troppo radicato, anche perché poi questa si contrapponeva sia al mito della forza, della virilità, della cinica e barbara mascolinità, sia a quello della produttività, dell'efficienza, dell'agire solo secondo ragione ed utilità, sia a quello della puritana moralità di stampo escatologico da opporre all’epicureismo ed ad ogni forma di edonismo materialistico.
Fu così che questo presunto disvalore arrivò ad essere così solido che nemmeno la mentalità dissacrante del decadente riuscì a scalzarlo con successo; fu così che il decadente si identificò con la puttana, ma non con l'omosessuale.
Ritornando ora ad Hesse facciamo notare che trattò questo tema in maniera più o meno esplicita nel Lupo della steppa dove troviamo il rapporto tra il protagonista e Pablo ed in Narciso e Boccadoro e Sotto la ruota secondo le modalità accennate nel paragrafo precedente. Nelle altre opere rapporti tra adolescenti dello stesso sesso molto stretti ed in parte equivoci sono frequenti ma non viene mai menzionato un coinvolgimento sessuale.
Tutte le volte che comunque troviamo un rapporto di questo tipo l'omoerotismo velato è trattato come strettamente correlato ad un aspetto fisico bello e alla giovinezza, noteremo infatti che i soggetti che ne sono protagonisti vengono descritti in maniera inconsuetamente precisa ( sopratutto se rapportiamo queste descrizioni con le altre)e ne vengono messi in risalto i dettagli che hanno più valore estetico. L'omosessualità in Hesse è ricollegata al tema della naturalità, della sensibilità, dell'autenticità precristiana, ellenica, forse addirittura preistorica, della vita integra, precedente alla scissione interiore.
Anche nel nostro autore non c'è un’identificazione con l'omosessuale, visto come simbolo dell'antiborghesia (se escludiamo qualche frase frammentaria ed assolutamente episodica nel Lupo della steppa, ma si tratta di fantasie, di sogni, di perversioni immaginarie, che non si traducono mai in fatti reali.)
La regola della non accettazione dei doveri - Un altro aspetto riconducibile al decadentismo, ma che ha una matrice biografica ben precisa di cui abbiamo già parlato, è un particolare tipo di rifiuto della società: la regola della non accettazione dei doveri.
La vita del nostro autore è ghermita di esempi di questo comportamento, ma se ne possono trovare anche nelle sue opere: il Lupo della steppa, Boccadoro, Siddharta e molti altri.
Ma lasciamo che a spiegare la genealogia e le applicazioni della regola della ribellione di fronte al Dovere siano direttamente le parole eloquenti di Hesse in persona: "Sono figlio di genitori pii che ho amato teneramente e che ancor di più avrei amato se non mi avessero fatto conoscere per tempo il quarto comandamento. Purtroppo i comandamenti hanno sempre avuto su di me un effetto fatale, per giusti e buoni che fossero... io che per natura sono un agnello e facile da guidare come una bolla di sapone, mi sono sempre comportato da ribelle specialmente durante la giovinezza, di fronte a comandamenti di qualsiasi genere. Bastava che udissi un <<Devi>>per sentirmi rivoltar tutto e rendermi ostinato. Si può immaginare se questa caratteristica ebbe un grande e dannoso influsso suoi miei anni di scuola. I nostri maestri infatti in quella divertente materia che chiamavano storia mondiale ci insegnavano bensì che il mondo era sempre stato retto, governato, guidato e trasformato da uomini che si sono dati una legge propria violando quelle tradizionali, e ci dicevano che simili uomini sono degni di venerazione. Ma questo era menzogna come tutti gli altri ammaestramenti, perché se uno di noi, con buona o cattiva intenzione, aveva una volta l'ardire di protestare contro qualche legge, o anche soltanto contro qualche stupida abitudine o una moda, non veniva ne' venerato, ne' raccomandato come esempio, ma castigato schernito ed oppresso dalla vile superiorità degli insegnati."
Autenticità, natura, sensibilità- Lo scritto che abbiamo appena citato è Breve cenno autobiografico del 1925, questo frammento di grande importanza continua così: "Per fortuna ciò che nella vita è importante, il più prezioso, l'avevo imparato prima dell'inizio della scuola: avevo sensi delicati, desti, fini su cui contare per trarne godimento, ed anche se più tardi soggiacqui da insano alle lusinghe della metafisica, ed a volte perfino macerai e trascurai i miei sensi, tuttavia mi è sempre stata familiare un'atmosfera di sensualità raffinata, soprattutto per quanto riguarda la vista e l'udito, ed essa ha sempre giocato una parte vivace nel mondo dei miei pensieri, anche quando sembravano astratti. Mi ero dunque procurato un ben determinato e fondamentale strumento prima dell'inizio della scuola."
In questa citazione troviamo un altro filone importantissimo del pensiero di Hesse: la natura e la sensibilità, da opporre al progresso, la cultura e la ragione; rimandiamo la trattazione di questa come di molte altre opposizioni tipiche del nostro autore al paragrafo successivo. Ci preme ora invece metter in evidenza l'importanza della natura e della sensibilità in due precisi contesti: quello di Siddharta in cui il saggio Vasudeva, una persona semplicissima, non contaminata dalla cultura e dalla civilizzazione, ha imparato tutto quello che sa, e si tratta di un patrimonio di conoscenze inestimabile, ascoltando il fiume sulle rive del quale vive; e quello di Peter Camenzind; Ervino Pocar ( uno dei più grandi esperti del nostro autore al mondo, nonché colui al quale dobbiamo la traduzione in italiano di tutte o quasi le opere di Hesse, ma non solo di lui)parlando di Camenzind, nella sua celebre introduzione all'opera del nostro autore per la collana Collezione premi nobel, dice testualmente:" Osserva la natura con occhio ironico e ne fa la critica con baldanza giovanile. Il mondo gli appare troppo pasciuto e soddisfatto perché possa godere di una vita nobile e libera. Nella smania di tornare alla natura egli ripete in piccolo la ribellione eroico-sentimentale di Rousseau e per questa via diventa poeta. Camenzind non sa niente di più bello che vagabondare oziando per i prati e le rupi, è un genio in fatto di pigrizia; il contatto con la natura, con le piante e le bestie gli impediscono di acquistare attitudini sociali." A questo punto a nostro giudizio è interessante e paradigmatico citare la parte del Peter Camenzind in cui il protagonista parla di un poema che avrebbe voluto scrivere, ma che poi di fatto non scrisse mai: " Come sapete, nutrivo il desiderio di avvicinare mediante una grande opera poetica gli uomini di oggi alla grandiosa vita della natura. Volevo insegnar loro il palpito della terra, a partecipare alla vita universale e non dimenticare, nell'urgenza dei loro piccoli destini, che non siamo divinità create da noi stessi, ma figli e particelle della terra e del cosmo. Volevo rammentar loro che, come i canti dei poeti e i sogni delle nostre notti, anche i fiumi, i mari, le nuvole migranti e le tempeste sono simboli e basi di quella nostra nostalgia che tende le ali tra cielo e terra e la cui meta è rappresentata dall'indubitabile certezza del diritto di cittadinanza e dell'immortalità di tutti i viventi. L'intimo nocciolo di ogni creatura ha la sicurezza di questi diritti, proviene da Dio e riposa senza tema in grembo all'eternità. Tutto ciò invece che abbiamo in noi di cattivo, di malato, di corrotto è in contraddizione e crede nella morte. Ma volevo anche insegnare agli uomini a trovare nel fraterno amore per la natura una fonte di gioia e un fiume di vita; volevo predicare l'arte di guarire, di viaggiare, di godere e di assaporare le cose presenti. Volevo che montagne, mari e isole verdi parlassero a voi un potente e lusinghiero linguaggio e volevo costringervi a vedere quale vita smisuratamente varia fiorisca e trabocchi ogni giorno fuori dalle vostre case e dalle vostre città. Volevo ottenere che vi vergognaste di essere più informati sulle guerre all'estero, sulla moda, sulla letteratura e le arti che non sulla primavera tumultuante davanti alle vostre città, sul fiume scorrente sotto i vostri ponti, sui boschi e sui magnifici prati attraversati dalle vostre ferrovie. Volevo indicarvi quale aurea catena di godimenti indimenticabili io, solitario e uomo difficile, abbia trovato in questo mondo: volevo che voi, essendo forse più felici e più vecchi di me, scopriste questo mondo con gioia ancora maggiore."
Narciso e Boccadoro, Nietzsche, la Nascita della tragedia dallo spirito della musica ed Hegel- In questo paragrafo dal titolo anomalo ed altisonante, come abbiamo anticipato precedentemente parleremo dell'importanza della contrapposizione tra due elementi diametralmente opposti,
Hesse riprende questo concetto da Hegel ed in particolare dalla sua dialettica (che naturalmente non ci metteremo qui a trattare, sia per la nostra innata antipatia verso Hegel, sia per motivi di spazio, sia perché in questo sito è minuziosamente spiegata nella sezione riguardante l'autore dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche.).
In particolare tutti o quasi i fenomeni culturali, naturali e sociali possono per Hesse essere spiegati come la dialettica tra due forze antitetiche, una dialettica che molto spesso però perde la sua dinamicità e rimane statica, in maniera a nostro giudizio imbarazzante, fermandosi al secondo momento e non raggiungendo, il terzo quello della sintesi.
Le due forze opposte di base, dalle quali poi dipendono tutte le altre, Hesse le riprende da Nietzsche, e precisamente dalla sua prima opera fondamentale: La Nascita della tragedia.
Naturalmente le due forze sono Dionisiaco ed Apollineo.
Al Dionisiaco, dal quale si sentiva più attratto, Hesse associa: Boccadoro, la notte, la madre, l'istinto, la femmina, la materia, l'irrazionale, l'inconscio, la natura, il mistero, la luna, il sogno, la vita attiva, l’essere, i cinque sensi.
All'Apollineo associa i loro opposti: Narciso, il giorno, il padre, la ragione, l'uomo, lo spirito, il razionale, il conscio, la civiltà, la certezza, il sole, l'ebbrezza, la vita contemplativa, l’avere, il pensiero.
Nietzsche e la verità, Dostoevskij e la verità, la psicanalisi…e la verità - Quando nel primo paragrafo di questo ultimo capitolo del nostro saggio abbiamo asserito che " i suoi maestri figurano anche tra i padri del decadentismo" ci riferivamo in particolare a Dostoevskij e Nietzsche che, oltre a molti, moltissimi spunti di riflessione, della maggior parte dei quali abbiamo già parlato, gli diedero anche un qualcos’altro di grandioso, che cambiò radicalmente la sua vita e si integrò, modificandole con tutte le altre componenti sociali e culturali che la caratterizzavano, ci riferiamo al desiderio, all'esigenza di verità.
E' proprio questo bisogno di verità, di Assoluto (non scordiamoci che il nostro autore è anche un romantico) che caratterizza quasi tutti i personaggi di Hesse, Siddharta in primis, ed è proprio questo bisogno di verità, di cui avevamo parlato nel primo capitolo senza precisarne l'origine, che fece sì che Hesse divenisse un ''filosofo" ed un artista secondo modalità che ormai ci dovrebbero essere ben note.
Nietzsche fonda tutta la sua opera sul coraggio di saper cercare, trovare ed accettare la verità (il primo capitolo di Ecce Homo pensiamo ne sia l’esempio più eloquente), un coraggio comune a pochi, proprio perché il peso della verità stessa è enorme, proprio perché forse vivere nella falsità, in mezzo a fantasticherie metafisiche che possono raggiungere livelli di perfezione, complicatezza ed astrattezza inauditi è più facile, ma non solo, perlomeno all'apparenza, anche più felice.
Dostoevskij, a nostro parere uno dei più grandi romanzieri e conoscitori dell'uomo, fa di questa verità la sua arte, i suoi meravigliosi romanzi sono in gran parte confessioni che i personaggi fanno a se stessi e ad altri, confessioni di verità inconfessabili, l'uomo del sottosuolo, il personaggio più tipico di Dostoevskij non è altro che un uomo ormai distrutto,ormai oberato, ormai reso malato dalla verità. La verità che lo rende inadatto a vivere tra gli altri uomini che lo rende più evoluto degli altri, ma allo stesso tempo un loro schiavo, un verme.
Nel suo celebre volume Storia della filosofia occidentale Bertrand Russell, nel capitolo relativo a Nietzsche, parlando di Dostoevskij dice: " non ha nulla a che fare con l'orgoglio propriamente detto, ha peccato per pentirsi e godere della lussuria della confessione"; noi non siamo del tutto d'accordo con questa riduttiva interpretazione del filosofo e matematico inglese, l'abbiamo però riportata solo perché a nostro giudizio rendeva bene l'idea dell'importanza, della potenza a volte morbosa, paralizzante e perversa che ha, o meglio può avere, la verità, in tutte le sue forme, ma soprattutto in quella della confessione.
Oltre che figurare tra i padri del decadentismo Nietzsche e Dostoevskij figurano anche come predecessori di Freud e della psicanalisi: la psicanalisi si basa fondamentalmente sul ricercare quella verità che molto spesso non siamo in grado di accettare, che ci crea disturbi psichici, nevrosi, che ci appare distorta nei sogni: l'inaccettabile verità dell'inconscio e delle sue pulsioni.
E' per questo che Hesse amò particolarmente la psicanalisi e le chiese aiuto in molteplici occasioni quando si trovò in difficoltà: lui non aveva problemi a cercare la verità, il suo scopo era anzi trovarla; non è quindi un caso che dal Demian in poi usi questa tecnica anche a fini artistici.
Fenomeno, noumeno, Schopenauer ed Il mondo come volontà e rappresentazione- Alla fine del Gioco del perle di vetro, nell'ultima delle tre vite: Una vita indiana, il saggio yoghino ci spiega che il nostro mondo, la realtà che noi percepiamo ed in cui viviamo è solo fenomeno, è così ma potrebbe essere diversa, anzi ci sembra così, ma potrebbe sembrarci diversa, è mutevole, è materia, è superficiale, ha vincoli spazio-temporali, è in un certo senso fittizia.
La vera realtà, quella del noumeno, quella profonda, quella spirituale, quella necessaria, quella atemporale e aspaziale, quella del Pellegrinaggio in oriente, è un’altra, ma noi non riusciamo a percepirla perché è coperta dal Velo di Maya, che ce la rende inaccessibile. Questi concetti Hesse li riprende nettamente e forse in maniera pedissequa da Schopenauer, senza arricchirli più di tanto. Per questo non ci soffermeremo a darne una spiegazione più approfondita, segnaleremo però a chiunque abbia qualche problema con la metafisica ed in particolar modo con quella del Mondo come volontà e rappresentazione, che può farsene un idea e averne una spiegazione molto semplificata, ma anche molto chiara in questa terza vita, pertanto gliene consigliamo la lettura: mentre Schopenauer tratta, infatti, questi concetti in maniera teorica e secondo modalità logico astratte, Hesse ce ne fa un esempio pratico, tra le altre cose di buon valore letterario, e li tratta secondo le modalità tipiche del pensiero narrativo (quello che secondo Bruner, a nostro giudizio a ragione, ci permette di capire, memorizzare e classificare)
Simenon, L'immagine del treno , la prefigurazione della fine e la magia-Vogliamo chiudere questo nostro saggio che ci ha rubato molte ore del nostro prezioso tempo, ma che pensiamo possa esserci stato utile, e possa allo stesso tempo essere utile a molti altri, visto che non se ne trovano di simili in commercio, con una citazione che riguarda il modo in cui Hesse immagina la sua fine, prima però riteniamo indispensabile fornirne delle chiavi di lettura interessanti: la prima riguarda la presenza della figura del treno, quel treno tanto caro a Simenon che nell' Uomo che guardava passare i treni, fa dire al suo depravato protagonista, l'irriducibile Kees Popinga, che l'immagine del treno, del treno di bassa classe, che sul fare della notte si allontana, è un immagine pericolosa, è un immagine a tutti gli effetti antiborghese, un' immagine tentatrice, che spinge l'uomo ad abbandonare la realtà in cui vive, i propri vecchi schemi mentali fatti di gesso, la propria mentalità fatta di valori inautentici, il treno è il simbolo dell'avvenuto sradicamento di un filisteo dal suo antico e deprecabile contesto.
La seconda è la constatazione di come per Hesse la "morte" sia l'ultimo stadio di un progressivo sgretolarsi, di una graduale dissoluzione dei legami con questo mondo, con questa finta realtà fenomenica, di come non sia altro che la degna esaltazione dell'irrazionalità, del mistero, dell'onirico, del surreale, del magico dopo aver passato tutta una vita a combattere la razionalità nelle sue forme più pericolose: il raziocinio e la razionalizzazione.
"All'età di più di settant'anni, subito dopo che ben due università mi avevano conferito la laurea ad onorem, fui trascinato in tribunale per aver sedotto con arti magiche una giovane ragazza. In carcere chiesi il permesso di occuparmi di pittura. Mi fu concesso. Degli amici mi portavano colori e pennelli, ed io dipinsi sulla parete della mia cella un piccolo paesaggio. Ancora una volta ero dunque tornato all'arte; tutti i naufragi che avevo subito come artista non mi poterono minimamente impedire di vuotare ancora una volta l'aureo calice, di erigere ancora una volta davanti a me, come un bambino che gioca, un piccolo e caro mondo immaginario e saziarmene il cuore, respingendo ancora una volta ogni saggezza astratta per ricercare la primitiva gioia della creazione. Mi misi di nuovo a dipingere, mescolai i colori, e vi intrisi i pennelli; ancora bevvi con rapimento l'infinito incanto: il chiaro suono allegro del cinabro, quello pieno e limpido del giallo, quello profondo e toccante dell'azzurro, e la musica delle loro mescolanze fino al più lungo e pallido grigio. Infantilmente felice continuai il mio gioco creativo dipingendo un paesaggio sulla parete della mia cella. Esso comprendeva quasi tutto ciò che mi aveva dato gioia nella vita, fiumi e monti, mari e nuvole, contadini alla mietitura, ed una quantità di altre cose belle di cui soddisfarmi. Ma nel mezzo del quadro passava un minuscolo treno, che si spingeva su per un monte, con la testa che era già entrata in un piccolo tunnel, dal cui imbocco scuro usciva a fiocchi il fumo.
Il mio gioco non mi aveva mai incantato come stavolta. In questo ritorno all'arte scordai non solo che ero un prigioniero, un accusato con poche probabilità di terminare la sua vita altrove che in un penitenziario... dimenticai perfino le mie esercitazioni magiche: mi pareva d'esser sufficientemente incantatore quando riuscivo a creare col mio pennello sottile una minuscola pianta, una piccola nuvola chiara.
Intanto la così detta realtà, con cui mi ero ormai guastato del tutto cercava con ogni mezzo di schernire il mio sogno continuando a distruggerlo. Quasi ogni giorno mi si veniva a prendere, mi si conduceva sotto scorta in ambienti estremamente antipatici, dove in mezzo a una quantità di carta c'erano delle antipatiche persone che continuavano ad interrogarmi, e non volevano credermi, mi sgridavano, trattandomi ora come un bambino di tre anni, ora come uno scaltro delinquente. Non occorre essere degli accusati per conoscere questo strano e veramente dannato mondo delle cancellerie, della carta stampata e degli atti. Di tutti gli inferni che stranamente l'uomo ha dovuto crearsi, questo mi è sempre apparso il più infernale. Basta che tu voglia traslocare o spostarti, che tu desideri un passaporto un certificato di nazionalità, ed eccoti piombato in quest'inferno: devi sciupare ore intere nei locali senz'aria di questo mondo di carta, interrogato e svillaneggiato da persone annoiate e tuttavia frettolose e malevole; per le più semplici e sincere dichiarazioni non trovi che diffidenza e ti trattano come uno scolaretto o un malfattore. Ebbene, è cosa nota a tutti. Da tempo sarei soffocato ed inaridito in quell'inferno di carta, se i miei colori non mi avessero sempre di nuovo consolato e divertito, se non avesse continuato a darmi respiro e vita il mio quadro. Il mio piccolo bel paesaggio.
Davanti a quell'immagine stavo un giorno nella mia prigione, quando vi irruppero un'altra volta le guardie con i loro noiosi inviti, e vollero strapparmi al mio felice lavoro. Allora sentii una stanchezza, come una nausea per tutta quella faccenda e per la realtà nel suo complesso, brutale ed insulsa. Mi sembrò come mettere fine ad uno strazio. Se non mi era concesso di giocare indisturbato il mio innocente gioco di artista, mi vedevo costretto a servirmi di quelle mie più serie arti cui avevo dedicato tanti anni della mia vita: senza magia quel mondo era insopportabile.
Mi ricordai del antico precetto cinese: tenni il fiato per la durata di un minuto liberandomi dell'illusione della realtà. Pregai gentilmente le guardie di aver pazienza ancora per un momento perché dovevo salire sul treno del mio quadro per vedere una cosa. Essi come al solito risero, credendomi tocco nel cervello.
Allora io mi feci piccino ed entrai nel quadro, salii sul trenino e penetrai con esso nel tunnel nero. Per un istante si vide ancora uscire il fumo fioccoso dall'apertura rotonda, poi il fumo si ritirò e svanì, e con esso tutto il quadro con me insieme.
Le guardie se ne rimasero la completamente interdette."
A cura di Andrea Zandomeneghi