H. S. Becker, I mondi dell’arte

(di Gemma Lupi)

 

Il presente articolo vuole essere una presentazione dei primi cinque capitoli del libro I mondi dell’arte[1] di Howard S. Becker. L’autore di questo libro è un sociologo e, come tale, ha l’intento di capire come la società sia coinvolta nella produzione dell’arte. Egli adotta una prospettiva antielitaria, evitando di collocare al centro della sua attenzione le opere d’arte o gli artisti, ma scegliendo di analizzare il modo in cui le opere hanno origine, a partire da un insieme di persone, attività, materiali, risorse e convenzioni che ne stanno alla base: i tecnici, gli artigiani, gli impresari, ma anche gli acquirenti e i fruitori, sono ritenuti importanti quanto gli artisti, per l’esistenza di quelli che egli chiama “mondi dell’arte”. Vengono prese in considerazione tutte le arti, comprese la fotografia e la musica jazz, amata da Becker, che, oltre ad essere un sociologo, come detto poco sopra, ha suonato il pianoforte nei locali di Chicago. Inoltre, gli esempi scelti a scopo di chiarificazione si riferiscono a ogni epoca: dalla pittura del Rinascimento italiano, alle opere di Duchamp e Warhol, alle mostre fotografiche. Nel corso del testo, l’autore spiega come funzioni l’attività collettiva, quali siano le convenzioni che legano gli artisti con i loro collaboratori e con i fruitori, dove vengano trovate le risorse necessarie alla produzione di oggetti d’arte e come avvenga la distribuzione. Infine, descrive il lavoro degli estetologi e dei critici e presenta alcune teorie proposte per definire cosa sia un’opera d’arte o per giustificare il lavoro degli artisti.

Becker critica la sociologia tradizionale per aver considerato l’arte come una sfera di attività straordinaria, in cui operano persone con doti particolari, considerate, per questo, migliori delle altre. Tutto ciò, spiega, è vero solo fino a un certo punto: gli artisti sono in possesso di una conoscenza specialistica, “ma questo vale anche per gli idraulici, i fornai e i meccanici dai quali dipende la nostra vita quotidiana”[2]. Inoltre, il più delle volte, le opere d’arte sono destinate al commercio, quindi non stanno al di fuori dell’ordinario, come neppure i loro ideatori. Nonostante le critiche, nel suo nuovo tentativo di spiegare l’arte da un punto di vista sociologico, l’autore si serve dei metodi propri della disciplina, senza cercarne altri speciali, ritenendo che l’attività artistica non sia di un genere diverso rispetto a qualunque attività quotidiana. Ciò che dev’essere specifico è il linguaggio: ogni mondo specialistico ha una terminologia specifica e questo vale anche per i mondi dell’arte. Le fonti del testo sono le interviste fatte a individui legati all’arte, le loro memorie e il lavoro di studiosi di altre discipline, quali musicologi, storici dell’arte e della letteratura.

 

L’espressione “mondo dell’arte” indica “la rete di individui la cui collaborazione, organizzata grazie alla condivisione di metodi convenzionali di fare le cose, produce quel genere di opere artistiche che dà il nome al mondo dell’arte stesso”[3]: attorno a ogni opera d’arte c’è un mondo dell’arte, caratterizzato dalla collaborazione tra l’ideatore dell’opera stessa e tutti quelli che gli stanno intorno, in modo passeggero o permanente, per rendere possibile il suo lavoro. In questa prospettiva, si potrebbe parlare di “sociologia del lavoro applicata all’attività artistica”[4], invece che di “sociologia dell’arte”. Questo significa che è necessario contestualizzare i prodotti artistici all’interno dell’ambiente in cui hanno origine, ambiente molto più vasto rispetto a quello normalmente preso in considerazione dagli studiosi. 

Ogni opera d’arte richiede una serie di attività prima di essere conclusa e proposta ai fruitori: innanzitutto occorre un’idea, che tende a una realizzazione in forma fisica. Per la realizzazione servono sempre materiali e attrezzature, che in alcuni casi possono non essere facilmente reperibili e, al fine di procurarseli, è necessario del denaro, che può provenire dall’artista stesso o da un finanziatore esterno. Alcune opere d’arte, come quelle musicali o coreutiche, necessitano di esecutori, che sono professionisti, dotati di particolari abilità. Un ruolo importante è svolto anche dalle “attività di supporto”, comprendenti ogni attività tecnica che solleva gli artisti dai lavori quotidiani[5]. Questo processo ha lo scopo di portare l’oggetto d’arte di fronte a un pubblico o, comunque, davanti a qualcuno che possa vederci qualcosa. Si devono, poi, inglobare nel mondo dell’arte gli estetologi e i critici occupati a fornire una giustificazione che spieghi perché un prodotto debba essere considerato come arte. Alla base di tutto ci sono individui che formano e educano altri individui all’arte, che si tratti di ideatori, fruitori o critici. Ma il presupposto di tutto questo è l’esistenza di un ordine sociale, che garantisca, con le sue regole, una certa stabilità a chi è coinvolto nei vari mondi dell’arte. Nel caso in cui venga a mancare una qualunque delle attività a cui si è accennato, l’opera d’arte sarà diversa: esisterà comunque, ma in un altro modo.

Questa sommaria descrizione del processo che porta alla produzione di oggetti artistici è sufficiente a far capire che non può esistere un’opera prodotta unicamente dall’artista, senza l’aiuto e la partecipazione di nessun altro, poiché “tutte le arti che conosciamo, come ogni attività umana, implicano la collaborazione di più individui”[6]. Allo stesso modo è difficile immaginare una situazione in cui ogni singola attività sia svolta da specialisti diversi, anche se nell’industria cinematografica avviene qualcosa di molto simile. Più spesso, però, accade che un gruppo di lavoratori sviluppi le capacità necessarie per svolgere un insieme di compiti. La divisione del lavoro è diversa per ogni genere artistico ed è arbitraria, anche se, essendo radicata nel mezzo espressivo, non può essere modificata agevolmente. Bisogna, inoltre, sottolineare che la divisione del lavoro, in questo caso,  non richiede la compresenza e la contemporaneità di tutti coloro che partecipano alla produzione: basta che ognuno svolga il suo ruolo al momento opportuno, in modo che il prodotto finito dipenda dal lavoro collettivo. Il fatto che l’artista sia inserito in una catena di cooperazione fa sì che egli sia vincolato dai rapporti con i suoi collaboratori e, di conseguenza, risulta essere influenzato nella sua attività. All’interno di ogni rete di collaborazione, l’artista è colui che ha una funzione centrale e imprescindibile: egli è l’ideatore, l’individuo dotato di un talento che pochi possiedono, ma tale concezione, nata nel Rinascimento europeo, nel tempo ha subito delle scosse. È emblematico il caso degli artisti contemporanei che, apponendo la loro firma su oggetti di produzione industriale, hanno affermato di aver creato un’opera d’arte: in casi simili, dato che colui che si dice “artista” non svolge la gran parte delle attività necessarie all’esistenza dell’opera[7], si modificano notevolmente i rapporti tra attività centrali e attività di supporto. In presenza di esempi di questo genere, ci si può chiedere se ci sia una quantità minima di funzioni centrali che devono essere lasciate all’artista, perché egli possa continuare a dirsi tale.

Dal momento che sono molti ad essere coinvolti nel mondo dell’arte, deve esistere qualcosa che rende possibile il lavoro collettivo: una base comune, riconosciuta da tutti, o un insieme di accordi. A questo proposito, gli studiosi di discipline umanistiche fanno ricorso all’espressione “convenzione artistica”: le convenzioni riguardano tutte le decisioni concernenti un’opera d’arte e permettono di coordinare in modo veloce l’attività di artisti e personale di supporto. Inoltre, esse fanno in modo che il pubblico possa riconoscere un oggetto come oggetto artistico: infatti, è proprio riferendosi a tali convenzioni che l’artista crea opere in grado di suscitare nei fruitori una reazione emotiva.

Le convenzioni utilizzate all’interno di ogni mondo dell’arte per organizzare la cooperazione, spesso, pur essendo peculiari dell’arte stessa, sono note a tutti i membri della società: per essere al corrente della maggior parte di esse, infatti, non è richiesta nessuna conoscenza specifica, ma è sufficiente essere “membri della società ben socializzati”[8]. Una conoscenza più profonda delle convenzioni permette di distinguere gli spettatori esperti e qualificati da quelli occasionali. Ci sono casi in cui la frattura tra questi due generi di spettatori è più evidente: alcune innovazioni, infatti, fanno sì che le convenzioni artistiche si modifichino e i fruitori più distratti trovino delle difficoltà ad adeguarsi ai cambiamenti e, di conseguenza, a riconoscere certi oggetti come oggetti d’arte. Alcune novità, poi, possono essere note solo a coloro che svolgono un ruolo professionale all’interno di un certo mondo dell’arte: in casi simili, anche il pubblico iniziato può restare all’oscuro di determinate convenzioni. Un gruppo particolare del pubblico esperto è rappresentato dagli studenti d’arte che, in quanto tali, sono a conoscenza dei problemi tecnici propri della disciplina da loro studiata o praticata: gli studenti, in virtù della loro maggiore competenza, hanno anche la funzione di guida per gli spettatori occasionali, poiché sanno distinguere un buon prodotto artistico da uno fallimentare o poco riuscito. Infine, il settore del pubblico più esperto e, perciò, più influente, è costituito dai critici d’arte. I fruitori apprendono le convenzioni attraverso l’esperienza diretta e l’interazione con individui entrati, a loro volta, in contatto con le opere d’arte: quando l’intera produzione di un artista, progressivamente, propone nuovi materiali a un gran numero di persone si parla di “educazione del pubblico”.

Un secondo tipo di convenzioni lega gli artisti e il personale di supporto: tali convenzioni, in  molti casi, rendono possibile la cooperazione senza bisogno di comunicare. Quando una convenzione è talmente nota da essere data per scontata, infatti, non c’è alcun bisogno di esplicitarla: queste pratiche, attività e attrezzature diventano il fondamento su cui si basa automaticamente la creazione di opere d’arte, anche nel caso in cui si vogliano introdurre delle innovazioni. Ovviamente, anche le convenzioni più solide mutano nel corso del tempo, ma non tutte insieme, quindi ciò che resta stabile continua a svolgere la sua funzione nel mondo dell’arte: nel caso in cui venga meno ciò che si trova alla base di determinati meccanismi risulta impossibile la cooperazione.

La produzione di qualunque opera d’arte richiede delle risorse, che variano a seconda della disciplina e consistono in risorse materiali e personale di supporto. Le risorse materiali possono essere più o meno facilmente reperibili, dal momento che alcune arti necessitano di prodotti fabbricati appositamente[9], altre di materiali grezzi reperibili da tutti e altre ancora di materiali utilizzati quotidianamente per altri scopi. La disponibilità dei materiali sul mercato può rappresentare un vincolo per gli artisti, ma, di norma, i meccanismi dell’economia sono sufficienti a soddisfare le loro esigenze. Per procurarsi i materiali necessari, gli artisti devono adeguarsi al modo in cui le merci vengono distribuiti nella società, quindi, dove vige un’economia di mercato, comprano o affittano le merci necessarie per mezzo del denaro. Nonostante ciò, Becker fa notare che in alcuni casi, gli artisti ricorrono al baratto o, se ne hanno la possibilità, si fabbricano da soli le attrezzature.

Per quanto riguarda il personale, ogni artista può attingere a un serbatoio di individui, preparati a proposito delle tecniche proprie di una certa disciplina e delle convenzioni del mondo dell’arte a cui appartengono. Questi individui sono coloro che costituiscono le reti di collaborazione entro le quali nascono i prodotti artistici: perciò, Becker ritiene che l’espressione “personale di supporto” sia riduttiva, dal momento che attribuisce un’importanza relativa a questi lavoratori, ma, a suo parere, dev’essere ugualmente adottata, essendo la definizione corrente nell’ambiente. Il personale di supporto acquisisce le sue competenze o come autodidatta, per mezzo dell’esercizio, o frequentando un’apposita scuola professionale che, però, può anche formare dei veri e propri artisti.

Quando un’opera d’arte, grazie al lavoro collettivo, raggiunge la compiutezza deve essere distribuita: così entrano in gioco altri meccanismi sociali e altri individui. I mondi dell’arte hanno sviluppato dei sistemi che permettono di rendere le opere accessibili a qualcuno che possa apprezzarle: un oggetto d’arte, per essere diffuso, dev’essere conforme a tali sistemi. In effetti, un artista può anche fare a meno della distribuzione, ma, se vuole costruirsi una buona reputazione, deve riuscire a far circolare le sue creazioni. Alcuni artisti non trovano dei finanziatori esterni, quindi autofinanziano la loro opera, svolgendo un lavoro esterno al mondo dell’arte: spesso, però, quello che loro chiamano “lavoro diurno” toglie del tempo al “lavoro artistico”. In ogni caso, l’autofinanziamento garantisce maggiore libertà dai vincoli del sistema distributivo, soprattutto perché, guadagnando in altro modo, gli artisti non hanno bisogno di distribuire le loro opere, almeno non allo scopo di ricavarne denaro. Vendere le proprie opere, però, significa provare di essere un artista serio, quindi, in questo senso, ogni artista ha bisogno di un buon sistema di diffusione. Il mecenatismo, che può essere privato, pubblico o aziendale, per esempio, garantisce ad un artista il mantenimento per il periodo necessario a produrre le opere che gli vengono commissionate. Il mecenatismo privato può essere all’origine di innovazioni, dal momento che i patrocinatori delle imprese culturali, oltre a possedere molto denaro, spesso hanno un gusto raffinato e una conoscenza specialistica dell’arte; il mecenatismo pubblico, invece, il più delle volte è conservatore, poiché commissiona opere destinate ad un pubblico molto vasto, in cui non tutti sono provvisti della capacità di apprezzare opere innovative. Anche nel caso del mecenatismo aziendale, solitamente, i finanziatori si affidano a stili consolidati per ottenere un effetto positivo sul maggior numero possibile di persone: l’intento, infatti, è quello di costruire una buona immagine dell’azienda, che possa tornare utile nelle pubbliche relazioni.

La vendita dei prodotti artistici, poi, può avvenire attraverso i canali dei mercanti d’arte, degli impresari teatrali o dell’industria culturale. I mercanti d’arte si occupano delle arti visive e dispongono di una sede, una galleria d’arte, in cui espongono a potenziali acquirenti i lavori di artisti più o meno affermati: un mercante d’arte coraggioso può riuscire a scommettere su opere sconosciute e a renderle famose. Gli impresari teatrali, invece, si occupano delle arti dello spettacolo e hanno il compito di coordinare tutte le azioni necessarie per raccogliere un pubblico nel luogo in cui deve avvenire una rappresentazione: le spese da sostenere sono sostanziose, per cui essi devono formare un pubblico più vasto rispetto a quello cercato dai galleristi. Infine, le industrie culturali sono imprese commerciali che distribuiscono i loro prodotti ad un pubblico di massa: le più caratteristiche sono le case editrici, le case discografiche, il cinema, la radio e la televisione. Chi lavora nelle industrie culturali deve produrre e distribuire opere d’arte a un pubblico molto ampio, ma non ha alcun contatto con esso: per questo motivo, i prodotti risultano essere standardizzati, in modo da accontentare un numero considerevole di individui.

All’interno del pubblico sono stati precedentemente distinti i critici: essi giudicano il valore delle opere d’arte, creando, così, la reputazione degli artisti. I giudizi dei critici poggiano sui sistemi creati dagli estetologi che “si occupano di studiare premesse e argomentazioni che possono giustificare la classificazione di oggetti e attività sotto le categorie di ‘bello’, ‘artistico’, ‘arte’, ‘non-arte’, ‘arte buona’, ‘arte cattiva’ e così via, e costruiscono sistemi che servono a creare e fondare tali classificazioni definendo anche i casi concreti in cui esse vengono applicate”[10]. Dal momento che ha degli effetti nell’applicazione, l’estetica può essere definita come un’attività, praticata dagli esperti e da tutti  coloro che, partecipando al mondo dell’arte, formulano dei giudizi estetici. Gli studiosi di estetica, a parere dell’autore, cercando di distinguere ciò che è arte da ciò che non può assumere tale titolo onorifico, prendono un atteggiamento moralistico: essi vogliono separare ciò che è meritevole da ciò che non lo è e vogliono farlo in modo definitivo. A questo scopo provano a stabilire una soglia, necessariamente arbitraria, oltre la quale un oggetto deve essere considerato arte. Quando nascono nuovi stili artistici vengono formulati nuovi criteri estetici, per dare la possibilità alle nuove opere di essere distribuite, poiché l’influenza dei sistemi estetici su quelli distributivi è forte. La “teoria estetica istituzionale” è nata quando le teorie precedenti non potevano più rendere conto di alcuni oggetti artistici, accettati in pratica dal mondo dell’arte. “La teoria istituzionale aspira alla risoluzione dei problemi sollevati da opere che offendono sia il senso comune sia le sensibilità raffinate poiché non recano alcuna traccia dell’intervento dell’artista tanto nel progetto quanto nella realizzazione”[11]. Questa teoria, riconducibile a Danto[12] e Dickie[13], individua il valore estetico delle opere d’arte nella relazione tra le opere stesse e il mondo dell’arte. Danto, spiega Becker, “si è concentrato sull’essenza dell’arte, su ciò che, nella relazione tra un oggetto e il mondo dell’arte, ha reso quell’oggetto ‘arte’”[14]; mentre Dickie si è occupato “delle forme e dei meccanismi dell’organizzazione”[15]. La teoria dei mondi dell’arte elaborata da questi filosofi, però, a parere dell’autore, non è adeguata, ma, anzi, è piuttosto scarna e incompleta. Secondo Becker, un altro difetto della teoria istituzionale sta nel non aver dato esaurienti indicazioni su chi può decidere cosa è arte: i componenti del mondo dell’arte, infatti, non sono d’accordo a considerare decisivi i giudizi di alcuni, solo perché occupano determinate posizioni[16]. Non è neanche chiaro che cosa sia arte: se fosse soltanto una questione di “battesimo”, allora tutto potrebbe essere arte, ma, per evitare questo problema, gli estetologi affermano che è arte ciò che si conforma ai criteri estetici. Nonostante questo, quando un oggetto non si conforma a tali criteri, è previsto che gli artisti possano persuadere gli estetologi a modificare le loro teorie, in modo da giustificare una nuova forma d’arte. Così facendo, intorno alla nuova forma d’arte prende vita un nuovo mondo dell’arte e questo fa sorgere un ulteriore problema: non è facile stabilire quanto dev’essere organizzato l’apparato del mondo dell’arte, perché possa essere preso in considerazione dal pubblico e dai critici. Infine, Danto e Dickie non dicono quanti mondi dell’arte esistano: si può pensare che attorno all’opera di un singolo artista si costruisca un mondo dell’arte, ma è anche lecito parlare di un unico mondo dell’arte, a cui tutti gli artisti, appartenenti ai diversi generi, collaborano. 



[1] Becker, H. S., I mondi dell’arte, edizione italiana a cura di M. Sassatelli, Il Mulino, Bologna 2004.

[2] Ivi, p. 8.

[3] Ivi, p. 14.

[4] Ivi, p. 15.

[5] In questo gruppo di attività, Becker comprende “spazzare il palcoscenico e portare il caffé, preparare le tele e incorniciare i quadri, correggere un manoscritto e rivedere le bozze” (ivi, p. 20).

[6] Ivi, p. 23.

[7] Becker riporta l’esempio di Duchamp che ha proposto come opera d’arte una pala da neve di produzione industriale su cui aveva messo solo la sua firma (ivi, p. 35-36).

[8] Ivi, p. 62.

[9] Chi produce appositamente materiali necessari a usi artistici fa parte del mondo dell’arte.

[10] Ivi, p. 149.

[11] Ivi, p. 164. Becker fa riferimento a Fontaine di Duchamp e a Brillo di Warhol.

[12] Arthur Danto, filosofo e critico d’arte, è autore dell’articolo The Artworld, in cui spiega che ciò che rende qualcosa un’opera d’arte non è osservabile semplicemente con gli occhi.

[13] Gorge Dickie, filosofo americano, è stato influenzato da Danto nella formulazione della sua teoria istituzionale dell’arte, apparsa per la prima volta negli anni Sessanta e poi modificata più volte: questa teoria si interroga sulle modalità che fanno sì che oggetti fabbricati da macchine, oppure animali o addirittura persone, vengano trasformati in opere d’arte.

[14] Ivi, p. 166.

[15] Ivi, p. 166.

[16] Tra costoro sono compresi i direttori di musei e i critici.

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