La crisi dello Stato nazione nell’epoca della globalizzazione:

Bauman, Beck e Giddens a confronto

 

di Alessandra Diacono

 

 

Il nuovo ordine mondiale, che troppo spesso appare come un nuovo disordine mondiale, ha bisogno proprio di stati deboli per conservarsi e riprodursi. (Z. Bauman) [1]

 

 

I testi di Bauman[2] e Beck[3] occupano, nell’ambito del dibattito sulla globalizzazione, due posizioni estremamente differenti: entrambi partono da una forte critica a questo processo, ma il primo risulta più pessimista del secondo in quanto non propone alternative. Il diverso punto di vista dei due intellettuali si spiega tenendo in considerazione la percezione che essi hanno della realtà e del fenomeno che analizzano. Facendo riferimento anche alla loro vita – ricordiamo che Bauman nacque nel 1925, proveniva da una famiglia ebrea e lottò contro i nazisti (ha quindi alle spalle una vita segnata da una delle guerre più devastanti del ’900) mentre Beck nacque nel 1944, quando ormai la guerra si stava concludendo – si può capire come Bauman tenda a percepire la globalizzazione come un fenomeno esclusivamente negativo, che ha un impatto devastante sulla vita quotidiana delle persone e da cui non si può sfuggire perché tutti ne siamo coinvolti, mentre Beck articola il discorso entro uno schema di «risposte alla globalizzazione»[4], ovvero accetta l’ormai evidente nuova realtà e propone dei modi nuovi di viverla. In entrambi i lavori emerge come la globalizzazione abbia diversi volti, e tuttavia Bauman si sofferma più sull’aspetto antropologico mentre Beck su quello politico. Scopo di questo confronto è quello di evidenziare come venga percepita la globalizzazione da entrambi gli autori per poi analizzare gli effetti che essa ha sullo Stato nazione. Giddens verrà affrontato in un secondo momento in quanto la sua riflessione può essere concepita come parallela a quella di Beck ma con delle sostanziali sfumature che fanno di questo autore e della sua riflessione un punto di incontro tra Bauman e Beck. Prima di iniziare, è necessario ancora una volta ricordare come i testi di questi studiosi vengono, in questa sede, esaminati soprattutto in relazione al rapporto globalizzazione-Stato nazione, escludendo di conseguenza tutte le altre relazioni che questo fenomeno comporta con altri aspetti della società contemporanea.

Il punto di partenza di entrambi i lavori può essere rintracciato nel tentativo di fornire una definizione del termine globalizzazione, una definizione però assai differente:

«La parola “globalizzazione” – afferma Bauman -  è sulla bocca di tutti; […] una sorta di chiave con la quale si vogliono aprire i misteri del presente e del futuro. […]. Per tutti, comunque, la “globalizzazione” significa l’ineluttabile destino del mondo, un processo irreversibile e che, inoltre, ci coinvolge tutti alla stessa misura e allo stesso modo»[5].

 

Scrive invece Beck:

 

«Globalizzazione significa […] il processo in seguito al quale gli Stati nazionali e la loro sovranità vengono condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali, dalle loro chance di potere, dai loro orientamenti, identità e reti»[6].

 

 Bauman sembra porre l’accento sulle conseguenze che la globalizzazione ha sulla società, intendendola come un processo irreversibile che coinvolge tutti, mentre Beck individua, in particolare, gli attori che mettono in moto questo processo, a livello transnazionale, con la conseguenza che essi hanno sullo Stato nazione. Il punto di incontro di entrambi è invece dato dal considerare la globalizzazione come la nuova categoria del «postmoderno», la quale ha inevitabilmente trasformato la realtà. Si possono individuare comunque due espressioni che riassumono sinteticamente ma efficacemente la diversa visione della realtà di entrambi: espressione chiave per Bauman è «compressione dello  spazio e del tempo», mentre per Beck è «società mondiale del rischio»[7]. Spazio e tempo sono per Bauman gli assi attorno ai quali si è sempre svolta la vita quotidiana delle persone; la globalizzazione ha causato una loro contrazione provocando una polarizzazione della società: da un lato i «globali» e dall’altro i «locali», cosicchè chi riesce ad adattarsi a questa nuova dimensione della realtà detta le regole, mentre chi non ci riesce è considerato un escluso o un emarginato. La realtà è oggi diventata una guerra per la conquista dello spazio; una prospettiva pessimista quella di Bauman, se si pensa che nella storia l’uomo ha sempre lottato per ridurre le gerarchie; oggi invece, a suo parere, viviamo nel secolo del potenziamento delle disuguaglianze, della segregazione e dell’esclusione:

 

«Alcuni di noi diventano “globali” nel senso pieno del termine; altri sono inchiodati alla propria “località” – una condizione per nulla piacevole né sopportabile in un mondo nel quale i “globali” danno il là e fissano le regole del gioco della vita»[8].

 

Beck invece parte dall’assunto che viviamo già da tempo in una società mondiale, la quale viene definita «del rischio»; l’attesa dell’inaspettato e della scelta, che comporta a sua volta il rischio, dominano sempre più la scena della vita quotidiana. Oggi la società produce più rischi che ricchezza, e questo è un dato di fatto che dobbiamo accettare e al quale dobbiamo inevitabilmente adattarci. La realtà trasformata dalla globalizzazione si articola, più che attorno alla contrazione spazio-temporale, nella precarietà e nella continua alternativa tra «o…o»; la conseguenza di questa nuova dimensione del nostro tempo è l’inevitabile emarginazione, l’isolamento e la discriminazione. Ma se Bauman ha una visione, in generale, più pessimista, Beck propone una svolta, della quale parleremo successivamente.

 Sia per Bauman che per Beck, dunque, la società di oggi è diventata estremamente gerarchica, ma questa gerarchia non produce staticità, bensì mobilità. Tuttavia questo dinamismo è soltanto apparente: chi riesce ad entrare nella «logica» della globalizzazione ha la possibilità di spostarsi, chi invece non ha tale possibilità è escluso, anzi come risposta si chiude sempre più nel suo spazio perché è ciò che gli garantisce maggiore sicurezza. Da qui si articola il discorso, soprattutto di Bauman, sulla polarizzazione della società che dall’autore viene riassunto, nel penultimo capitolo, nel binomio «turisti-vagabondi»[9]. Per i primi lo spazio non è più un ostacolo, essi si svincolano dal loro territorio e quindi hanno la capacità di muoversi; i secondi invece si spostano non per loro volontà ma sono costretti a farlo in quanto non hanno altra scelta se non quella di abbandonare forzatamente il loro spazio diventato ormai troppo compresso; questi ultimi sono gli esclusi, coloro che vengono emarginati ai confini del mondo. La società di oggi si stratifica secondo il grado di mobilità delle persone, della loro flessibilità e rigidità; ciò vale anche per Beck che, riguardo a questo problema, propone il già affrontato asse globale-locale. Utilizzando quest’ottica il mondo oggi appare come una sorta di «ambiente darwiniano» nel quale «sopravvivono» solo i più forti, mentre chi non riesce ad adattarsi è destinato, sia pur non soccombendo, comunque a sopportare le pesanti conseguenze della globalizzazione quali le disuguaglianze, l’esclusione o l’isolamento.

 E’ proprio a partire da questa visione della realtà, che in un certo senso accomuna Bauman e Beck, che si inserisce la riflessione sullo Stato. Il punto di partenza dal quale possiamo articolare il discorso è l’alternativa ridefinizione o erosione; tentando di uscire da questo dilemma si possono individuare tre diverse interpretazioni entro le quali si collocano anche i nostri due autori: c’è chi sostiene l’inevitabile completa estinzione dello Stato, chi percepisce una sua trasformazione e chi considera ancora lo Stato come principale attore della politica internazionale. Bauman si inserisce nel primo filone di studi, il suo pessimismo lo porta ancora una volta a concepire la globalizzazione e le forze transnazionali come fattori principali che determinano la fine dello Stato nazione; Beck invece appoggia la seconda interpretazione fornendo un’analisi del modo in cui sta mutando lo Stato dal modello nazionale a quello transnazionale; è questa infatti la risposta di Beck alla globalizzazione.

Prima di mettere a confronto Bauman e Beck su questo tema, è necessario affrontare sinteticamente alcuni problemi di carattere generale che riguardano il rapporto globalizzazione-Stato nazione. Innanzitutto è opportuno ritornare ai due concetti di fondo di uno Stato: territorialità e sovranità. Il primo si riferisce al fatto che ogni Stato si incarna in un territorio, cioè occupa una porzione di superficie terrestre e su di essa esercita il potere. Il secondo è più complesso: sul concetto di sovranità si potrebbe aprire una lunga parentesi, ma in questa sede basta ricordare che per sovranità si intende la piena indipendenza di uno Stato il cui potere non è influenzato dall’esterno. David Harvey[10] ha analizzato a fondo questo rapporto: grande studioso dei processi di trasformazione del postmoderno, egli mette in evidenza nel suo scritto come la globalizzazione determini una deterritorializzazione del territorio, ovvero ne escluda le differenze; il territorio si globalizza, e allo stesso tempo si riterritorializza: ciò significa che le diversità territoriali tendono sempre più ad accentuarsi. Il testo di Harvey si sofferma principalmente su quei cambiamenti che hanno traghettato la società dal sistema economico «fordista» a quello «postfordista», e tuttavia la sua analisi  può essere accostata a quella di Bauman in quanto anch’egli percepisce la globalizzazione come una «compressione spazio-temporale», che agisce sul concetto di territorialità e inevitabilmente lo trasforma. Altri studiosi affermano invece che la globalizzazione erode la scala territoriale nazionale dando vita a due nuove scale: quella sovranazionale, ossia un potere superiore a quello dello Stato (es. UE), e infranazionale, cioè un potere territoriale entro lo Stato che assume sempre più importanza tanto da metterne in pericolo l’unità nazionale. Queste analisi mettono in evidenza come lo Stato si trovi ormai stretto in una morsa; esso è schiacciato sia dall’alto che dal basso, nuove territorialità lo privano dell’oggetto sul quale egli esercita il potere. Il medesimo discorso vale per il concetto di sovranità; la globalizzazione è causa della parziale dislocazione della sovranità dello Stato, la quale viene ceduta ad organi sovranazionali o micronazionali. A questo proposito si può parlare di un vero e proprio svuotamento dello Stato o comunque di una dispersione dei suoi poteri, i quali vengono ceduti a nuovi attori della politica internazionale. Un esempio è offerto dall’Unione Europea, organo sovranazionale spesso oggetto di critica da parte di chi lo considera come un’istituzione che priva gli Stati membri della loro sovranità. L’UE pone le basi per una vera e propria autorità sovranazionale: lo prova il fatto che il principale obbiettivo è quello di trasferire i poteri dal livello nazionale ad uno sovranazionale; si è infatti giunti alla creazione di una moneta unica, principale simbolo della sovranità di uno Stato, ad una politica estera comune, rappresentata dal Parlamento europeo, e alla creazione di una cittadinanza europea. Sovranità e territorialità stanno subendo una vera e propria erosione che deriva prevalentemente dall’alto; se poi vogliamo considerare lo Stato dal punto di vista weberiano, ossia come «monopolio della violenza legittima», allora la nostra analisi si sposta verso quella che è l’altra faccia della globalizzazione: il rafforzamento del locale. I pericoli maggiori per questo tipo di potere derivano dal basso: ciò è suffragato da come le numerose guerre, scoppiate alla fine della guerra fredda, vengano condotte non più dallo Stato stesso ma da nuovi protagonisti come i gruppi di terroristi. Il rapporto guerra-globalizzazione è di certo un altro problema che merita maggiore attenzione e che tuttavia in questa sede non può essere affrontato. Ciò che ci interessa mettere in risalto è proprio questa perdita di importanza dello Stato, che nel secolo della globalizzazione è ormai diventato un protagonista scomodo il quale non risponde e non si adatta ai cambiamenti imposti da questo fenomeno. E’ quindi necessaria una svolta.

Come già accennato in precedenza, Bauman non offre delle soluzioni; lo dimostra il fatto che il capitolo dedicato a questo tema viene intitolato con una domanda alla quale neanche l’autore sa dare una risposta; le conclusioni vengono così affidate al lettore. Dato il taglio antropologico del testo, Bauman non si sofferma a lungo su questo tema, ma la sua analisi si rivela efficace e soprattutto ci permette di capire come ormai lo Stato sia considerato da molti un atavismo. Bauman parte da una distinzione tra universalizzazione e globalizzazione, ma la particolarità di questa puntualizzazione è che all’autore non interessa dare una definizione dei termini (raramente nel testo di Bauman si trovano delle definizioni precise dei concetti, un’altra importante caratteristica che lo distingue da Beck, il quale ha un lessico molto più rigido), ma entrambi vengono accostati ad un’altra coppia di termini, rispettivamente ordine-disordine, e poi spiegati tenendo in considerazione un fatto storico di cui abbiamo già parlato e che ricopre un ruolo di grande importanza: la guerra fredda. Quindi con il primo termine egli si riferisce all’ordine; con il «grande scisma»[11] si contava sulla capacità delle potenze moderne di diffondere il progresso e lo sviluppo a livello universale; Bauman sembra riconoscere il bipolarismo come un sistema internazionale capace di dare ordine anche se questo si basa su una spaccatura netta del mondo. La globalizzazione invece si riferisce al disordine che si è affermato dopo la fine della guerra fredda;  paradossalmente, l’idea di Stato ha avuto grande fortuna dopo il conflitto, in quanto ci siamo accorti come l’indebolimento di esso abbia permesso il proliferare del caos. Una concezione di Stato quasi hobbesiana quella di Bauman, essendo esso l’unica possibile soluzione al disordine. L’autore, però, non vede in futuro una sua ridefinizione ma solo una sua progressiva e inevitabile erosione:

 

«l’idea di globalizzazione rimanda al carattere indeterminato, ingovernabile e autopropulsivo degli affari mondiali; […] fa pensare all’assenza di un centro. […] è il “nuovo disordine mondiale”»[12].

 

Bauman quindi percepisce la globalizzazione come la principale causa della crisi dello Stato nazione, essa agisce a livello economico, militare e culturale, ossia sulle tre colonne che, a suo parere, danno legittimità ad uno Stato. Scrive Bauman:

 

«Le tre colonne su cui si regge la sovranità sono ormai spezzate. E possiamo affermare che le conseguenze maggiori vengono dalla distruzione della colonna dell’economia»[13].

 

Egli non chiarisce come la globalizzazione agisca su questi tre poteri, ma ad una lettura più attenta è possibile darne una spiegazione. Per quanto riguarda l’economia, la nuova ondata di neoliberismo, inaugurata negli anni Ottanta del Novecento, ha contribuito ad una vera e propria privatizzazione del commercio globale in cui le aree di libero scambio sembrano essersi gerarchizzate. Uno dei segni più evidenti di questa emancipazione è la scomposizione del ciclo produttivo, che viene dislocato in varie parti del mondo. Le multinazionali, attori di questo processo di frammentazione, localizzano le fasi del ciclo di produzione non in un territorio qualunque ma in quelle zone in cui possono ricavarne profitti maggiori e quindi prevalentemente nei paesi terzi in cui possono usufruire di manodopera a basso costo, non qualificata (infatti vengono dislocate fasi del ciclo produttivo che richiedono semplici lavorazioni come l’abbigliamento) e poco sindacalizzata. Invece le attività direzionali e politiche delle multinazionali rimangono localizzate nei paesi ricchi d’origine in quanto richiedono manodopera qualificata. E’ proprio attraverso questa rottura del processo di produzione che prende forma la globalizzazione: da una parte i paesi terzi, in cui molte volte le multinazionali non seguono le norme (come i diritti sul lavoro, il rispetto dell’ambiente, ecc.) anzi ne creano di nuove mettendo in crisi la sovranità dello Stato ospitante, e dall’altra i paesi ricchi che si trasformano in grandi centri di potere direzionali. E’ quindi evidente come si verifica uno degli effetti della globalizzazione di cui più volte abbiamo parlato ossia come la forbice della disuguaglianza tra paesi ricchi e poveri si stia allargando sempre di più. Nell’era della globalizzazione la vecchia divisione tra sud e nord del mondo non è più valida; ciò che meglio rende l’idea è un mondo a gabbie in cui zone ricche del globo sono costantemente in contiguità con aree povere. Se dovessimo rappresentare graficamente la divisione del mondo su una cartina geografica, la linea di demarcazione non correrebbe più da ovest verso est individuando sud e nord del mondo, meglio sovrapporre una sorta di reticolato il quale evidenzia una divisione fatta a macchia di leopardo.

Lo Stato perde il controllo sull’economia anche perché le controversie sul commercio internazionale vengono risolte non più dal potere giudiziario pubblico ma privato; esistono grandi studi legali che danno vita ad una vera e propria giustizia privata, oppure agenzie di valutazione del debito come la Moody’s o la Standard & Poor’s che svolgono una funzione di sorveglianti dell’economia globale e di credibilità dell’economia di uno Stato. Il potere economico e giudiziario-economico sfuggono dal controllo dello Stato, il suo margine di manovra è sempre più limitato e privatizzato.

 Un altro aspetto che riguarda il rapporto globalizzazione-economia è l’aumento del flusso di capitali: essi si muovono in uno spazio virtuale che non è più sotto il controllo dei governi. In questo caso il problema non riguarda tanto l’estensione dell’economia mondiale ma la digitalizzazione dei mercati, i quali ormai dipendono dalla tecnologia informatica in grado di cancellare completamente la concezione di uno spazio fisico-reale; a questo proposito Bauman parla di ciberspazio «come la terza dimensione del mondo umano»[14]. Ma è proprio attraverso questa dinamicità che viene a galla un’altro aspetto della crisi dello Stato, cioè un forte dislivello tra politica e economia: la prima ancora radicata al suo territorio, la seconda ormai completamente indipendente; non è più la politica che regola l’economia ma è la politica che segue l’economia. Questo giustifica anche il fatto che oggi molti Stati adottano sempre di più economie liberiste, volte cioè a rafforzare la libera iniziativa e il libero commercio.

L’altra colonna erosa dalla globalizzazione, sempre secondo Bauman, è quella militare. Se si considera lo Stato dal punto di vista weberiano, come già accennato in precedenza, è evidente come questo potere non è più un monopolio esclusivo. Lo dimostra il fatto che oggi, come l’economia, anche la guerra si va sempre più privatizzando; il potere militare subisce uno schiacciamento sia dall’alto che dal basso. Dall’alto in quanto istituzioni internazionali come l’UE o l’ONU prevedono una difesa militare collettiva e l’avvio di una politica estera comune, dal basso perché nuovi attori stanno emergendo e sono emersi come i nuovi protagonisti della guerra. Oggi è difficile capire chi è il nemico, soprattutto perché la guerra viene combattuta in uno spazio che è sempre meno fisico. E’ necessario ricordare ancora una volta come il rapporto globalizzazione-guerra richieda maggiore attenzione, in questo caso ciò che ci interessa è porre, ancora una volta, l’accento sull’esproprio dei poteri che rendono legittimo uno Stato. Se in passato lo Stato moderno nacque quando un principe disarmò la nobiltà di spada e affidò i poteri militari ad un esercito professionale e stipendiato, ora si assiste al processo inverso: è lo Stato che viene privato del suo esercito, o meglio quest’ultimo si frammenta sotto i colpi delle forze globali e locali. Mary Kaldor nel suo scritto Le nuove guerre[15] offre una analisi dettagliata di come il potere militare costituisce una delle colonne portanti di uno Stato e nel momento in cui questa viene minata si assiste allo sfacelo di uno Stato così come è accaduto per la Jugoslavia che, secondo la studiosa, è il primo esempio di un nuovo tipo di guerra ossia di un conflitto condotto da nuovi attori, che persegue nuovi obiettivi e fa uso di un nuovo tipo di violenza. Di conseguenza la guerra oggi assume i caratteri della globalizzazione, essa non ha più limiti, confini, si svolge in qualsiasi luogo e tempo e raramente si assiste ad un conflitto tra Stati; molti studiosi si sono interessati a questo rapporto, non è possibile non citare il testo di Qiao Liang e Wang Xiangsui[16] che ha avuto una storia travagliata fin dalla sua pubblicazione ma che è sicuramente un punto saldo per comprendere le trasformazioni della guerra nell’era della globalizzazione.

Diverso è invece l’impatto della globalizzazione sulla cultura. E’ necessario ribadire, ancora una volta, come per ogni aspetto trattato andrebbe dedicata un’analisi più approfondita; in questo caso l’obiettivo è solo quello di mettere in evidenza l’erosione dei principali poteri dello Stato, senza soffermarsi su un particolare tema. A differenza delle altre due colonne, quella della cultura è messa in crisi prevalentemente dalle forze locali. Una nazione si riconosce in quanto tale perché si identifica in uno Stato e condivide determinati tratti culturali. La globalizzazione produce come effetto una crisi delle identità; essa priva un gruppo nazionale di quei caratteri che lo distinguono dagli altri gruppi imponendo, appunto, una cultura globale. Per non soccombere a questo livellamento di culture, la risposta più immediata è, come già accennato, un rafforzamento del locale; ciò che assicura protezione è consolidare le proprie specificità nazionali, ma questo comporta inevitabilmente un rafforzamento del nazionalismo che molte volte, portato allo stremo, sfocia nel fanatismo o nello sciovinismo. Se la globalizzazione si identifica con l’occidente, allora sono soprattutto i popoli di paesi terzi o islamici che oggi pagano le conseguenze di questo fenomeno e dall'opinione pubblica spesso vengono visti come il pericolo maggiore per la stabilità mondiale.

Un altro aspetto culturale-sociale è la lenta parabola della classe sociale operaia, protagonista del secolo scorso; oggi il suo indebolimento è causato dalla perdita d’importanza del territorio nazionale come luogo di produzione economica. La migrazione del ciclo produttivo, di cui si è già parlato in precedenza, ha reso questa classe sociale quasi obsoleta; disoccupazione, salari esigui e precarietà sono i caratteri che identificano oggi la classe lavoratrice. Nell’epoca della globalizzazione la contrapposizione tra operai e imprenditori è ormai superata, se vogliamo parlare di classi sociali nuove meglio riassumere il tutto nel binomio «locali-globali» o, se adottiamo il punto di vista di Bauman, in «turisti-vagabondi». La lenta crisi della classe lavoratrice ha inevitabilmente delle ricadute sulla politica: i partiti operai e i sindacati sembrano progressivamente scomparire dalla scena politica internazionale, a essi manca ormai l’oggetto sul quale mettere in atto la propria politica. Ovviamente non è possibile parlare di una completa scomparsa dei partiti di sinistra, ma quello che è più evidente è l’abbandono di una politica attiva così come la si conosceva nel Novecento, questo si spiega tenendo in considerazione anche la fine dell’URSS durante la guerra fredda, quindi il venir meno di un punto di riferimento, e il consolidarsi a livello globale di una politica liberista.

L’immigrazione internazionale è uno dei diversi effetti della globalizzazione a livello sociale. Nella storia l’immigrazione è sempre esistita ma la globalizzazione ha trasformato questo fenomeno: innanzitutto bisogna distinguere tra immigrati ricchi, i quali esportano manodopera qualificata e di solito si trasferiscono in quei Stati in cui possono migliorare ancora di più la loro condizione lavorativa, né un esempio la «fuga dei cervelli» oppure gli immigrati poveri, i quali esportano manodopera non qualificata, emigrano clandestinamente e ricoprono, nel paese ospitante, i lavori più degradati. Quindi la migrazione internazionale non riguarda soltanto determinati paesi ma l’intero globo, a spostarsi oggi siamo tutti c’è chi però ci riesce senza grandi difficoltà e chi rimane imbrigliato nella gabbia della globalizzazione. E’ appunto la distinzione che Bauman riassume in «turisti» e «vagabondi»:

 

 «I turisti si muovono perché trovano che il mondo alla loro portata (globale) è irresistibilmente attraente, i vagabondi si muovono perché trovano che il mondo alla loro portata (locale) è inospitale […]. I turisti viaggiano perché lo vogliono; i vagabondi perché non hanno altra scelta sopportabile»[17].

 

 Un ulteriore cambiamento è che i paesi ospitanti ricevono immigrati da una rosa sempre più ampia di origini geografiche, ambiente sociale e culturale; ad esempio è aumentata l’immigrazione femminile, lo spostamento di interi nuclei famigliari ecc. Le forze che spingono a lasciare il proprio paese d’origine sono più o meno le stesse di sempre, ma si evidenzia sempre di più come fattore principale l'instabilità politica internazionale e lo scoppio di numerose guerre. L’aumento del flusso dell’immigrazione internazionale riguarda ovviamente anche i paesi ospitanti, i quali sono costretti ad adottare politiche d’accoglienza per far fronte a questo problema. Non è possibile affrontare questo tema ma la tendenza generale che si può riscontrare è una chiusura dei propri confini e un rifiuto dei «vagabondi» questo perché molti Stati si sentono minacciati a livello di sicurezza nazionale e di identità culturale. La conseguenza di questo atteggiamento è poi un odio verso gli immigrati che molte volte si trasforma in razzismo, non è un caso che in molti paesi europei partiti politici di destra, come in Francia o in Germania, abbiano conquistato molti consensi da parte dell’opinione pubblica facendo proprio leva sull’aspetto della sicurezza e sull’identità nazionale; temi scottanti e particolarmente importanti oggi che viviamo nel secolo della globalizzazione.

Concludendo l’analisi di Bauman sulla crisi dello Stato nazione, si può notare come egli sembri non prevedere un futuro per esso e soprattutto come delinei un processo quasi inverso del national building. Una prospettiva pessimista che si giustifica tenendo conto dei fatti reali che Bauman analizza da attento studioso della società contemporanea e delle conseguenze che la globalizzazione produce sulla vita quotidiana; non a caso il sottotitolo del suo scritto è «le conseguenze sulle persone». Il taglio antropologico del testo è quindi più che evidente; per questo Bauman non si sofferma più di tanto sull’aspetto economico o politico dello Stato ma se pensiamo che è una nazione che fa uno Stato allora, nella prospettiva di Bauman, è necessario prima analizzare gli effetti che la globalizzazione ha sulle persone per poi capire lo svuotamento di quest’ultimo.

 Bauman e Beck sono consapevoli di tale disagio. Ma è proprio a partire da questa prospettiva quasi apocalittica del XXI secolo da parte di Bauman, che emerge la differenza dell’impianto di Beck: da una parte il pessimismo di Bauman, dall’altra l’ottimismo di Beck, il quale avanza delle soluzioni per adattarsi a quella che egli chiama la «seconda modernità»[18]. Un concetto fondamentale per capire il discorso, forse più complesso e ricco rispetto a quello di Bauman, sulla globalizzazione. Beck definisce «prima modernità»[19] quell’arco di tempo che va dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni Settanta del Novecento, ossia quel periodo contrassegnato dal modello nazional-statale in cui  la società si identificava con lo Stato nazione, attore indiscusso della politica, dell’economia e della relazioni internazionali. In seguito alle trasformazioni avvenute nel corso della seconda metà del Novecento, Beck percepisce la perdita di importanza di questa unione tra società e Stato nazione. Se la globalizzazione ha un impatto devastante su quelli che sono sempre stati considerati i pilastri portanti dello Stato nazione ossia sulla sovranità e la territorialità, è allora necessario un «secondo illuminismo»[20]  per dar vita ad una «seconda modernità» non più fondata sullo Stato nazione, ma sul modello di uno Stato transnazionale. Rispetto a quello di Bauman, il testo di Beck sembra dar vita ad un nuovo lessico che risponde ai cambiamenti provocati dalla globalizzazione, nel suo scritto si incontrano costantemente nuove espressioni come le già ricordate «seconda modernità», «società mondiale del rischio», «globalità»[21], «globalismo»[22], ecc.

A differenza del testo di Bauman, quello di Beck è costantemente proiettato verso il futuro. Il suo è un tentativo di fornire una possibilità di rispondere alle domande che ci poniamo di fronte alla globalizzazione; per questo egli non si sofferma a lungo nel descrivere l’erosione dello Stato nazione, in quanto quello che egli vede è una sua ridefinizione. Probabilmente per l’autore non è possibile concepire una completa scomparsa dello Stato: esso è troppo radicato nella storia dell’uomo; l’unica alternativa è quindi un suo mutamento. Come per Bauman anche per Beck è la globalizzazione la principale causa della crisi dello Stato; tuttavia lo scritto di Beck non si sofferma sulle conseguenze che questo fenomeno ha sulle persone, ma sui nuovi progetti che l’uomo può adottare di fronte a tanta incertezza. E’ proprio questa, a mio avviso, la sostanziale diversità dei due testi: ciò che interessa è la totalità dell’analisi sulla globalizzazione. Presi nella loro interezza e trasportati nel dibattito su questo processo, si può notare come uno ricopra una posizione da ottimista mentre l’altro da pessimista. Una differenza ad una prima analisi quasi semplicistica, ma che evidenzia come la visione della realtà sia sostanzialmente diversa e come anche gli studiosi della società contemporanea vengano loro stessi risucchiati nel vortice della globalizzazione; infatti se adottiamo uno dei tanti aspetti di essa, di cui già parlato, possiamo dire che Bauman è un «locale» in quanto oggi percepisce un forte disagio, rimpiange il passato e non si interroga sul futuro, mentre Beck è un «globale» ossia si adatta nel presente, trae insegnamenti dal passato, mettendolo poi da parte, e infine progetta il futuro.

Per tutto il corso del suo lavoro, l’autore non si preoccupa di spiegare al lettore perché la globalizzazione è la causa della crisi dello Stato; ciò che gli interessa è articolare costantemente il suo discorso in vista delle risposte alla globalizzazione. La forza trainante è individuata da Beck nella «politica della globalizzazione» ossia in una politica che rompe la cornice dello Stato nazionale e diventa appunto globale; essa è, a suo parere, la nuova politica della seconda modernità, capace di uscire dalla gabbia della «prima modernità» e adatta a rispondere ai problemi globali non più governabili a livello nazionale. Due sono i presupposti fondamentali per realizzare questo tipo di politica: il principio del pacifismo del diritto e quello del federalismo. Il primo riguarda la possibilità di affidare il potere giuridico nazionale ad un organo transnazionale capace di costruire un diritto internazionale tale da dirimere le controversie fra gli Stati, ne sono un esempio i tribunali sovranazionali che, riconosce l’autore, non hanno ancora dato i risultati sperati; Beck non si sofferma a lungo sull’argomento, ma ciò che colpisce è l’atteggiamento pacifista dell’autore, che si evidenzia proprio nel momento in cui vengono affrontati temi di questo genere. Egli riconosce il limite di un diritto internazionale, ma non esclude che questo sia superfluo in quanto gli Stati, per mantenere il controllo sul proprio territorio nazionale, hanno bisogno dell’intervento di organi sovranazionali; è l’interesse nazionale che spinge gli Stati a fare sempre più affidamento a istituzioni internazionali. Un esempio a sostegno della tesi di Beck è oggi il problema della sicurezza nazionale, argomento che richiederebbe maggiore attenzione ma che qui viene solo accennato per capire come oggi gli Stati, in vista di pericoli come il terrorismo, interpellano l’aiuto di altri Stati o di organi internazionali come la NATO. Questo atteggiamento ha tuttavia delle conseguenze: da una parte aumenta la cooperazione tra quegli Stati che condividono la stessa idea di nemico, e dall’altra accresce le distanze tra chi non riconosce come tale un determinato soggetto. Ancora una volta la globalizzazione mette in evidenza il suo paradosso: oscilla costantemente tra omogeneizzazione e frammentazione del globo, ovvero sembra promuovere l’unione tra gli Stati ma alla fine il suo effetto è sempre una  maggiore spaccatura tra di essi. Il secondo principio riguarda un tipo di federalismo che è transnazionale, esso ha il vantaggio di trovare una via di mezzo tra il locale e il globale in quanto il potere non viene controllato né dall’alto né dal basso ma in maniera orizzontale; è anche questo un principio che si basa su una forte cooperazione tra gli Stati volto a limitare e controllare il potere delle forze transnazionali. Infatti la globalizzazione, secondo Beck, non corrisponde ad uno sfrenato libero mercato ma alla consapevolezza che c’è un aumento delle forze transanazionali, del liberismo e della competizione e di conseguenza è necessario controllare e gestire, a livello internazionale, queste forze in modo che non provochino il caos che potrebbe regnare se queste fossero lasciate libere di agire.

 

      «con l’epoca della globalità non scocca l’ora della fine della politica, ma si apre per quest’ultima una nuova era»[23].

 

 Un’idea della politica del tutto diversa rispetto a quella di Bauman, il quale aveva individuato un dislivello tra i vari poteri dello Stato, soprattutto tra un potere economico emancipato e una politica ancora legata al territorio nazionale. Beck invece crede in una trasformazione della politica stessa, essa può dare origine ad un nuovo modello di Stato non più basato su una sovranità esclusiva, ovvero sulla pretesa di comandare sul proprio territorio, ma su una sovranità inclusiva che risponde a dei principi politici, economici e culturali globali. Il nuovo modello di Stato, nell’era della globalizzazione, è quindi quello transnazionale; le forze transnazionali non sono solo le responsabili dell’erosione dello Stato ma sono anche la risposta. Beck dedica un intero capitolo sulle «risposte alla globalizzazione» offrendo ben dieci alternative, le quali, però, vengono tutte ricondotte al modello dello Stato transnazionale, che per l’autore è possibile realizzare nella realtà, tanto che ne individua le principali caratteristiche: esso è innanzitutto un modello ibrido, ovvero non esclude totalmente il principio di territorialità e di sovranità, ma lo trasforma, ossia si passa dal piano nazionale a quello sovranazionale; è poi un modello di Stato che riconosce l’irreversibilità della globalizzazione e adotta una politica della globalizzazione e, infine, riconosce la «glocalità»[24] come carattere tipico della società di oggi. Ma il presupposto fondamentale per dar origine ad uno Stato transnazionale è adottare una visone cosmopolita: se infatti è l’uomo che si organizza in determinate strutture sociali come quella dello Stato, è allora necessario prima cambiare ottica, per poi cambiare struttura organizzativa. Per comprendere il mondo c’è bisogno di uno sguardo cosmopolita, così infatti viene intitolato un capitolo del libro di Beck in cui l’autore spiega che per capire la portata del fenomeno globalizzazione è necessario uscire da quelli che egli chiama gli errori del globalismo, cioè semplificare il concetto di globalizzazione esclusivamente all’ambito economico. Oggi l’uomo, se vuole capire il mondo, deve cambiare ottica ossia abbandonare quelli che erano i connotati della «prima modernità» e globalizzarsi egli stesso. Beck non si sofferma a lungo nello spiegare come sia possibile adottare uno sguardo cosmopolita, ma si comprende come egli intende, con questo termine, la capacità di essere consapevoli che l’uomo è oggi sempre più cittadino del mondo, e allo stesso tempo che ognuno è diverso; l’unico modo per vivere è quindi riconoscere la diversità delle identità e saper convivere tra universalismo e particolarismo. Solo quando l’uomo avrà compiuto questa trasformazione di visione del mondo, allora potrà compiere il successivo «salto», ossia organizzarsi in istituzioni politiche, economiche e sociali che si adattano a quest’ottica. Secondo Beck non viviamo più nell’epoca dello Stato nazionale fondato su una visione nazionalista del mondo, ma in quella dello Stato transnazionale fondato sul cosmopolitismo. Il cosmopolitismo di cui parla l’autore non nasce dal nulla, ma ha delle radici di pensiero profonde che risalgono a quel tipo di concezione della storia di cui avevano già parlato alcuni dei più importanti intellettuali europei come Montaigne o Goethe; tuttavia il punto di riferimento di Beck è soprattutto Kant, il quale, in uno dei sui scritti di filosofia politica più importanti, Per la pace perpetua[25], individuava quali sono i presupposti fondamentali per raggiungere la pace e la stabilità internazionale. Come per Kant anche secondo Beck l’umanità dovrebbe aprirsi ad una visione cosmopolita; il progetto del filosofo era quello di una federazione di Stati, uniti da una forza comune per raggiungere gli interessi comuni secondo la legge del valore comune. Kant credeva infatti in una socialità permanente nell’uomo fondata sul pluralismo, opposto all’egoismo. Il pluralismo è quel modo di pensare basato sul non ricondurre tutto il mondo a noi stessi, ma nel comportarci come cittadini del mondo. Questa unione tra le varie comunità può tuttavia spezzarsi e portare al conflitto; per questo Kant riteneva necessario un diritto universale, l’insieme delle condizioni con le quali la volontà dell’uno si accorda con quella degli altri; il principio ispiratore del diritto è infatti l’uguaglianza, intesa come uguale trattamento degli individui da parte di regole giuridiche rivolte ai cittadini. A tal proposito Beck parla di una «sociologia della globalizzazione»[26]: se la sociologia ha come oggetto di studio le relazioni sociali è allora necessario che il sociologo oggi adotti un altro punto di vista, cioè abbandoni quella che Beck chiama «la teoria della società come container»[27] intesa come il superamento dell’idea che le società non esistono senza lo Stato, esse non vivono in un container (Stato) ma nel mondo. Questa concezione della «società come container» è tipica della «prima modernità» e, secondo Beck, è stata rafforzata da studiosi di scienze sociali quali Weber, Durkheim e anche Marx, i quali condividono una concezione territoriale della società e si affidano al modello nazional-statale. Questo tipo di pensiero non più adatto deve essere superato perché la globalizzazione oggi ha cambiato e sta cambiando il mondo, così come già esiste una economia globale, sono necessarie una «politica della globalizzazione» e una «sociologia della globalizzazione»:

 

«La sociologia della globalizzazione si può rappresentare come un insieme disorganico, in sé contraddittorio, di dissidenti dalla sociologia dell’ordine nazional-statale»[28].

 

Altro presupposto fondamentale per costruire le basi di uno Stato transnazionale è quello di dar vita ad un diritto internazionale che assicuri il rispetto dei diritti di ogni uomo, ma ciò che impedisce questo progetto è, secondo Beck, ancora una caratteristica tipica della «prima modernità» dalla quale molti non riescono a liberarsi ossia la credenza che solo lo Stato nazione assicura e fa rispettare i diritti del proprio popolo. Beck può notare che questa nuova modernità non viene accettata facilmente, molti sono gli ostacoli da superare; chi percepisce la globalizzazione come una realtà negativa allora si associa a quello che l’autore definisce una «coalizione nero-rosso-verde del protezionismo»[29] ovvero di quei modelli politici, ripettivamente conservatore, marxista e ambientalista, che non accettano il nuovo ordine mondiale ma rimpiangono e difendono il vecchio ordine basato sullo Stato nazione.  Da qui si articola una critica che l’autore rivolge soprattutto al modello realpolitico, accusato di non saper sviluppare e di intralciare i rapporti interstatali soprattutto perché pone l’accento su un tipo di sovranità esclusivamente nazionale; limita quindi quello che è il punto centrale della riflessione di Beck individuato nella «politica della globalizzazione». Il realismo politico non ripone la sua fiducia nelle organizzazioni sovranazionali, esse vengono viste come semplici istituzioni di «consulenza» nella politica estera di uno Stato che tendono molte volte ad assumere un atteggiamento autoritario cioè volte a limitare le manovre di uno Stato. Infatti Beck pone molta attenzione a questa possibile accusa e quando parla di Stato transnazionale come risposta alla globalizzazione specifica che il suo progetto non si basa sulla formazione di un unico Stato mondiale, in quanto questo potrebbe essere concepito appunto come una sorta di potere globale assoluto, ma egli intende un aumento della cooperazione tra gli Stati da realizzare attraverso un rafforzamento della «politica della globalizzazione», se ogni Stato adottasse tale politica, sarebbe più semplice una collaborazione internazionale. Beck descrive questa prospettiva come «un procedere insieme degli Stati nazionali»[30], ossia come il tentativo di sviluppare e organizzare meglio una collaborazione a livello internazionale per risolvere i problemi globali, senza che ciò comporti il prevalere di uno Stato su un altro. Infatti l’attenzione di Beck ad un lessico che sia compreso dal lettore percorre tutta la sua riflessione, egli sembra temere delle possibili accuse soprattutto quando parla di cosmopolitismo; critiche che possono legarsi a tratti assolutistici quando si parla di pensiero universale. Per evitare fraintendimenti, l’autore spiega che cosa intende quando sostiene il pensiero cosmopolita partendo dalla divisione che il filosofo Nietzsche aveva proposto tra un punto di vista totalizzante e uno universalistico sovrapponendo, a sua volta, due tipi di pensiero opposti: «contestualismo universalistico»[31] e «universalismo contestuale»[32]. Il primo è un tipo di visione che, secondo Beck, esclude la possibilità di mescolanza tra le culture, accentua le diversità tra le varie comunità e non crede in possibili rapporti pacifici interstatali; tratto tipico di questo pensiero è il suo relativismo il quale non crede in un possibile dialogo pacifico tra gli Stati e le nazioni, a meno che questo non abbia alla base interessi di potere. Ciò che critica Beck non è l’ammettere che le diversità esistono e non si può far nulla per cancellarle ma è l’escludere a priori il dialogo, errore in cui non cade invece il pensiero opposto cioè «l’universalismo contestuale». Esso esprime l’unione, il confronto e il dialogo tra Stati e nazioni ma, ed è qui che Beck evita che la sua riflessione sia accusata di assolutismo, riconosce le diversità ossia l’universale diventa contestuale (relativo); è un tipo di pensiero universale ma al plurale in quanto esistono molti universali e molte interpretazioni della realtà è allora necessario il dialogo per arrivare alla comprensione più fedele del mondo. «L’universalismo contestuale» di Beck ricorda le critiche che Jürgen Habermas ha mosso a quel tipo di pensiero, come il relativismo, che concepisce ogni cultura come un sistema chiuso. Habermas riconosce l’esistenza e il proliferare, nella società postmoderna, di punti di vista diversi: di conseguenza, si tratta di rispondere a questo mutamento concependo non delle società incomunicabili ma pluralistiche, sensibili al multiculturalismo e alle diversità. Sul piano politico, questa «rivoluzione» deve esprimersi in quello che Habermas chiama il «patriottismo della costituzione», col quale ogni uomo riconosce e rispetta i principi costituzionali del proprio Stato senza tuttavia rinunciare ai propri valori socio-culturali.

Riassumendo, dal punto di vista di Beck coloro che sostengono la crisi dello Stato come Bauman credono nel «contestualismo universalistico» in quanto esso è l’unica garanzia di sopravvivenza e sicurezza in un mondo sempre più caotico in cui la globalizzazione sembra alimentare la disuguaglianza più che l’uguaglianza, mentre coloro che ne vedono una ridefinizione rientrano «nell’universalismo contestuale»: lo Stato è in crisi, ma è possibile una sua trasformazione a patto che dapprima avvenga una «rivoluzione» dell’ottica umana. Come ricordato a inizio capitolo i testi di questi due studiosi differiscono soprattutto come ambito disciplinare, evidente è il taglio antropologico di Bauman e quello politico-sociologico di Beck, e tuttavia si potrebbe dire che anche il testo di quest’ultimo autore può essere letto adottando un punto di vista di tipo antropologico se si intendono le trasformazioni politiche, economiche e giuridiche solo come una conseguenza di quella che è la base su cui si articola tutta la riflessione dell’autore cioè una visione più razionale della realtà e, soprattutto, libera dai tratti della «prima modernità» la quale parte dall’uomo stesso.

 Il cosmopolitismo è oggi una delle risposte alle sfide della globalizzazione, ed è sostenuto da molti studiosi, tra i quali si colloca anche Anthony Giddens. Il mondo che cambia[33]  è un testo in cui Giddens affronta il problema della globalizzazione in rapporto a quelle che sono le basi su cui si regge una nazione: tradizione, famiglia e democrazia. Il testo di Giddens trae spunto prevalentemente dall’analisi di Beck: a tal punto che si può, forse, concepire il suo lavoro come una spiegazione chiarificatrice, ma anche come un sostegno delle riflessioni maturate da Beck. Il punto di partenza di Giddens è infatti ricercato, come per Beck, nel concetto di «rischio»;  probabilità e incertezza sono i simboli del nostro tempo perché viviamo ormai in una società che muta costantemente, e ciò spinge l’uomo a compiere delle scelte che sono però azzardate o pericolose in quanto fondate sull’incognito. L’incognita è infatti la quotidianeità; il rischio richiede una società proiettata verso il futuro che osi fare delle scelte e rompere con il proprio passato. Evidente è il sostegno di Giddens alla tesi di Beck, nella misura in cui entrambi sono convinti che sia ormai giunto il momento di una svolta basata non sul rifiuto del passato, bensì su una sistemazione in una sorta di «archivio» dal quale, al momento del bisogno, si possano trovare delle risposte. Queste ultime devono però essere opportunamente reinterpretate in chiave post-contemporanea: ne sono un esempio quelle che Beck definisce la «seconda modernità» o «il secondo illuminismo». Cosa accade allora allo Stato, alla democrazia e alla famiglia se lette attraverso queste nuove lenti interpretative? Giddens risponde che ormai esse sono diventate delle «istituzioni guscio»[34], ossia rimane il loro involucro esterno, ma all’interno hanno subito un svuotamento che le ha rese anacronistiche e incapaci di rispondere ai cambiamenti in atto: alla luce di ciò, è necessaria una svolta.

Il rapporto tra globalizzazione e Stato viene poi affrontato da Giddens, nell’ultimo capitolo, partendo dal concetto di democrazia, ovvero da quella forma di governo che, secondo l’autore, dovrebbe identificare tutti gli Stati. Anch’egli, come Beck, si fa promotore di una nuova prospettiva per il futuro in cui lo Stato né scomparirà del tutto, come sostiene Bauman, né rimarrà statico, bensì si ridefinisce sulla base di quella che egli chiama una «democrazia democratizzante»[35]. La democrazia, secondo Giddens, implica una libera competizione fra partiti politici, elezioni regolari e rispetto delle libertà civili; da questa definizione l’autore poi descrive che cos’è e come si realizza la «democratizzazione della democrazia» attraverso un processo che è in assoluta corrispondenza con l’idea di una «politica globale» di cui parla Beck. Possiamo riassumere questo passaggio individuando tre fasi:

1.      la democrazia deve uscire dal locale e diventare globale ossia deve rompere il “guscio” dello Stato nazione e trasformarsi in una forma di governo transnazionale in quanto al suo interno è diventata ormai vuota come le altre istituzioni nazionali. Questa è l’idea che corrisponde alla sovranità inclusiva e al modello di Stato transnazionale di Beck.

2.      la «democrazia democratizzata» non è una forma di governo universale, ma darà origine a delle varianti in quanto assume forme diverse a seconda dei caratteri di ogni paese. A tal proposito Beck proponeva «l’universalismo contestuale».

3.      democratizzazione della democrazia vuol dire non escludere il locale ma collaborare con esso. Questo è il punto che corrisponde al cosmopolitismo di Beck; il saper vivere tra universalismo e particolarismo.

La risposta di Giddens alle sfide della globalizzazione può essere vista come mediana tra Bauman e Beck nella misura in cui egli cerca di trovare un compromesso tra quello che è stato il passato e quello che è il futuro. La rinascita della «terza via» trae spunto dal dibattito che si accese nel corso degli anni Novanta in cui, di fronte al caos regnante nei Balcani, era necessario trovare una soluzione appunto «mediana» tra le due forme di governo che avevano caratterizzato gli anni della Guerra fredda offrendo agli Stati disorientati una soluzione di continuità con il passato e non di improvvisa rottura.  

 La «terza via»[36] è, infatti, un punto di incontro tra quelle che sono state le due forme principali di governo del dopoguerra, socialdemocrazia e neoliberismo, reinterpretate alla luce dei cambiamenti generati dalla globalizzazione. La genesi della «terza via» deve essere ricercata nella tradizione socialdemocratica, in cui la base è data dal welfare state, mentre i canoni sono dettati dal mercato globale. In Cogliere l’occasione si può capire, fin dalle primissime pagine, come Giddens si ispiri non ad una qualsiasi forma di socialdemocrazia ma più precisamente al modello anglosassone; Partito Laburista e Partito democratico statunitense sono le fondamenta di un «nuovo progressismo»[37] il quale prende le distanze dal «vecchio progressismo»[38] tipico di una socialdemocrazia «antica» che non pone attenzione ai cambiamenti radicali del mondo di oggi. Lo Stato, quindi, rimane il protagonista, ma viene a ridefinirsi al suo interno; è un’istituzione che, se vuole sopravvivere, deve adattarsi ai mutamenti contemporanei. Giddens è cosciente di come sia difficile definire il concetto di «terza via» in quanto, durante la guerra fredda, la socialdemocrazia stessa veniva considerata come «terza via»; difficoltà acuita dal fatto che sia la destra che la sinistra hanno utilizzato più volte questo termine. Letta nell’epoca della globalizzazione, la «terza via» di Giddens si configura come un’accettazione della nuova realtà e come un insegnamento tratto dal passato, in cui la fusione dei principi del liberismo e del welfare state segnano la ricucitura di un mondo sempre più frammentato. Se durante la Guerra fredda queste due forme di governo rappresentavano lo scontro politico tra i due blocchi, ora devono diventate la risposta alla globalizzazione. Una collaborazione che, secondo l’autore, si può realizzare solo attraverso un maggiore sforzo politico: come per Beck, anche secondo Giddens la politica deve diventare globale, vale a dire non più identificabile a livello nazionale ma transnazionale. È il caso dell’UE, un organo che dovrebbe diventare un modello globale da imitare e soprattutto necessario per ridefinire il ruolo e i compiti dello Stato nazione. A parere dell’autore, l’UE è un tipo di sistema transnazionale che può funzionare in quanto sono gli Stati stessi che spontaneamente rinunciano a parte della propria sovranità; non esiste quindi nessun potere coercitivo o assoluto che si configuri come un super Stato nazione. È vero il contrario: l’UE è un tipo di organo sovranazionale che promuove la «democrazia democratizzata» nei Paesi che ne fanno parte; essa è capace di modernizzare la vecchia concezione del welfare state, in quanto ha preso coscienza dei cambiamenti contemporanei e, con sguardo globale, sa rispondere in modo altrettanto globale. Per realizzare ciò, è quindi necessario ammodernare la concezione classica di uno Stato assistenziale inteso come una grande macchina burocratica, statica e inefficiente, la quale si inceppa nel momento in cui viene a contatto con nuove tecnologie o problemi economici, politici e sociali che vanno risolti adottando una visione cosmopolita. Infatti per Giddens c’è bisogno di uno «Stato forte»[39] non di uno «Stato grosso»[40]. L’errore della sinistra di oggi è quello di essere ancora «nostalgica»: essa ha ancora i partigiani che la difendono i quali sono convinti che il classico stato assistenziale sia l’unica ancora di salvezza di fronte al fenomeno globalizzazione, concepito anch’esso come esclusivamente negativo. Lo svecchiamento della socialdemocrazia è necessario al fine di porre rimedio alle profonde spaccature e disuguaglianze che la globalizzazione è capace di generare:

 

«“Modernizzazione” qui significa riforma delle istituzioni sociali per rispondere alle richieste di un ordine dell’informazione globalizzante»[41].

 

 Evidente è quindi il diverso atteggiamento di Giddens rispetto a quello di Bauman; la presa di coscienza delle sfide di un mondo che cambia lo porta non ad un atteggiamento di ostilità ma di adattamento. Giddens ritiene giusto abbandonare la posizione monistica, cioè un tipo di politica basata esclusivamente sul mercato o sullo Stato; il suo punto di vista viene definito come un «pluralismo strutturale» in cui l’uomo politico sa conciliare Stato, governo e mercato raggiungendo così quell’equilibrio necessario per riformare le istituzioni della società. Quello di Giddens sembra essere quasi un «disperato» appello a quegli uomini politici che, ancora oggi, si identificano nella vecchia socialdemocrazia ad aprirsi al futuro e ad non aver paura di fronte alla «novità» ma per far ciò è prima necessario capire come dopo il 1989 tutto è cambiato e come i principi tipici della sinistra, non sono abbandonati ma semplicemente riformati sulla base di una visione cosmopolita e non isolazionista. Significativo, per capire come Giddens getti costantemente uno sguardo verso gli insegnamenti del passato, è la percezione della perdita di un’epoca importante come lo è stata il Novecento così come ne parlavano Hobsbawm e Clark; la fine della guerra fredda è vista, da questi tre autori, come una svolta importante che ha dato origine ad un mondo globale e unico ma allo stesso tempo basato su una forte pluralità di pensiero. Essa non solo chiude il «Secolo breve»[42] ma ne apre un altro.

Vale la pena ricordare che l’idea della «terza via», così come viene proposta da Giddens, è stata sottoposta a moltissime critiche che lo stesso autore espone nel testo Cogliere l’occasione. Giddens riporta principalmente le reazioni di alcuni studiosi anglosassoni, come Jeff Faux e Alan Ryan, e continentali, come quella di Ralf Dahrendorf. Dall’insieme di queste critiche emerge come il principale rimprovero mosso all’autore è quello di proporre una forma politica troppo ibrida e passiva in cui la miscela dei valori tipici della destra e della sinistra finiscono per formare una sorta di «surrogato» che non ha né obbiettivi da raggiungere né fini da realizzare. A questo si aggiunge una scarsa attenzione per quelle sfere pubbliche, come la cultura o l’ecologia, che stanno al di fuori dell’area del mercato non avendo neanche un pensiero economico ben definito; è poi un modello politico che non può essere esportato sul continente in quanto è un progetto che si ispira eccessivamente alla politica anglosassone e, infine, tace su come risolvere alcuni problemi generati dalla globalizzazione quali ridistribuzione della ricchezza o diseguaglianza.

Come Beck anche Giddens si trova di fronte a dubbi, reazioni e incertezze i quali, molte volte, non vengono chiariti dagli autori stessi. Tuttavia sono proprio queste discussioni che continuano ad alimentare il dibattito sulla globalizzazione e lo Stato nazione; esso costantemente si aggiorna e si arricchisce dando vita a reinterpretazioni, modifiche e varianti di quel pensiero occidentale, politico, economico o sociale, che ha caratterizzato la prima parte del Novecento.   

     Certo non è facile orientarsi su un tema che è oggi di grande attualità: gli studiosi arrivano o a delle descrizioni, osservazioni e critiche della realtà come quelle offerte dal testo di Bauman, o tentano di proporre soluzioni e cambiamenti, come nel caso di Beck e di Giddens. La presa di posizione si basa su come si percepisce la realtà, tenendo in considerazione il fenomeno globalizzazione, e in che maniera si può ancora parlare di identità, Stato e cultura. Secondo i critici del cosmopolitismo, un pensiero cosmopolita gode di poca credibilità, ma non perché non si possa realizzare, bensì perché i fatti odierni dimostrano che non è la risposta adatta per superare i problemi di questo secolo. Molte sono le critiche rivolte a questo tipo di progetto: soprattutto esso è spesso accusato di utopismo; sarebbe invece necessario non eliminarlo a priori ma escluderlo temporaneamente per poi utilizzarlo in un futuro dove forse sarà più adatto. Che il pensiero cosmopolita oggi non possa funzionare come risposta alla crisi dello Stato lo dimostrerebbero i fatti attuali: molti sono i progetti di cooperazione internazionale o di costruzione di organi sovranazionali che però nella realtà odierna si sono rivelati incapaci di proporre soluzioni e perdono progressivamente di credibilità. Ciò che probabilmente oggi sta accadendo è il prevalere di una delle due facce della globalizzazione e cioè quella della frammentazione, più che quella dell’omogeneizzazione; lo testimonia la realtà: i numerosi conflitti che si accendono quasi ogni giorno sono la prova che non è possibile arrivare ad un pensiero universale, così come vorrebbe la globalizzazione; sussisterà sempre la diversità tra Stati e gruppi nazionali. Si può riconoscere al pensiero cosmopolita la capacità di avanzare e sperimentare nuovi progetti di risoluzione alle problematiche della società contemporanea, che tuttavia falliscono, o meglio non danno i risultati sperati, nel momento in cui vengono messi in atto; ne sono un esempio i tribunali giudiziari sovranazionali, le già ricordate conferenze sull’ambiente, gli organi politici e giudiziari internazionali ecc. La nascita dell’UE potrebbe rappresentare un’eccezione, in quanto è un’organizzazione internazionale che raggruppa Stati membri che hanno accettato di delegare parte della loro sovranità a istituzioni sovranazionali e hanno deciso volontariamente di vivere «in varietate concordia» così come dice il motto dell’Unione. Tuttavia la nascita dell’UE mostra anche i suoi limiti: innanzitutto il fatto che non tutti i paesi dell’Europa ne facciano parte, come la Svizzera, la Norvegia o il Regno Unito (il quale ne fa parte ma mantiene ancora la sua moneta simbolo indiscusso della indipendenza economica di uno Stato), i frequenti disaccordi tra gli Stati membri su quale tipo di politica estera adottare, i contrasti sull’ingresso nell’Unione di paesi islamici come la Turchia e la riluttanza da parte dei membri di cedere completamente la propria sovranità alla Comunità; lo dimostra soprattutto il monopolio della forza, un potere che è ancora nelle mani degli Stati. Il discorso sull’Unione Europea meriterebbe più attenzione, ma in questo caso va solo accennato per mostrare come progetti di creazione di organi sovranazionali esistono e non sono completamente utopici, ma una volta che vengono realizzati mostrano altresì i loro limiti. Probabilmente questa tendenza va spiegata tenendo conto dei fatti che accadono quotidianamente: la forza che oggi tende ad essere protagonista è la frammentazione più che l’integrazione; nel momento in cui si cerca di promuovere l’unità si accentua la diversità. Questo accade forse perché non tutti sono pronti, come dice Beck, ad un cambio di visione del mondo; troppo recenti sono fatti come le guerre mondiali, la fine della guerra fredda o la caduta dell’Urss per pretendere un improvviso cambiamento di ottica.

La risposta di Beck alla crisi dello Stato nazione, cioè uno Stato non più basato sul modello nazionale ma transnazionale, è un progetto che, a parere di molti, rimane solo un’idea. Come spiegato in precedenza Beck nel suo scritto individua quali sono le nuove colonne dello Stato transnazionale, ma è la realtà di tutti i giorni che costantemente rende il suo progetto non attuabile; non esiste ancora una vera e propria «politica della globalizzazione», né un diritto internazionale che funzioni correttamente, né una sociologia della globalizzazione in grado di eliminare il rapporto società-Stato. Certo il suo progetto non è da escludere a priori, ma non è possibile realizzarlo in un momento in cui i cambiamenti e le trasformazioni del mondo sono una costante quotidiana e in cui tutto ciò che si vuole rendere globale non funziona o meglio produce comunque e sempre degli effetti negativi.

Più attenta è forse, da questo punto di vista, l’analisi di Bauman, che, è vero, non propone soluzioni alla crisi dello Stato, ma analizza con una visione più veritiera la globalizzazione, mettendo in evidenza soprattutto le conseguenze che essa ha sulle persone. Anche se lo scritto di Bauman traccia un quadro della società non molto roseo, è comunque un’analisi più realistica rispetto a quella di Beck, in quanto la sua riflessione si basa su fatti che accadono quotidianamente; questo spiega perché il punto di partenza è individuato nelle persone: è necessario prima capire gli effetti sugli esseri umani per poi passare ad un’analisi della politica o dell’economia. Non a caso, come già ricordato, Bauman lascia al lettore le possibili risposte che si possono dare alla domanda con cui egli intitola il terzo capitolo del suo scritto, proponendo così la continuazione e lo sviluppo del dibattito; invece Beck, rispondendo alla domanda «e dopo lo Stato nazione?», sembra aver già trovato la soluzione al problema, che può essere interpretabile come un progetto poco credibile per degli eventi che sono ancora troppo vicini a noi e di conseguenza difficili da analizzare nella loro totalità. Giddens si muove sicuramente sulla stessa scia di Beck, ma rispetto a quest’ultimo la sua riflessione è meno «radicale», in quanto egli non prevede una rottura netta con il passato, ma propone una continuità con esso, proiettandolo poi nel futuro, perché la «terza via» è «una via mediana su tutto»[43] anche se, come ricordato in precedenza, essa non è immune da critiche. La presa di posizione degli studiosi sul rapporto tra globalizzazione e Stato nazione va quindi letta sempre tenendo in considerazione la loro «sensibilità» verso la realtà: se essi percepiscono un forte disagio, allora assumeranno un atteggiamento da pessimisti come Bauman; se invece si «adattano», come Beck, allora saranno in grado di proporre dei cambiamenti «sporgendosi» verso il futuro, oppure, come Giddens, troveranno un compromesso tra il passato e il futuro.

 Nel dibattito sulla globalizzazione esiste un sottile filo che lega la riflessione di tutti gli studiosi della società contemporanea volti a considerare gli effetti che la globalizzazione ha sullo Stato. Lo dimostra il fatto che nei loro scritti compare quasi sempre un capitolo dedicato al rapporto globalizzazione-Stato. Ciò è la prova che il problema è percepito da molti, ma è troppo presto per giungere a delle conclusioni. E’ forse questo un periodo di transizione in cui lo Stato mostra i segni di una crisi sempre più evidente, ma resta comunque l’attore principale della politica e dell’economia. L’importanza che assumono sempre di più le organizzazioni politiche e economiche sovranazionali non esclude questa ipotesi, in quanto esse mostrano i loro limiti e gli Stati membri fanno fatica a realizzare una genuina cooperazione e collaborazione internazionale. Forse sarà la nazione a dare nuova linfa vitale allo Stato e a far sì che questo recuperi totalmente i poteri che gli conferiscono legittimità. Come già detto in precedenza, la globalizzazione scatena l’effetto contrario all’omogeneizzazione ovvero provoca un eccessivo consolidamento delle particolarità di un gruppo nazionale, che si riconosce come tale quando si incarna in uno Stato. La conseguenza negativa di questo rafforzamento dell’identità è che tende molte volte all’estremo sfociando nel nazionalismo e nel fanatismo.


 

 

 

 

 



[1] Zygmunt Bauman Globalization. The Human Consequences, 1998, trad. it. Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 77.

[2] Zygmunt Bauman, op. cit.

[3] Ulrich Beck Was ist Globalisierung?, 1997, trad. it. Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 1999.

[4] Ivi, p. 157.

[5] Zygmunt Bauman, op. cit., p. 3.

[6] Ulrich Beck, op. cit., p. 24.

[7] Ivi, p. 58.

[8] Zygmunt Bauman, op. cit., p. 5.

 

[9] Ivi, p. 87.

[10] David Harvey, The Condition of Postmodernity, 1990, tad. it. La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano 1993.

[11] Zygmunt Bauman, op. cit., p. 65.

[12] Zygmunt Bauman, op. cit., p. 67.

[13] Ivi, p. 74.

[14] Zygmunt Bauman, op. cit., p. 21.

[15] Mary Kaldor, New and Old Wars. Organized Violence in a Global Era, 1999, trad. it. Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Carocci, Roma, 2001.

[16] Qiao Liang – Wang Xiangsui, Unrestricted Warfare, 1999, trad. it. Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001.

[17] Zygmunt Bauman, op. cit., p. 103.

[18] Ulrich Beck, op. cit., p.87.

[19] Ibidem.

[20] Ulrich Beck, op cit., p. 124.

 

[21] Ivi, p. 23.

[22] Ivi, p. 22.

[23] Ulrich Beck, op. cit., p.157.

[24] Roland Robertson, Globalization: Social Theory and Global Culture, 1992, trad. it. Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, Asterios, Trieste 1999.

[25] Immanuel Kant, Zum ewigen Frieden, 1795, trad. it. Perla pace perpetua, Editori Riuniti, Roma 1989.

 

[26] Ulrich Beck, op. cit., p. 41.

[27] Ibidem.

[28] Ivi, p. 44.

[29] Ivi, p. 149.

 

[30] Ivi, p. 159.

[31] Ivi, p.105.

[32] Ivi, p.106.

 

[33] Anthony Giddens, Runaway World. How Globalization is Reshaping our Lives, 1999, trad. it. Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino, Bologna 2000.

[34] Ivi, p. 31.

[35] Ivi, p. 92.

[36] Anthony Giddens, The Third Way and its Critics, 2000, trad. it., Cogliere l’occasione. Le sfide di un mondo che cambia, Carocci, Roma 2000.

[37] Ivi, p. 14.

[38] Ivi, p. 15.

[39] Ivi, p. 65.

[40] Ibidem.

[41] Anthony Giddens, Cogliere l’occasione. Le sfide di un mondo che cambia, cit., p. 41.

[42] Eric. J. Hobsbawm, Age of extremes. The short twentieth century 1914-1991, 1994, trad. it. Il secolo breve  - 1914/1991 - . L’epoca più violenta della storia dell’umanità, Bur, Milano 2000.

[43] Anthony Giddens, Cogliere l’occasione. Le sfide di un mondo che cambia, cit., p. 22.

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