SINTESI DELL’IDEA DELLA FENOMELOGIA

DI EDMUND HUSSERL

 

 

Le cinque lezioni sull’Idea della fenomenologia (Die Idee der Phänomenologie. Fünf Vorlesungen, 1907; tr. it. a cura di C. Sini, Laterza, Roma-Bari 1992) furono tenute da Edmund Husserl presso l’Università di Gottinga dal 26 aprile al 2 maggio 1907. Esse sono successive alle Ricerche logiche, con le quali intrattengono, a tratti, un rapporto polemico, come se Husserl volesse in certo senso prendere le distanze da quell’opera. L’ Idea della fenomenologia è un testo particolarmente significativo perché traccia con una precisione sorprendente e con una chiarezza, potremmo dire, “cartesiana” le coordinate della nuova “scienza delle pure essenze” scoperta da Husserl.

La I lezione si apre con la distinzione husserliana tra la “conoscenza scientifica” e la “conoscenza filosofica” (cioè fenomelogica). La prima è una forma di conoscenza ingenua, acritica, la quale si muove sul terreno dell’atteggiamento naturale dell’accogliere il mondo e i suoi enti come esistenti e reali in maniera ovvia e non bisognosa di spiegazioni. È una forma di conoscenza ingenua e acritica perché non si pone il problema della “possibilità della conoscenza in assoluto”, ossia del fondamento della sua possibilità. Il mistero del conoscere non viene neppure sfiorato dalla conoscenza scientifica. Su questo problema, che assume i tratti del mistero, si concentra invece la conoscenza filosofica, la quale pone in discussione la “correlazione” implicata in ogni conoscenza: cioè il rapporto tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Che cosa garantisce al soggetto di conoscere qualcosa di effettivamente esterno a se stesso? Già Cartesio s’era accorto di questo problema, nel quale si annidano gli eterni problemi della filosofia e i pericoli della caduta nello scetticismo. Questo problema viene risolto dalla fenomenologia, che è un atteggiamento, un “metodo nuovo” (p. 53) tramite il quale la filosofia si pone nelle condizioni di poter conquistare finalmente “una dimensione nuova rispetto a ogni conoscenza di tipo naturale” (p. 52) e autonoma, un nuovo inizio e una nuova legittimità.    

Con la lezione II, Husserl tratteggia il metodo fenomenologico, instaurando un proficuo dialogo con Cartesio. Il primo gesto che il fenomenologo deve compiere è quella “sospensione di giudizio” (epoché), in forza della quale viene messa tra parentesi l’esistenza del mondo: esistenza che, come abbiamo visto, veniva ingenuamente data per scontata dal sapere scientifico. L’atteggiamento fenomenologico non deve “lasciar valere alcuna datità” (p. 54): non deve cioè accettare alcunché come scontato. Ma nel porre ogni cosa tra parentesi, lasciandola avvolgere dal dubbio, ci si imbatte nel problema su cui si affaticò lo stesso Cartesio: se si dubita di ogni cosa, “allora si deve poter esibire un essere che noi dobbiamo riconoscere come assolutamente dato e indubitabile” (p. 55) in quanto assolutamente chiaro. Come aveva detto Cartesio, questo essere di cui non si può dubitare è il soggetto dubitante stesso: posso dubitar di tutto ma non del fatto che io sto dubitando; in termini husserliani, “è indubbiamente certo che io dubito” (p. 55). Ma è anche certo che le mie cogitationes (ossia le cose che percepisco, rappresento, giudico, inferisco) non sono avvolte dal dubbio: “è assolutamente chiaro e certo che io percepisco questo o quest’altro” (p. 56). In altri termini, non posso dubitare né di me come soggetto dubitante né delle percezioni che ricevo: non posso cioè dubitare del blu del divano che vedo, ad esempio. Ciò non significa che il divano percepito esista effettivamente e sia fuori di me: questo, infatti, resta in dubbio. Significa piuttosto che “le figure di pensiero che io attuo realmente mi sono date, purché io rifletta su di esse, le rilevi e le ponga in un puro guardare” (p. 56). In questa maniera, l’atteggiamento fenomenologico si configura come un “puro guardare” incentrato sulla “piena chiarezza offerta allo sguardo” (p. 59): si tratta di una “chiarezza di tipo essenziale” (p. 59), che ha cioè a che fare con le “pure essenze” e non con le esistenze. E la “trascendenza” che accompagna ogni conoscenza (vale a dire il fatto che le cogitationes rimandino a qualcosa di esistente in sé e fuori di me) resta nel dubbio, posta “tra parentesi” al fine di poter indagare su quell’enigma essenziale della conoscenza che è la sua pretesa di trascendenza. La fenomenologia è allora una “critica della conoscenza” (p. 60) che si propone di “illuminarci sull’essenza della conoscenza” (p. 60).

Con la III lezione, Husserl mette in chiaro come l’assunzione delle cogitationes come terreno di indagine fenomenologica non significhi assumerle come meri fatti psicologici. In ciò egli si oppone allo psicologismo. L’epoché ha messo tra parentesi pure le validità psicologiche e le ovvietà antropologiche (ad esempio, l’uomo inteso come ente del mondo). Lo “sguardo puro” della fenomenologia ha ora dianzi a sé, nelle cogitationes come dati assoluti, degli assoluti fenomeni di conoscenza slegati dall’esistenza. Tali cogitationes si riferiscono “intenzionalmente” (nella misura in cui la coscienza si dà sempre come “coscienza di”, cioè diretta verso qualcosa) a qualcosa che è reale e oggettivo, sì, ma in senso “trascendente”, vale a dire come modo di darsi del fenomeno. Si perviene così alla fenomenologia come “scienza dei puri fenomeni” (p. 77), sganciati dalla loro esistenza (la quale resta tra parentesi). Grazie alla “riduzione fenomenologica” (p. 74), il mondo intero è ridotto a pure essenze della cui esistenza non ci si cura: la fenomenologia è per l’appunto scienza dei puri fenomeni quali ci si donano incessantemente alla coscienza. In questo modo, si mette “saldamente piede sulla nuova terra” (p. 77) della fenomenologia: occorre però evitare di finire in balia delle “bufere dello scetticismo” (p. 77).

Ma se, sospesa l’esistenza, si ha a che fare con puri fenomeni, non si torna forse al pànta rei di cui diceva Eraclito? Non si ha, in altri termini, un sempre cangiante flusso di contenuti in divenire e accidentali? Come si potrà far scienza del mutevole e dell’accidentale? Husserl ribatte che occorre guardare le cose in maniera “chiara e distinta”, secondo l’insegnamento di Cartesio: da quest’ultimo, Husserl recupera la nozione di “clara et distincta perceptio” (p. 83), la quale garantisce la certezza e la validità delle cogitationes: possiamo usare tranquillamente ogni cogitatio di cui abbiamo una percezione chiara e distinta. Quando col “puro sguardo” ho intuizione del rosso del tetto della casa, con ciò stesso intuisco anche il senso universale del rosso, della cosa rossa, del tetto, della casa. Detto altrimenti, anche “universalità, cioè oggetti universali e stati di cose universali, possono pervenire ad assoluta datiti diretta” (p. 87). In questa maniera, la fenomenologia può essere scienza a tutti gli effetti.           

La lezione IV si concentra sul fenomeno dell’intenzionalità della coscienza, il suo immancabile tendere a qualche cosa. La riduzione del mondo a pure essenze non ci costringe nell’ambito di mere singolarità accidentali, ma anzi ci permette di cogliere l’universalità, come s’è preventivamente chiarito nella III lezione. Addirittura, il senso universale dei fenomeni osservati si manifesta da sé nei fenomeni stessi, senza che noi dobbiamo aggiungervi alcunché dall’esterno. È infatti il fenomeno ad avere immanentemente in sé l’oggettività “numero” piuttosto che “colore”, “percezione” piuttosto che “ricordo”. Queste datità universali sono un qualcosa “di ultimo e di assoluto” che non dev’essere revocato in dubbio. Invece, occorre distinguere tra ciò che è chiaramente dato a una pura ragione intuitiva da ciò che spesso l’intelletto astratto contrabbanda come se fosse direttamente osservato, mentre invece è frutto di ovvietà e di pregiudizi inconsapevoli. A questo proposito, dice Husserl: “intelletto meno che si può e intuizione più pura che si può (intuitio sine comprehensione)” (p. 103), nella convinzione che si debba “lasciare la parola all’occhio che guarda” (p. 103).

Con la lezione V si porta l’attenzione sul tempo: le universalità osservate tramite l’intuizione nel fenomeno si intrecciano con la singolarità del vissuto. Il “rosso in specie” si dà in questa percezione di rosso e in nessun altro modo altrove. Ma la percezione è un vissuto che dura nel tempo e che incessantemente intreccia il presente con l’appena passato. Inoltre, su di essa influisce il ricordo dei passati più lontani. Occorre chiarire il rapporto tra l’individualità (del vissuto) e l’universalità (del suo senso, della “specie”).  La specie “rosso” può altrettanto bene essere “ideata”, ossia resa oggetto di descrizione fenomenologica, sia che la si percepisca sia che la si immagini. Husserl dice che si descrive la “essenza individuale” (la “specie rosso” data hic et nunc) e non tanto l’esistenza individuale (questo percetto e questo immaginato). Si deve allora porre una “contrapposizione tra esistenza ed essenza”, in quanto modi diversi di datità. Ciò solleva immediatamente uno sciame di problemi: come dice Husserl, “si rivela che il puro essere della cogitatio non si presenta affatto, a una più precisa considerazione, come una cosa tanto semplice” (p. 111). Le cogitationes non sono tutte ugualmente oggettive e, per di più, la coscienza – lungi dall’essere un inerte contenitore di fenomeni – concorre a costituire i fenomeni, ad esempio coi suoi atti temporali. E vi concorre pure con “atti categoriali”, giacché essa non vedrebbe ciò che guarda se non vi aggiungesse all’istante i suoi giudizi, le sue categorie (questo è rosso, questo rosso è un tetto, ecc). Gli atti di pensiero coi quali la coscienza ha a che fare sono non di rado “immaginari” (ad esempio, “San Giorgio a cavallo”) e simbolici (ad esempio, il quadrato rotondo). Come sono possibili – si domanda Husserl – “questi puri miracoli?”.     

 

 

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