IERONIMO DI RODI

 

A cura di Diego Fusaro

 

 

 

Ieronimo di Rodi fu contemporaneo del neo-aristotelico Licone: mentre Licone impresse all’originaria dottrina aristotelica una svolta stoica, Ieronimo tentò di sposare l’aristotelismo con l’epicureismo. Alla luce di questi presupposti, non stupisce certo se tra Licone e Ieronimo – che pure erano entrambi di formazione aristotelica – non corse buon sangue: tra di loro vi fu quell’inimicizia che, a ben vedere, contraddistinse i rapporti tra Epicurei e Stoici (inimicizia che, detto per inciso, appare evidente quando Seneca deve giustificarsi, nelle Lettere a Lucilio, per aver cercato di prendere il meglio dalle due scuole rivali, comportandosi come un “esploratore” privo di preconcetti). In netta opposizione al rigorismo stoicheggiante di Licone – il cui modello restava quello stoico dell’autosufficienza del saggio –, Ieronimo sostenne apertamente l’identità tra il sommo bene e l’assenza di dolore: tesi, questa, chiaramente riconducibile al tema epicureo dell’atarassia, dell’aponia e dell’alupia. Per converso – spiega Ieronimo – il dolore coincide con il sommo male: tesi, anch’essa, squisitamente epicurea. Disponiamo di numerose testimonianze su Ieronimo, molte delle quali provengono da Cicerone. L’Arpinate – in forza della sua ben nota avversione per l’epicureismo – è assai critico verso Ieronimo, di cui rigetta – come del resto fa anche con Epicuro – l’insegnamento morale votato all’edonismo. Scrive Cicerone (De finibus, II, 3, 8):  

 

“– Ricordi la definizione che Ieronimo di Rodi dà del sommo bene, a cui ritiene si debba riferire ogni cosa?

– Sì; secondo lui il termine estremo è l’assenza del dolore.

– E sempre il medesimo che pensa del piacere?

– Dice che non è desiderabile per se stesso.

- Dunque ritiene che altro è provar gioia, altro dolore”.

 

E aggiunge, con tono decisamente polemico (De finibus, II, 13, 41):

 

“E non bisogna dar retta a Ieronimo, per cui il sommo bene si identifica con quello che voi talvolta, o meglio troppo spesso, dite tale: il non provar dolore. Giacché, se il dolore è un male, non è sufficiente per vivere bene mancare di tale male”.

 

L’obiezione di Cicerone a Ieronimo è lineare: l’eliminazione del dolore non basta per vivere bene. Il “vivere bene” (“eu zen”, secondo la terminologia dei Greci) è qualcosa in più, che non può essere ridotto – sulla scia di Epicuro e di Ieronimo – al “vivere-senza-dolore”. Occorre peraltro notare che, con il suo “edonismo” di marca epicurea, Ieronimo rischiava di uscire fuori dall’alveo dell’aristotelismo, non facilmente compatibilizzabile con la dottrina edonistica formulata da Epicuro. Una simile obiezione veniva già mossa a Ieronimo dallo stesso Cicerone, che notava acutamente (De finibus, V, 5, 14): 

 

“Tralascio molti, e fra questi Ieronimo, dotto e attraente, ma non so perché dovrei chiamarlo peripatetico, giacché propose come sommo bene la mancanza di dolore; e chi dissente sul sommo bene, dissente su tutto il sistema filosofico”.

 

Non è immotivata l’accusa ciceroniana: forse senza rendersene del tutto conto, con l’adesione all’edonismo – e alla sua identificazione del sommo bene con l’assenza di dolore – Ieronimo stava abbandonando la teoria aristotelica, che – a proposito del sommo bene – aveva sostenuto, come è noto, tesi decisamente diverse e, per di più, difficilmente compatibili con quelle edonistico-epicuree.

 


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