di Alessandro Pizzo
Il problema di discutere razionalmente l’esistenza di Dio (dimostrare in maniera oggettiva che Dio esista in re, attualmente, come esistono il sole e le stelle) esula dalla versione storiografica che è possibile attribuire ad Anselmo d’Aosta. Infatti, a dispetto della comune credenza al riguardo, non all’esistenza reale tende l’argomento anselmiano, ma alla verifica della legittimità teologica, razionale, anche solamente logica, di (dell’idea di) Dio[1]. Questa è la lettura che vorremmo proporre in questa sede, e vorremmo farlo sulla scorta della logica modale.
Dunque, erroneamente Kant, ad esempio, interpreta l’argomento quale dimostrazione (errata), su base ontologica (forse, considerata errata proprio perché di carattere metafisico), dell’esistenza di Dio (la quale, peraltro, non è sufficiente allo scopo in quanto postula più semplicemente un’esistenza ideale, solo possibile dunque, rispetto alla quale nulla può dirsi sulla sua esistenza reale o attuale[2]). Infatti, presupposto del Proslogion, così come di gran parte della riflessione filosofica medievale, non è tanto dimostrare che Dio esista, quanto legittimare (razionalmente) l’idea stessa di Dio, vedere se e come tale idea sia coerente con un impianto di fede comunque preesistente (porre la questione sulla fondatezza dell’idea di Dio al cospetto della ragione)[3]. Senza tener conto di questi elementi si corre il rischio di equivocare sul senso (come sull’importanza, anche storiografica) dell’«argumentum» proposto da Anselmo.
Allora, è bene precisare ancora quanto segue:
(a) il presupposto della fede non inficia la «prova» perché se la fede in Dio è già agente, ciò non comporta non utilizzare una metodologia che rispetti i criteri logici (vincolanti per qualsiasi pensiero e legati alla dimensione umana della ragione);
(b) la «prova» non è volta a confermare l’esattezza di una credenza (l’esistenza di Dio quale principio), ma a verificare se in qualche modo la fede in Dio possa essere incoerente con l’insieme delle credenze di chi ha una fede (dunque, preesistente alla «prova»);
infine, (c) scopo ultimo della «prova» è certamente costituito dalla determinazione del carattere epistemico dell’idea di Dio (se, cioè, possa o debba essere considerata, per chi già crede, un’idea anche solo possibile oppure necessaria).
Perché porsi il problema dell’esistenza di Dio? Forse, perché è centrale a tutto l’architrave culturale del Medioevo, di una filosofia che non può concedersi il lusso di riflessioni “pagane”. Questa questione va, dunque, affrontata con gli strumenti propri dell’uomo coevo: la fede da un lato e la ragione dell’altro (il nesso ineludibile, quanto ambiguo, di fides et ratio).
Pertanto, ragionando l’uomo secondo le leggi della logica, leggi per il retto pensare[4], diventa interessante studiare come si configuri il ragionamento di Anselmo. Ma ciò comporta, in primo luogo, e in una maniera rilevante, affrontare (anche solo a livello elementare) la problematica delle conoscenze logiche (lo stato dell’arte logica) nel periodo in cui Anselmo scrive (fine XI secolo). Infatti, si può essere tentati di affermare che poco si conoscesse di logica durante il Medioevo, e che quanto fosse conosciuto (logica vetus) distasse tanto da quella che comunemente consideriamo essere “logica” (la cd. logica modernorum). Ma è anche vero che un decisivo impulso agli studi sulla logica delle proposizioni (e ben prima di Frege, Russell et alii), e sulle loro determinazioni modali, venne proprio dalla riflessione medievale[5], alla quale concorsero, in misura maggiore rispetto all’evo moderno, la specificità della riflessione teologica coeva e la necessità di non distinguere l’aspetto sintattico da quello semantico (per meglio dire, la considerazione della inscindibilità di sintassi, semantica e metafisica, quest’ultima la principale dimensione della riflessione filosofica invece negata dalla logica moderna[6])[7]. Senza il Medioevo, infatti, la logica moderna non avrebbe mai potuto avere luogo né caratterizzarsi per le sue presupposizioni e per la sua elaborazione a partire dalla logica antica[8]. Un caso certamente emblematico di ciò è costituito, ad esempio (e a proposito, nel nostro caso), dalla logica delle modalità.
La fondazione della considerazione logica delle modalità caratterizza molti teologi medievali alla ricerca delle proprietà (possibili; necessarie; contingenti) degli enti in relazione all’Essere (in quanto tale e nella qualità di causa sui). Ad una considerazione modale non sfugge, ad esempio, l’argumentum anselmiano, non foss’altro che perché la ricerca sulla coerenza dell’idea di Dio riposa sulle considerazioni a metà strada tra la metateoria del modo delle enunciazioni teologiche (la classica distinzione tra modalità de re e modalità de dicto) e la teoria delle proprietà modali di Dio (assai affini ad una modalità di stati di cose).
Non costituisce tuttavia una novità la lettura logico – modale che presentiamo, ma sicuramente innovativa è la sua considerazione: quella che (in certa misura e sotto la giusta ottica) consente di precisare, chiarire, il senso complessivo della «prova» di Anselmo, nella cornice storiografica appena (forse, anche malamente) indicata.
Per il nostro lavoro, costituisce fonte privilegiata la proposta di Kordig (1981).
L’esame dell’argomento tende a distinguere tra due parti del medesimo:
1. da un lato, la versione classica secondo la quale a partire dalla stipulazione (minima) del nome del principio (Quo maius) si giunge alla sua possibilità ideale la quale, proprio in virtù della definizione iniziale, deve coincidere con l’esistenza reale, pena altrimenti la contraddizione, dato che pensare all’esistenza di un Essere maggiore di quello ideale vuol dire che l’Essere maggiore ideale non è tale[9] (principio, sul quale si appunteranno gli strali di Kant, Ryle e Gödel, consistente nell’equipollenza, logica però, forse non anche metafisica, tra exsistentia in intellectu e exsistentia in re);
2. dall’altro lato, invece, la distinzione tra secondo e terzo capitolo del Proslogion perché mentre il secondo capitolo intende la «prova» nella versione classica, il terzo mette in luce gli aspetti modali che intendiamo presentare.
Infatti, mentre la versione cd. classica presta il fianco ad una serie di obiezioni, tutte comunque riconducibili a quella relativa al salto compiuto dalla mera possibilità logica (esistenza possibile) all’esistenza reale (esistenza attuale)[10], la seconda versione è esente da queste critiche in quanto non predica l’esistenza quale attributo della perfezione, ma appunta la propria analisi sulla modalità dell’esistenza[11] (se, cioè, l’esistenza di Dio vada considerata necessaria, possibile o contingente[12]).
Come sappiamo, in un ruolo a volte misconosciuto, ma del tutto simile a quello svolto dal sofista nell’elenchos aristotelico[13], la «prova» prende le mosse dalla sfida posta al credente dall’insipiente[14] che nei Salmi 13 e 52 afferma inopinatamente, «osa dire»[15], che «Dio non esiste». Allora, è bene, secondo Anselmo stipulare una definizione minima di Dio, o attribuire al medesimo principio un altro nome «Ciò di cui non è possibile pensare alcuno di maggiore» (l’Essere rispetto al quale non si può pensare nulla di superiore), «aliquid quo nihil maius cogitari potest»[16], «l’idea di una intensità di essere oltre il quale non ne è pensabile una maggiore»[17], «a most perfect being»[18]. Tale Essere è, allora, quanto si dice, in termini deontici, un ente deonticamente perfetto.
In quanto tale, tale ente deve esistere. Ma il deve («Ought») implica, principio comune in etica e presente anche in Kant, potere («Can»). Allora, l’esistenza di Dio è anche possibile. Ma se è possibile che Dio esista, allora è necessario che Dio esista. Dunque, Dio esiste necessariamente. Questo il flusso di pensiero che conduce Anselmo ad asserire l’esistenza necessaria di Dio.
Ma, andiamo con ordine. Articoliamo l’argomento di Anselmo in due parti. Stante ‘G’ per la proposizione ‘Dio esiste’, abbiamo, allora:
(I)
(a) OG;
(b) OGÉMG;
(c) MG.
Gli operatori ‘O’ e ‘M’ sono operatori modali (l’uno deontico, l’altro aletico), agenti su proposizioni, che stanno, rispettivamente, per l’obbligatorietà e per la possibilità.
La catena (a) – (c) è un’inferenza costituita da due premesse e una conclusione. La prima premessa (a) è vera. Infatti, se Dio è l’essere più perfetto, allora (logicamente) deve esistere (se non altro come effetto della definizione di Dio quale ente deonticamente perfetto).
Anche la seconda premessa è vera. Infatti, se Dio deve esistere, allora è (anche) possibile che Dio esista.
Se le premesse sono vere, l’argomento è valido e ha una conclusione vera. Dunque, è (logicamente) possibile che «God exists»[19].
La seconda parte dell’argomento comincia dalla precedente conclusione per inferirne la necessità d’esistenza (se si fermasse qui Anselmo non avrebbe detto nulla di più di Gaunilone, non andando in nulla oltre l’obiezione delle Isole fortunate).
Allora, abbiamo:
(II)
(d) MG;
(e) MGÉLG;
(f) LG.
In questo caso, ‘L’ sta per la necessità modale.
Come abbiamo visto, la prima premessa è vera per come dimostrato nella parte (I) dell’argomento. Vera è anche la seconda premessa. Infatti, se l’esistenza di Dio è (logicamente) possibile, è anche (logicamente) necessaria, «otherwise, God wuold be contingent»[20]. Avremmo, cioè, la contraddizione logica (data dalla condizione contingente): MG&M~G (“è possibile che: Dio esista e non esista”). Invece, proprio per via della definizione iniziale di Dio come essere deonticamente perfetto il principio è non contingente: ~(MG&M~G) (“non: possibile che Dio esista e non esista”). Ciò vuol dire che l’esistenza necessaria è (logicamente) superiore all’esistenza meramente contingente.
Allora, può dirsi che «if it is logically possible that God exists, it is logically necessary that God exists»[21]. Dunque, la premessa (e) è vera. Di conseguenza, pertanto, è vera anche la conclusione: “è necessario che: Dio esista”; dunque, «necessarily, God exists»[22].
L’autore da noi preso in considerazione conclude che così presentato l’argomento non assume l’esistenza quale predicato della perfezione (del principio cui sogliamo attribuire il nome “Dio”), ma solo che, per di più dimostrandolo razionalmente, «necessary existence is better than contingent exsistence»[23]. Dunque, Dio deve (“Must”) esistere.
Certamente, due sono i passi problematici di tale lettura logico - modale, e che rinviano a due questioni che rimangono sullo sfondo del discorso teologico di Anselmo (e, forse, di tutta la riflessione medievale incentrata sulla interdipendenza tra logica, metafisica e teologia[24]).
Le premesse (b) ed (e), sulle quali si regge l’intero argomento, presentano i seguenti aspetti discutibili: (1) un (non del tutto legittimo) passaggio dalle modalità deontiche (da ‘O’) alle modalità aletiche (a ‘M’); e, (2) il trasferimento della proprietà aletica dalla possibilità alla necessità.
In merito a (1), ci sentiamo di dover dire che per quanto possa costituire un passaggio logico non del tutto legittimo in letteratura, dato che presupporrebbe comunque delle modalità ibride (o, al minimo, iterate), senza distinzione alcuna in termini di forme logiche tra le une e le altre, è anche vero che alcuni autori lo ritengono legittimo, fornendo anche dimostrazioni logiche della sua verità[25], evitando, data la natura necessitante di ‘OG’, di dover giustificare direttamente la possibilità di ‘G’[26].
In merito a (2), ci limitiamo ad osservare come il passaggio dalla possibilità alla necessità è meno pacifico in logica dell’inverso, ma, anche in questo caso, non sono certo mancati gli autori che hanno dimostrato la sua plausibilità logica.
D’altronde, tanto (1) quanto (2) sono relativi alla questione se, e sino a che punto, la definizione iniziale (“l’Essere di cui è impossibile pensarne uno maggiore”) sostiene il gioco inferenziale. Infatti, essa è garante della verità di (b) e di (e) perché, rispettivamente, (logicamente) se Dio è l’essere deonticamente perfetto, allora Egli deve esistere e la sua esistenza essere non contingente (ovvero, necessaria).
La definizione iniziale, accettata per reggere il gioco dell’insipiente, cui in definitiva spetta l’onere della «prova», funziona, garantendo validità, e, dunque, verità, alle parti (I) e (II) dell’argomento.
Tuttavia, ciò comporta un’altra questione, distinta ma a questa strettamente collegata, secondo la quale a far problema è il logicamente che consente i passaggi inferenziali. Infatti, quanto è logicamente è anche realmente? Cosa ci autorizza a sostenere che l’ideale corrisponda al reale? Quanto si dice essere logicamente può quindi anche dirsi in termini fattuali? Di fronte a tali rilievi problematici assume forma la reale portata della «prova» di Anselmo: non dimostrazione, benché razionale, dell’esistenza attuale di Dio, ma dimostrazione della sua possibilità logica: è intento di Anselmo, cioè, non quanto credono i suoi detrattori, dimostrare per via razionale l’esistenza reale di Dio, ma dimostrare per via razionale l’esistenza ideale di Dio al cospetto delle verità di fede e a partire dal contro - esempio negativo asserente la sua non esistenza.
Infatti, è sensato ritenere che noi non pensiamo in abstracto, ma all’interno di un reticolo sistematico di condizioni epistemiche[27]. Allora, la «prova» non dimostra che Dio esista in re, ma che la sua esistenza in intellectu non è incoerente, né mina la relativa coerenza, delle credenze epistemiche di quanti già credono.
Non si tratta, a ben vedere, di convincere gli atei, ma solo di dimostrare che la credenza in Dio è logicamente possibile (per gli atei) e necessaria per i credenti (tanto nei confronti di Gaunilone quanto nei confronti dell’insipiente). Solo così si spiega come mai Gaunilone sbagliasse bersaglio e come erroneamente Cartesio e gli altri epigoni moderni abbiano frainteso il senso della «prova» di Anselmo. Senso che una presentazione che si giovi della moderna formalizzazione logico – modale ha il pregio di scoprire, assicurandone una adeguata comprensione[28].
Tuttavia, data l’enorme fecondità del tema in oggetto, che ha interessato in molti, logici e filosofi, essendo (l’idea di) Dio in gioco[29], si potrebbe aggiungere la seguente difficoltà ulteriore: l’argomento di Anselmo non presenta la sua maggiore debolezza dal punto di vista dell’inferenza, che come abbiamo visto non presenta difficoltà di rilievo, ma da quello dell’interpretazione delle premesse e dalla loro giustificazione[30]. Come si vede, infatti, risolvere questa problematica coinvolge, sia pur limitatamente, il ragionamento modale in virtù del quale Dio deve esistere. Ma questa problematica, oltremodo interessante, non la si è potuta affrontare in questa sede, e la elenchiamo solo al fine di fornire una panoramica quanto più esaustiva (certo, non completa) dell’insieme di tematiche (e problematiche) che l’argomento anselmiano comporta.
Infine, vorremmo collocare questa lettura modale della «prova» di Anselmo all’interno delle nostre ricerche di logica deontica. Brevemente, come lo stesso fondamento logico – modale in Anselmo dimostra, successivamente all’XI sec., in una tendenza culminante nel XIV sec., la logica medievale supera la posizione di sudditanza nei confronti della logica antica conosciuta (logica vetus), portando avanti un rinnovamento dell’ars logica, comportando la nascita dello studio consapevole della logica delle proposizioni e innovando in profondità la logica modale, specie dopo Aristotele[31] e, in modo particolare, se applicata alle proposizioni.
Questo sviluppo della logica medievale, congiunta ai coevi sviluppi dell’etica (col passaggio dall’etica aristotelico – tomista, percepita come teleologica, ad una sorta di etica deontologista[32]), rende conto dell’interpretazione offerta da Knuuttila che vede nel tramonto del Medioevo il luogo (insieme problematico) del sorgere della considerazione logica dei concetti deontici, la fine del Medioevo come punto d’inizio della storia della logica deontica[33].
Lo studio logico – modale dell’unum argumentum di Anselmo consente allora di cogliere i prodromi di questo successivo sviluppo della logica deontica (delle modalità deontiche, distinte da quelle aletiche).
[1] R. G. Timossi, Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel. Storia critica degli argomenti ontologici, Marietti, Genova, 2005, pp. 20 - 1.
[2] Perché il possibile, infatti, sia reale è necessario che si accordi con le sue condizioni materiali le quali, però, nel caso della divinità, sono indisponibili, lasciando irrisolta la questione dell’esistenza di Dio.
[3] Scrive, infatti, E. Gilson, Lo spirito della filosofia medievale, Morcelliana, Bescia, 1969, p. 70: «per un filosofo cristiano, quale Sant’Anselmo, domandarsi se Dio è, è domandarsi se l’Essere esiste, e negare ch’Egli sia, è affermare che l’Essere non esiste».
[4] E. Agazzi, La logica simbolica, La Scuola, Brescia, 1990, p. 31.
[5] G. Nuchelmans, La semantica delle proposizioni, in AA. VV., La logica nel Medioevo, Jaca Book, Milano, 1999 p. 115 e sgg. Anche: S. Knuuttila, Logica modale, in AA. VV., La logica nel Medioevo, Jaca book, Milano, 1999 p. 289 e sgg.
[6] M. Marsonet, La metafisica negata: logica, ontologia, filosofia analitica, F. Angeli, Milano, 1990.
[7] Assai efficacemente, infatti, scrive L. M. de Rijk, Le origini della teoria delle proprietà dei termini, in AA. VV., La logica nel medievo, Jaca Book, Milano, 1999, p. 71: «fin dall’undicesimo secolo la relazione tra pensiero e linguaggio fu un tema centrale del pensiero medievale (…) si riteneva che il pensiero fosse ristretto nei limiti del linguaggio dalla sua stessa natura; si presumeva che pensiero e linguaggio fossero in relazione l’uno con l‘altro e con la realtà nei loro elementi e nella loro struttura. In ultima analisi, linguaggio, pensiero e realtà erano ritenuti logicamente coerenti».
[8] J. Pinborg, Logica e semantica nel Medioevo, Boringhieri, Torino, 1989.
[9] Se, infatti, l’Essere pensato è perfetto, perché coerente con la sua definizione di Ente massimamente perfetto, pena la contraddizione, non può che anche esistere attualmente (quest’ultimo, infatti, finirebbe con l’essere più perfetto di quello solo pensato).
[10] Una cosa è l’esistenza ideale (solo possibile), altra, invece, quella reale (fattuale). Illegittimo, è secondo Kant, il passaggio dalla prima, sulla quale nulla può eccepirsi, alla seconda, che resta, dunque, essendo tale salto non valido, tutta da dimostrare. V. E. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma – Bari, 1996, p. 379: «è facile vedere che il concetto di un essere assolutamente necessario è un concetto puro della ragione, cioè una semplice idea, la cui realtà oggettiva è ben lungi dall’essere provata dal fatto che la ragione ne ha bisogno». Da questo fraintendimento kantiano, mai infatti Anselmo tenta di dimostrare razionalmente l’esistenza ontologica di Dio, vertente su un salto solo possibile, ma non affermato dall’Aostano, è nata la definizione (anacronista) di «argomento ontologico».
[11] S. Galvan, Introduzione alle logiche filosofiche II: applicazioni filosofiche della logica deontica, ISU, Milano, 1987, p. 127.
[12] Scrive I. Sciuto, Introduzione a: Anselmo, Proslogion, Rusconi, Milano, 1996, p. 36: «l’argomento del secondo capitolo non è valido, perché intende l’esistenza come un predicato reale, che aggiunge perfezione al soggetto (…) invece l’argomento del terzo capitolo è valido perché usa il concetto di esistenza necessaria, che è un vero predicato».
[13] I. Sciuto, Introduzione a: Anselmo, Proslogion, Rusconi, Milano, 1996, p. 38. V. anche R. G. Timossi, cit., p. 81: «si capisce subito come l’intenzione del nostro pensatore sia quella di formulare una dimostrazione per confutazione, di dar vita cioè al classico procedimento elenctico dei maestri di dialettica con il quale per provare la verità di una determinata tesi si dimostra la contraddittorietà della tesi opposta».
[14] Scrive I. Sciuto, Introduzione a: Anselmo, Proslogion, Rusconi, Milano, 1996, p. 34: «l’insipiente è colui che non comprende ciò che dice, separando parole e pensiero. Per questo può dire ma non pensare che Dio non esiste». Invece, R. G. Timossi, cit., p. 83: «la nostra opinione è che l’insipiens non sia né un razionalista logico sul tipo dei logici pagani (es. gli aristotelici e gli scettici), né un ateo teorico che nega l’esistenza di Dio con precise argomentazioni (es. il sofista Prodico di Ceo), bensì l’archetipo dell’ateismo pratico, cioè di chi ritiene semplicemente di poter fare a meno di Dio nella propria vita quotidiana. L’ateo pratico, in altre parole, è colui che, senza preoccuparsi dell’esistenza di Dio, organizza «la propria vita privata e pubblica prescindendo dall’esistenza di qualsiasi Principio assoluto». Questa figura è sempre esistita, anche ai tempi della composizione dei Salmi, epoca nella quale non vi era sostanzialmente traccia degli atei teorici».
[15] I. Sciuto, Introduzione a: Anselmo, Proslogion, Rusconi, Milano, 1996, p. 32.
[16] Anselmo, Proslogion, Rusconi, Milano, 1996 p. 96.
[17] S. Vanni Rovighi, Studi di filosofia medievale I. Da Sant’Agostino al XII secolo, Vita e Pensiero, Milano, 1978, p. 38.
[18] C. R. Kordig, A Deontic Argument for God’s Existence, in «Noûs», 15, 1981, p.
207.
[19] Ibidem.
[20] C. R. Kordig, A Deontic Argument for God’s Existence, in «Noûs», 15, 1981, p. 208.
[21] Ibidem.
[22] Supra.
[23] Ibidem.
[24] Ancora L. M. de Rijk, op. cit. p. 71: «nel pensiero medievale, i punti di vista logico – semantici e metafisico sono, in conseguenza della percezione della loro interdipendenza, completamente mescolati».
[25] Al riguardo, osserva S. Galvan, Aspetti problematici dell’argomento modale di Anselmo, in «Rivista di Storia della Filosofia», 3, 1993, pp. 604 – 605 come la giustificazione delle due premesse si regga sui sistemi deontici KT5Q, che si basano sulla riduzione modale di Anderson, e per i quali vige il teorema - ponte OAÉMA (comunque non accetto in tutti i calcoli deontici). Al riguardo, v. R. Poli, La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (I), in «Verifiche», 3, 1982, pp. 346 – 8.
[26] S. Galvan, op. cit., p. 605.
[27] Per questa ragione non appare errata ma non condivisibile la conclusione di S. Galvan, Aspetti…cit., p. 606 secondo la quale «l’argomento di Kordig sia teoreticamente fallace», benché mantenga intatta la sua validità pratica (il significato che assiologicamente vi si attribuisce in quanto credenti). Infatti, come abbiamo inteso sostenere in queste pagine, scopo di Anselmo non è la dimostrazione in re dell’esistenza di Dio, ma la dimostrazione della sua possibilità epistemica (o, logica), e l’impossibilità (contemporanea), perché metterebbe capo ad un’incoerenza insostenibile, di crederVi e di affermare che “Dio non esiste”.
[28] Forse, anche per via del particolare rapporto che lega i vari modali: aletici; deontici; epistemici. Al riguardo, si consideri: G. H. von Wright, An Essay in Modal Logic, North – Holland, Amsterdam, 1951.
[29] E. Bencivenga, Dio in Gioco. Logica e sovversione in Anselmo d’Aosta, Boringhieri, Torino, 2006.
[30] S. Galvan, Aspetti problematici dell’argomento modale di Anselmo, cit., p. 592.
[31] Processo che trova giustificazione nella dimensione metafisica della filosofia medievale dato che la considerazione modale consente di distinguere attributi e concetti che sono possibili, necessari, contingenti o reali (W. Carnielli – C. Pizzi, Modalità e multimodalità, Boringhieri, Torino, 2001).
[32] N. Wyatt, Medieval Deontic Logic and Scotus on the Will, in «Eidos», 1,
1999.
[33] S. Knuuttila, The Emergence of Deontic
Logic in the Fourtheenth Century, in R. Hilpinen (eds.), New Studies in
Deontic Logic, Reidel, Dordrecht, 1981, p. 236.