É. Durkheim - C. Seignobos
La
spiegazione nelle scienze umane: tra storia e sociologia
estratto dal «Bulletin
de la Société française de philosophie», n. 8, 1908
a
cura di Davide Guerra
Il testo che segue, presentato per la prima volta al lettore italiano, è il report della discussione svoltasi nel 1908 presso la «Société Française de Philosophie» tra il sociologo Émile Durkheim e l’insigne storico Charles Seignobos, a seguito della conferenza tenuta da quest’ultimo, il medesimo anno e presso la stessa associazione, sul tema L’inconnu et l’incoscient en histoire[1].
Ci è parso a buon diritto opportuno il suo inserimento tra queste pagine, dedicate al tema Verità e apparenza, non solo per il prestigio di questi due grandi studiosi, ma anche per la straordinaria affinità con le proposte della nostra rivista. Una tematica prettamente filosofica - le scienze umane sono in grado di cogliere il reale? - viene affrontata da questi autori in una prospettiva interdisciplinare: psicologia, sociologia e storiografia si intersecano continuamente nel tentativo di mettere in luce la specificità della ricerca delle cause nelle Geistwissenshaften.
Certo, la voce di Seignobos - le scienze dell’uomo debbono limitarsi agli stati coscienti, gli unici conoscibili attraverso i documenti - ci appare oggi quanto mai debole e stentorea. Di gran lunga più interessante è la posizione di Durkheim il quale, nonostante alcune evidenti cadute nell’ingenuità positivistica, mostra l’urgenza di scavare ben oltre la semplice superficie delle cose - apparenza, per l’appunto - per cogliere le motivazioni inconsce, cause determinanti dell’agire umano.
E ciononostante, questo breve testo mantiene ancora intatto tutto il suo fascino. Vi si respira l’aria di quelle accese, talvolta violente, querelles verbali che, a inizio Novecento, animavano la vita culturale dei maggiori centri europei e che portarono, soprattutto in storia e in sociologia, alla definizione di un nuovo paradigma epistemologico, più attento alla dinamicità della vita umana e pertanto maggiormente in grado di cogliere la realtà del vissuto.
[...]
Durkheim. - Mi sento un po’ imbarazzato a rispondere all’esposizione di Seignobos, poiché non sono sicuro di padroneggiare bene il suo pensiero. Vorrei sapere, prima di presentargli delle obiezioni, se ammette o no la realtà dell’inconscio. Non capisco bene cosa pensi a tale proposito.
Seignobos. - Credo che, fra i fenomeni ignoti, ve ne siano
alcuni che certamente hanno un carattere spontaneo (per esempio dei fenomeni
fisiologici come la digestione), che esercitano un’azione causale innegabile,
ma che noi non conosciamo.
Durkheim. - Nella sua esposizione, Seignobos sembrava opporre la storia alla sociologia, come fossero due discipline che usano metodi differenti. In realtà, non conosco l’esistenza di una sociologia che meriti questo nome e che non abbia un carattere storico. Se dunque era stato stabilito che lo storico non può ammettere la realtà dell’inconscio, la sociologia non potrà tenere un linguaggio diverso. Non esistono in questo campo due metodi e neppure due concezioni opposte. Ciò che sarà vero per la storia, sarà vero anche per la sociologia. Soltanto, ciò che occorre esaminare accuratamente è se davvero la storia permette di enunciare la conclusione alla quale giunge Seignobos: l’inconscio è davvero il non conosciuto e il non conoscibile? Seignobos dice che questa è la tesi degli storici in generale: ma ve ne sono molti, credo, che respingeranno questa affermazione. Citerò in particolare Fustel de Coulanges.
Seignobos. - Fustel de
Coulanges aveva orrore per la stessa nozione di coscienza collettiva.
Durkheim. - Ma non si tratta per il momento di coscienza collettiva. Sono due problemi completamente differenti. Ci si può rappresentare il conscio e l’inconscio in storia senza fare intervenire la nozione di coscienza collettiva; queste due questioni non hanno alcun rapporto l’una con l’altra. L’inconscio può essere tale in rapporto alla coscienza individuale e non per questo essere meno reale. Separiamo dunque i due problemi: le idee di Fustel de Coulanges sulla coscienza collettiva non hanno nulla a che vedere qui. La questione è sapere se veramente in storia non si possono ammettere altre cause che le cause coscienti, quelle che gli stessi uomini attribuiscono agli avvenimenti e alle azioni delle quali sono gli attori.
Seignobos. - Ma non ho
mai detto che non ce ne fossero altre. Ho detto che le cause coscienti erano
quelle che cogliamo più facilmente.
Durkheim. - Avete detto che le sole cause che lo storico possa cogliere con qualche sicurezza sono quelle indicate nei documenti dagli attori o dai testimoni. Perché questo privilegio? Credo, al contrario, che siano le cause più sospette.
Seignobos. - Ma almeno i testimoni o gli attori hanno visto gli eventi, ed è molto.
Durkheim. - Non si tratta di eventi, ma dei moventi interiori che hanno potuto determinare questi eventi. Come conoscerli? Esistono due diversi modi di procedere. O si cercherà di scoprire questi moventi oggettivamente e attraverso un metodo sperimentale: questo, né i testimoni né gli attori hanno potuto farlo. Oppure si cercherà di coglierli attraverso un metodo interiore, attraverso l’introspezione. Ecco il solo metodo che i testimoni e gli attori possono applicare a loro stessi. È dunque il metodo introspettivo quello che voi introducete in storia, e in modo illimitato. Ora, tutti sanno come la coscienza sia densa di illusioni.
Da molto tempo ormai nessuno psicologo pensa di cogliere attraverso l’introspezione le cause profonde. Ogni relazione causale è inconscia, occorre indovinarla a posteriori; attraverso l’introspezione non si colgono che dei fatti, mai delle cause. Come gli attori, che si confondono con gli atti stessi, potrebbero rendersi conto di queste cause? Si trovano nelle più spiacevoli condizioni per scoprirle. E se questo è vero per i fatti psichici individuali, a maggior ragione lo è per gli avvenimenti sociali, le cui cause scappano molto più evidentemente alla coscienza dell’individuo.
Queste cause indicate dagli attori, lungi dall’avere una qualsivoglia importanza, devono essere generalmente considerate come ipotesi molto sospette. Non conosco da parte mia un solo caso in cui gli attori abbiano colto le cause con esattezza. Per spiegare dei fenomeni quali i divieti religiosi, quali la patria potestas dei romani, accetterete come fondate le ragioni fornite dai giureconsulti romani? Come spiegare fatti di questo genere se non attraverso un metodo sperimentale che operi lentamente e oggettivamente? Che cosa la coscienza individuale può sapere delle cause di fatti così rilevanti e così complessi?
Seignobos. - Non parliamo dei medesimi fatti, io parlo
semplicemente degli eventi, dei fatti storici che si sono verificati una volta
sola.
Durkheim. - Ma che cosa si direbbe di un biologo che non considerasse la sua scienza altro che una narrazione degli eventi del corpo umano, senza studiare le funzioni di questo organismo? E voi stesso, d’altra parte, avete parlato delle religioni, dei costumi, delle istituzioni.
Seignobos. - Ne ho parlato come della seconda serie di
fenomeni che colpisce lo storico, e al cospetto della quale egli si sente molto
più a disagio.
Durkheim. - Ma non potete assolutamente capire nulla degli avvenimenti propriamente detti, dei fatti, delle alterazioni, dei mutamenti, non potete studiare ciò che voi chiamate la prima serie se non conoscete prima di tutto le religioni, le istituzioni che sono l’ossatura della società.
Seignobos. - È un problema.
Durkheim. - Riconoscete, ciononostante, che, in ciò che concerne le istituzioni, le credenze, i costumi, i moventi coscienti degli attori non godono più del privilegio che gli attribuivate in materia di eventi?
Seignobos. - Non dico che qui le ipotesi degli attori
siano prive di valore; dico che occorre molta più critica prima di ammettere
questi motivi, poiché là sono ancora una volta i motivi coscienti che cogliamo
per primi.
Durkheim. - Così, a ogni modo, ciò che lo storico coglie veramente, sono le cause coscienti? Tutto il resto gli è sconosciuto?
Seignobos. - Non totalmente sconosciuto, ma più
sconosciuto rispetto a ciò che è cosciente.
Durkheim. - Le cause che sono più immediatamente a disposizione dello storico, sono quindi i motivi interiori, così come appaiono agli attori? Perché questo privilegio singolare?
Seignobos. - Ma è semplice: perché gli attori e i
testimoni ci offrono una spiegazione degli atti coscienti. Senza dubbio possono
sbagliarsi, e occorre criticare le loro spiegazioni; ma malgrado tutto essi
avevano la possibilità di sapere qualche cosa, e noi non la abbiamo.
Durkheim. - Se non abbiamo altra possibilità di conoscere, non c’è nulla da fare in storia. Se si intende la storia così come voi la intendete, coloro che non ne fanno possono consolarsi e anche rallegrarsi di non farne.
Seignobos. - In effetti, non esiste alcuna sicurezza,
alcuna certezza in storia quando si pretende di cogliere le cause. La prova sta
nel fatto che le spiegazioni dei fenomeni sono sempre differenti e non sono mai
in accordo.
Durkheim. - Il vostro metodo conduce al nichilismo più assoluto. A che scopo, allora, fare un grande spazio all’insegnamento della storia? Sarebbe molto tempo perso per poi arrivare a un risultato singolarmente piccolo.
Seignobos. - Chiedo scusa. La storia ha per funzione
ricordare, alle persone che lo dimentichino, l’interdipendenza e la continua
reazione tra le diverse serie di fatti che si tende naturalmente a separare in
compartimenti stagni. E, partendo di lì, può fortemente influire
sull’orientamento dello spirito. Essa mostra che non esistono mai fenomeni
isolati o discontinui.
Durkheim. - E pertanto tutti quelli che si occupano dello studio del passato sanno che i motivi immediatamente visibili, che le cause apparenti sono di gran lunga le meno importanti. Occorre scendere molto più a fondo nel reale per poterlo comprendere. Oppure, se non c’è la possibilità di cogliere altre cause, è necessario dire francamente che non si può raggiungere nessuna vera causa. È vero che voi distinguete e sembrate opporre la causa e la legge. Ma che cos’è una causa che non è una legge? Ogni relazione di causalità è una legge.
Seignobos. - Ma no; ci sono degli eventi che non si sono
prodotti che una volta e dei quali si determina ciononostante la causa.
Durkheim. - Dal momento in cui determino una relazione tra i termini A e B, ho una legge. Non definiamo la legge con la generalità dei casi in cui si manifesta. Non è infatti necessario che la relazione si riproduca più o meno di frequente; basta che sia di natura per potersi riprodurre. I logici riconoscono che è possibile stabilire una legge sulla base di un’esperienza ben condotta. Una volta stabilita la legge, che i fatti si riproducano o no, non ha rilevanza teorica. Certi fenomeni, per esempio i fenomeni teratologici, sono istruttivi proprio perché sono unici o eccezionali. Dunque non vedo come si possa stabilire una relazione causale che non sia una legge. Se so che A è la causa di B, so che A sarà sempre la causa di B. Il legame che li unisce viene affermato come reale senza condizioni di tempo e di luogo.
Seignobos. - Pertanto un uomo non dubiterà mai che Marat è
stato pugnalato. Un colpo di coltello dato a qualcuno provoca la sua morte,
ecco una causa, e non vedo alcuna legge in questo evento.
Durkheim. - Tutti diranno che Marat è morto per un colpo di coltello, a meno che non si trovi che il bagno troppo caldo ha determinato la sua morte, prima del colpo di pugnale. In ogni caso, non è perché il colpo di coltello precede la morte che vi si vede la causa della morte. È in virtù della legge generale per cui un colpo di coltello determina la morte, qualora colpisca un organo vitale. Il colpo di coltello non è causa che quando produce questo effetto. Se un’altra causa avesse provocato la morte, il colpo di coltello non sarebbe considerato come causa; su questo punto, lo studioso e l’opinione popolare sono assolutamente d’accordo.
Ma ritorno ai processi di ricerca delle cause. Davvero non esistono metodi per scoprire le cause altri dal fare appello alle indicazioni dei testimoni o degli attori? Perché, messi dinnanzi ai fenomeni umani, ai fenomeni sociali, saremmo in condizioni più sfavorevoli che di fronte a fenomeni della natura? Perché anche là non potremmo cercare le cause e le leggi dall’esterno? Lascio il lato della sociologia, che è ancora troppo giovane per servire da esempio. Ma ecco la psicologia, che esiste da molto tempo. In psicologia si cerca di studiare l’inconscio e vi si perviene, senza per questo fare delle costruzioni per aria.
Seignobos. - I metodi di osservazione sono ben migliori.
Durkheim. - Se mai, in un ambito di ricerca, il metodo introspettivo sembrava indispensabile, era per lo stesso studio della coscienza individuale. Poiché qui ci si occupa di fenomeni interiori per definizione. E pertanto, malgrado le difficoltà, lo studio psicologico dell’inconscio e lo studio oggettivo del conscio sono possibili e riusciti. Perché l’uno e l’altro sarebbero impossibili per i fenomeni sociali e storici?
Seignobos. - È davvero possibile studiare l’inconscio in psicologia? Non ne so nulla, e credo che non si arrivi ancora ad alcuna conclusione certa. Ma, in ogni caso, lo psicologo dispone di procedimenti di ricerca che ci sono rifiutati. Innanzitutto lavora su dei soggetti, ossia su dei fatti completi, e non su dei frammenti conservati dal caso; può osservare i catalettici e soprattutto gli alienati. Lo psicologo vede gli eventi srotolarsi davanti a lui. In storia, al contrario, gli elementi stessi ci mancano, non abbiamo mai altro che il riflesso degli eventi percepiti e relazionati da altri. Lavoriamo forzatamente su dei materiali di seconda mano, poiché, per definizione, non sappiamo delle cose che ciò che ne dicono coloro che le hanno vissute.
Durkheim. - Questo lavoro sarà più difficile, più complesso: ecco tutto; i processi restano validi.
Seignobos. - No, se sono gli stessi elementi a mancarci.
Durkheim. - Allora bisogna rinunciare a fare della storia. Se i dati storici sono accessibili in qualche modo, allora sono comparabili e il metodo oggettivo deve venir loro applicato. Altrimenti non c’è più nessuna storia.
Seignobos. - Chiedo scusa. Noi disponiamo di qualche dato
sufficiente per stabilire delle relazioni di causa-effetto, che non ci
permettono però di determinare e di spiegare l’inconscio.
Durkheim. - Ma qui non è questione di inconscio; la difficoltà non sta là. Si tratta della conoscenza delle cause, e io sostengo che non possiamo in alcun modo, per sapere quale è la causa di un evento o di una istituzione, limitarci a interrogare gli attori di questo evento e domandare i loro sentimenti.
Seignobos. - State esagerando, esistono dei casi in cui i
testimoni non si sbagliano: hanno ben visto che Guglielmo d’Orange è partito
per l’Inghilterra poiché non temeva più l’esercito di Luigi XIV.
Durkheim. - Non dico che queste interpretazioni siano prive di interesse. Quando il malato crede di avere la febbre, la sua sensazione, vera o falsa che sia, è un fatto interessante di cui il medico deve tenere conto. Lo stesso qui. Ma già il vostro esempio prova che un altro metodo è possibile. Poiché come potreste fare una selezione tra i casi in cui i testimoni dicono il vero e i casi in cui si sbagliano, se non avete altro criterio che il ricorso ai testimoni? Il medico consulta il malato, deve cominciare da lì, ma la risposta di quest’ultimo non deve essere che un dato tra altri dati, e tutti questi dati domandano di essere elaborati metodicamente, senza che nessuno di essi possa fornirci direttamente e immediatamente la vera causa. Qualunque sia il valore delle indicazioni contenute nei documenti, occorre quindi criticarle, organizzarle con metodo e non registrarle. Vedete come la questione da voi posta sia ambigua. Non si tratta più, per il momento, di conscio o di inconscio, ma ritorniamo al problema che ci aveva occupati l’anno scorso: la conoscenza delle cause in storia. Avete mescolato a questa questione qualche considerazione sull’inconscio che non ha nulla a che vedere con essa. Evidentemente, esiste dell’ignoto in storia; è un truismo, ma non interessa per niente il problema dell’inconscio.
Seignobos. - Ciò che mi sono domandato, è precisamente
quale sia la parte irriducibile dell’inconscio all’interno di questo ignoto
storico.
Durkheim. - Ma le due domande non hanno alcun rapporto. Su questo punto andrò anche più lontano di voi. Voi sembrate identificare il conscio con il conosciuto, come se ciò che è rischiarato dalla coscienza dell’attore individuale fosse più facilmente conoscibile del resto. In realtà, anche ciò che è cosciente è pieno di oscurità. Dirò quindi che il conscio e l’inconscio sono ugualmente oscuri, e che, nei due casi, la domanda sul metodo da seguire per arrivare alla conoscenza delle cause si pone in termini identici.
Seignobos. - Ma pertanto esistono dei fenomeni coscienti
che non sono sconosciuti. Guardate le lingue.
Durkheim. - Evidentemente le parole sono conosciute, ma quale senso si mette dietro queste parole? Nulla di più difficile da scoprire.
Ciò che è necessario cercare è un mezzo per comparare i dati storici, per stabilire delle serie di fenomeni che varino in modo parallelo; è attraverso questi accostamenti metodici che è possibile scoprire delle cause. E credo che sia possibile arrivarci. Voi dimenticate per davvero che negli ultimi cinquanta anni si è fatta molta strada in storia comparata: là sta tutta un’opera positiva che sembrate totalmente disconoscere.
Seignobos. - Ma anche i sistemi crollano ogni vent’anni.
Durkheim. - Se volete dimostrare che la scienza è sempre in perpetuo divenire, credo che saremo tutti d’accordo su questo punto. Tutti ammettono che la scienza avanza lentamente e non stabilisce mai che delle probabilità. Ma dal momento che in storia esiste un certo numero di dati positivi, dal momento che giudicate questi dati come sufficienti per fornire la trama di un racconto storico, perché diverrebbero insufficienti qualora si tratti di istituire una comparazione metodica? Da nessuna parte si trovano delle cause già pronte; sempre occorre che lo spirito le scopra, e per farlo occorre che proceda con metodo: perché dal fatto che i documenti storici devono essere criticati minuziosamente, dal fatto che sono corti, incompleti, frammentari, si conclude con l’impossibilità di una scienza storica? Ma, guardando da vicino, lo scarto tra i fenomeni della vita e ciò che accade in biologia non è ancora meno grande dello scarto tra la vita sociale e ciò che accade nella storia. Qui sta tutta la scienza.
Seignobos. - Al contrario, ciò che accade nei documenti è
infimo, se si pensa alla massa degli eventi del passato. In biologia, abbiamo a
che fare con degli insiemi concreti; in storia, non abbiamo che dei brandelli
di eventi.
Durkheim. - Cosa impedisce di comparare questi brandelli? Voi stesso riconoscete la loro solidarietà poiché li raggruppate secondo le epoche e ne estrapolate un quadro del passato.
Seignobos. - Abbiamo la vaga impressione che più serie di
fenomeni cambino allo stesso tempo, ma...
Durkheim. - Quando constato, in un numero di casi ben osservati e ben studiati, che quella organizzazione famigliare è legata a quella particolarità dell’organizzazione sociale, perché mi impedireste di stabilire un tale rapporto tra queste due serie di fenomeni?
Seignobos. - Perché non si ha quasi mai a che fare con dei
fenomeni sufficientemente analoghi per permettere una comparazione.
Durkheim. - Ma alla fine sono dei fatti; li constato, e voi sapete bene quanto di frequente si incontrino delle similitudini lampanti tra istituzioni di popoli diversi.
Seignobos. - Questi popoli sono sempre così profondamente
diversi.
Durkheim. - Ma quando, a proposito del matrimonio, constato, tra punti molto differenti del globo, delle identiche formalità e delle cerimonie tra loro comparabili su ogni punto, quando trovo che gli uomini e le donne vivono insieme alla stessa maniera, voi pensate che là non vi sia niente che valga la pena di comparare. Cosa concludete da tutto ciò?
Seignobos. - Nulla. Non conosco la causa di queste
somiglianze.
Lacombe. - Seignobos sembra dimenticare che i documenti,
consultati intrinsecamente e isolatamente, non possono mai certificare i fatti;
è al contrario la generalità e la somiglianza dei fatti che certifica i
documenti. Senza comparazione, nessuna certezza. Supponete di avere un
documento unico, e in apparenza autentico, ma riportante un fatto senza
precedenti nella storia; dubiterete probabilmente del fatto, e con ragione.
Seignobos. - Ma in storia la comparazione si riduce in
fondo all’analogia: non ci sono mai delle similitudini complete.
Lacombe. - Cosa importa? Senza comparazione, non c’è
certezza; e, d’altra parte, è la comparazione che fonda, che assicura la nostra
critica. Quando mi trovo di fronte a certi moventi che gli storici
attribuiscono agli antichi, sono incline al dubbio, poiché non riconosco, negli
uomini che mi si descrive, l’umanità che conosco; lo vedete, la comparazione è
sempre preziosa.
Seignobos. - D’accordo. È effettivamente attraverso vaghe
analogie con il presente che si giudicano e si criticano il più sovente i
fenomeni del passato, poiché trovare delle analogie veramente precise tra due
serie antiche e compararle accade solo raramente. Comparare vuol dire per lo
storico soprattutto riavvicinare ciò che trova al presente in cui vive.
Lalande. - Fino ad ora non abbiamo affrontato che la prima
questione, quella della conoscenza delle cause, dell’ignoto in storia.
Resterebbe da esaminare la seconda, quella di sapere sotto quale forma bisogna
rappresentarsi ciò che, nelle cause storiche, scappa alla coscienza
dell’individuo. È ciò a cui mirava Seignobos nell’ultima parte del suo testo,
quando si domandava: «Occorre fare intervenire una causa sui generis...,
la pressione esercitata dal corpo sociale sotto forma di tradizione e di
organizzazione collettiva. Condurrà ciò a ammettere una specie di fenomeni
particolare, differente dai fatti umani individuali? Occorre attribuire i
caratteri comuni la cui causa ci sfugge a un Volksgeist, a una Sozialpsyche
distinta dagli individui?»
Durkheim. - Questa domanda mi pare non rientrare in quella da noi trattata. Senza dubbio, Seignobos sembra credere che la coscienza collettiva è stata immaginata come un mezzo per spiegare l’inconscio in storia. È inesatto. Innanzi tutto, si può ammettere che esista l’inconscio, e negare al contempo ogni coscienza collettiva. Poi, se una coscienza collettiva esiste, deve comprendere dei fatti coscienti e renderne conto, allo stesso modo dei fatti inconsci. Poiché, infine, essendo lei una coscienza (sempre supposto che esista), bisognerà bene che sia cosciente da qualche parte.
Seignobos. - Dove, dunque? Mi piacerebbe molto sapere dove
è questo luogo in cui la collettività pensa in modo cosciente.
Durkheim. - Non devo affrontare qui la questione della coscienza collettiva, che oltrepassa di molto il soggetto che ci occupa. Tutto ciò che tengo a dire è che, se ammettiamo l’esistenza di una coscienza collettiva, non l’abbiamo immaginata allo scopo di spiegare l’inconscio. Abbiamo creduto di scoprire certi fenomeni caratteristici del tutto diversi dai fenomeni di psicologia individuale, ed è per questa via che siamo stati condotti all’ipotesi che voi attaccate qui, e non ne so il perché.
Lalande. - Ciononostante sembra che le due questioni siano connesse: la soluzione della prima può dipendere da quella della seconda. Se è vero che esiste uno spirito sociale collettivo, questo non basta forse per escludere il metodo che consiste nel cercare la spiegazione dei fatti storici nei motivi degli attori e nella coscienza che ne hanno? Il solo metodo legittimo sarebbe allora, come pensa Durkheim, di porsi dal punto di vista oggettivo, di comparare delle serie, di estrapolare delle leggi dalla constatazione di ripetizioni.
Durkheim. - Non vengo qui per esporre il mio metodo, ma per discutere quello che ci propone Seignobos. Vorrei pertanto sapere per quale motivo ci rifiuta il diritto di stabilire delle comparazione tra i dati storici.
Seignobos. - Nelle scienze positive, gli elementi sono
analoghi e conosciuti in modo preciso, sono omogenei e precisi, si possono
quindi comparare delle seri di fenomeni (corpi chimici ben definiti). In
storia, al contrario, ciò che noi compariamo, sono semplicemente delle cose che
si chiamano e che sono state chiamate allo stesso modo e questa identità nella
denominazione può essere puramente verbale. Ecco perché dico che i fenomeni
psicologici non sono comparabili tra di loro. Al contrario, quando il caso
vuole che abbiamo a che fare con dei fenomeni fisici (o fisiologici), la
comparazione diventa possibile. Così la famiglia può essere senza dubbio
studiata più agevolmente di altri fenomeni.
Durkheim. - Vi confesso che provo una viva sorpresa sentendo enunciare come evidente una proposizione contraddetta da tutto quello che so. Il punto di partenza dell’evoluzione domestica non è per nulla fisico. La maggior parte dei fenomeni famigliari, così come ci sono dati, non sembra discendere dal fatto della generazione. La generazione non è l’atto centrale e costitutivo della famiglia. Spesso questa è un gruppo di persone che non si sono neppure unite per i legami di sangue (la parte degli elementi consanguinei è spesso molto debole).
Seignobos. - Ma precisamente un tale gruppo non lo
chiamiamo più una famiglia. La famiglia è composta, storicamente parlando, da
elementi consanguinei.
Bloch. - Ma considerate il γένος
greco: non è del tutto provato che fosse composto di elementi consanguinei, né
che dovesse la sua origine alla consanguineità.
Lacombe. - Il fatto essenziale che vi permette di
classificare il membro della famiglia è il fatto della collaborazione.
Quando il figlio lascia il padre, quando non collabora più con lui, non è più
parte della famiglia, perde addirittura il suo diritto a ereditare. Al
contrario, chi è stato ricevuto, ammesso a collaborare, entra solo per questo
motivo nella famiglia. Così, nel medioevo, quando un uomo straniero per sangue
viveva condividendo il medesimo pane e il medesimo vino, diveniva coerede.
Seignobos. - Questa discussione mostra, meglio di quanto
avessi potuto fare, tutte le difficoltà a intendersi che si hanno in storia,
anche sulle nozioni più usuali e più chiare in apparenza. Poiché, infine, chi
mi prova che il γένος greco possa essere
assimilato a una famiglia nel senso con il quale noi intendiamo questa parola?
Bloch. - Voi dite che questo non è provato. Ma se il γένος
greco non è la famiglia nel senso attuale del termine, si può almeno ammettere
che ne tiene conto e che è stato concepito ad imitazione della famiglia.
Durkheim. - O, all’inverso, che la famiglia ristretta di oggi è concepita a imitazione del γένος.
Bloch. - Sono davvero spaventato dallo scetticismo di
Seignobos. A sentirlo, cosa resterebbe della storia? Pressappoco nulla. Ma, da
un altro lato, credo, contro Durkheim, che ci sia una distinzione profonda da
fare tra i metodi praticabili in storia e quelli delle altre scienze. Occorre
studiare i fenomeni storici, così come ci sono dati una volta per tutte, poiché,
per quanto possiamo fare, non riusciremo mai a ripeterli. Di qui la difficoltà
che abbiamo in storia nel formulare leggi, e l’impossibilità di ammettere con
Durkheim che le cause possono identificarsi con le leggi. Questo è vero per le
altre scienze, ma qui, poiché la ripetizione è impossibile, poiché pertanto non
possiamo isolare l’essenziale dall’accessorio, il discorso è diverso.
Potremo forse enunciare
delle leggi quando si tratterà di fatti storici molto semplici e grossolani
(come, per esempio, i fatti di geografia umana), ma bisognerà rinunciarvi
quando si arriverà ai fatti psicologici, così diversi e così complessi.
Durkheim. - Allora bisognerà anche rinunciare a formulare delle relazioni causali.
Bouglé. - Credo, come Durkheim, che ogni spiegazione
causale, per essere veramente una spiegazione, non possa mancare di fare
riferimento a delle leggi.
È vero che gli storici
credono di frequente di spiegare certi fenomeni attraverso le sole cause,
facendo astrazione delle leggi? Questo significa semplicemente che lasciano
nell’ombra, e senza esplicitarle, le leggi sulle quali riposano le loro
affermazioni.
A volte, tuttavia,
formulano queste leggi contro loro stessi: li si sorprende in flagrante delitto
di sociologia. È così che, recentemente, in un libro di Bloch, ho incontrato, a
proposito dei resti delle clientele che sono sopravvissuti nell’antica Gallia,
questa proposizione generale: il regime della protezione «si impone e
domina tutte le volte che lo Stato si mostra inferiore al suo scopo, ossia
incapace ad assicurare la sicurezza degli individui, sia che non abbia ancora
terminato di costituirsi, sia che abbia già cominciato a dissolversi». Si
potrebbero moltiplicare gli esempi di questo genere. Tutti tendono a provare
che non si può spiegare senza invocare delle leggi.
Bloch. - È, in effetti, una tendenza invincibile alla
quale lo storico difficilmente resiste, e questo mostra soltanto che dovremmo
essere più prudenti e circondare le nostre affermazioni con più riserve ancora
di quanto non facciamo.
Durkheim. - Credo in fondo di essere d’accordo con Bloch, a condizione di distinguere due cose profondamente diverse, e che la storiografia moderna non distingue abbastanza:
1° gli eventi storici;
2° le funzioni sociali permanenti.
Per quanto riguarda gli eventi, ci si trova in presenza di una massa indefinita di fatti, in mezzo ai quali lo spirito può difficilmente introdurre un ordine scientifico. Ammiro gli storici che possono vivere agevolmente in questa polvere di eventi caotici.
Ma oltre agli eventi, ci sono le funzioni, le istituzioni, i modi di pensare o di agire fissati e organizzati. In questo campo, le comparazioni diventano possibili: invece di essere sopraffatti dall’estrema diversità dei fatti dati, si è presto colpiti dal numero assai ristretto di tipi, della specie di povertà che si manifesta, quando si studia una medesima funzione presso diversi popoli o in epoche diverse. Non ho potuto ancora farlo che per i tipi di famiglia; ma ho constatato, attraverso i tempi, un numero davvero minimo di tipi veramente distinti. Ora, un tipo di famiglia è solidale a tutta l’organizzazione sociale; deve dunque essere più o meno lo stesso per le altre funzioni il cui insieme costituisce la collettività. Senza dubbio, non ho potuto studiare tutte le società, ho dovuto astrarre e lasciare da parte un certo numero di fatti. Ma tuttavia colpisce come si possano coordinare e ricondurre a qualche grande forma molto semplice le istituzioni famigliari di un grande numero di popoli. Questa identità è estremamente evidente, e mostra bene la possibilità di una vera scienza storica. Senza dubbio, per altre funzioni il lavoro sarà più complesso, ma le difficoltà non sembrano insormontabili. In ogni caso, lo storico ha il diritto e il dovere di intraprendere questo lavoro, invece di disperarsi.
Seignobos. - Purtroppo c’è una difficoltà fondamentale che
rende questi tentativi singolarmente precari: è che non abbiamo alcun
procedimento per costruire delle categorie veramente precise e comparabili; non
sappiamo mai al giusto cosa compariamo. Alcuni di questi accostamenti possono
essere ingegnosi, suggestivi, ma non hanno assolutamente nulla di scientifico.
Lacombe. - È che siete troppo esigente o troppo ambizioso,
volete sempre comparare insieme dei blocchi immensi di fatti, di eventi.
Bisogna cominciare con l’analizzare e il comparare dei frammenti. Per esempio
mi propongo di mostrare le ripercussioni simili che sono state provocate,
attraverso i tempi e i luoghi, da un medesimo tipo di cultura agricola.
Seignobos. - Evidentemente ci sono dei fenomeni più
semplici, per i quali un numero assai minimo di combinazioni è possibile (ad
esempio l’organizzazione famigliare). Ma considerate la vita politica, le
lingue, qui non v’è più nulla se non indeterminazione.
Bouglé. - Ma, nello studio delle lingue, si è precisamente
riusciti a individuare delle leggi, a stabilire delle relazioni intelligibili.
Seignobos. - Si sono soltanto scoperte delle leggi
fonetiche, e solo perché si aveva a disposizione un sostrato fisiologico, che
permetteva l’impiego di metodi sperimentali e anche grafici.
Durkheim. - Molti linguisti credono al contrario che si potrebbe introdurre con vantaggio il punto di vista sociologico nello studio delle lingue.
Seignobos.
- Ma non può portare che dell’oscurità; cosa possiamo comprendere del
meccanismo sociale delle antiche collettività? Molto poco, e unicamente per
mezzo di analogie con la nostra società di oggi.
Durkheim. - Mi sembra al contrario di comprendere le società australiane molto meglio delle nostre.
Seignobos. - Non intendiamo la stessa cosa con la parola comprendere.
Poiché, da parte mia, mi sembra di comprendere assai meglio le società attuali
che le australiane. È probabilmente una questione di immaginazione. Mi dispiace
soltanto che non riusciamo a studiare direttamente la questione dell’inconscio.
Bouglé. - Ma voi sembrate credere incessantemente che
l’inconscio possa essere assimilato all’ignoto. Perché rifiutate di applicare
ai moventi inconsci il processo di ricerca che applicate ai moventi coscienti?
Le vostre basi di ricerca sono le stesse, i vostri ragionamenti per indurre le
cause degli atti e degli eventi vanno bene allo stesso modo per le cause
inconsce che per le altre.
Seignobos. - Ma no: quando si tratta di motivi inconsci
non trovo nulla; è il niente.
Bouglé. - Chiedo scusa. La nostra esperienza
personale ci mostra bene allo stesso modo i motivi inconsci e i motivi
coscienti. Non ci insegna che molti dei nostri atti non possono spiegarsi che
attraverso delle cause che, nel momento dell’azione stessa, non arrivavano alla
nostra coscienza? Noi ci accorgiamo di continuo a posteriori dei moventi di
un’azione che ci erano sfuggiti. Possiamo quindi trovare nel passato sia dei
casi di motivazioni inconsce, così come dei casi di motivazioni coscienti.
Seignobos. - No, poiché queste esperienze delle quali
parlate non si trovano riportate nei documenti che constatano gli eventi e le
loro cause apparenti.
Bouglé. - Ma le cause inconsce sono altrettanto o così
poche nei documenti che le cause coscienti. In entrambi i casi, voi non
trascrivete il documento, vi sforzate di comprendere e di ricostruire lo stato
di spirito del suo autore. Prendete la storia di Tito Livio: credo che i
moventi inconsci che la guidano si leggano altrettanto facilmente che i moventi
coscienti e apparenti.
Seignobos. - Non credo molto a questa possibilità di
ricostruire così la psicologia degli individui o dei gruppi.
Lacombe. - Ma allora perché diavolo fate della storia?
Seignobos. - Per cercare delle relazioni tra delle serie di
fatti, e per comprendere il passato sul modello del presente.
Lacombe. - Ma in fondo ai fatti, ciò che cerchiamo sempre
è l’uomo; che sia molto difficile, è vero, ma l’obiettivo è sempre di arrivare
a cogliere il meccanismo psicologico delle azioni e degli eventi.
Seignobos. - Il mio scopo è molto semplicemente di
spiegare, se è possibile, attraverso quale catena di avvenimenti ben legati
siamo arrivati allo stato attuale. E sono incline a attribuire in questa
spiegazione una grande importanza ai motivi espressi dagli attori, poiché hanno
conosciuto direttamente i fatti.
Ciò che domando al
soggetto dell’inconscio è se può essere spiegato attraverso una serie di stati
interiori degli individui che agiscono in comune, o se è necessario fare
intervenire qualche cosa di esterno e di superiore agli individui?
Durkheim. - Ancora una volta, sotto il nome di inconscio, voi realizzate un’entità. Capisco che voi posiate la questione per tutti i fenomeni della vita collettiva: possiamo spiegarli attraverso delle cause individuali o è necessario ammettere delle cause specificamente sociali? Ma perché limitare la domanda ai fenomeni inconsci?
Seignobos. - Perché sono per noi più misteriosi e perché
siamo più portati ad ammettere per essi delle cause indipendenti dagli individui.
Durkheim. - Ma il fatto che gli eventi siano stati o no coscienti è di importanza secondaria per lo storico che cerca veramente di comprendere e di riflettere. Voi diminuite il vostro ruolo, proteggendovi dietro questi testimoni o questi attori che voi chiamate coscienti. Fintanto che la ricerca metodica non viene fatta, non sappiamo nemmeno se quel certo fenomeno dipende da motivi coscienti o inconsci; questo non è dunque un criterio preliminare: questa distinzione è il risultato del lavoro storico e non la sua guida. L’inconscio si esplica spesso attraverso il conscio o viceversa; l’inconscio non è sovente altro che una coscienza minore; brevemente, non ci sono domande speciali che si pongono per la conoscenza dell’inconscio. In realtà voi ponete, sotto una forma parziale, il grande problema della sociologia, quello della coscienza collettiva; è troppo generale per affrontarlo qui.
Seignobos. - Ponevo questa questione perché in storia
incontriamo spesso dei fenomeni inesplicabili, e che in apparenza ci sembrano
provenire da cause inconsce. È a causa di questo fenomeno che la «scuola
tedesca» e Lamprecht hanno fatto intervenire l’azione di realtà
sovra-individuali, e credevo che fosse in obbedienza a un sentimento analogo
che i sociologi contemporanei fossero stati condotti a porre una realtà
collettiva sui generis.
Durkheim. - Ecco l’errore. Non devo fare ipotesi sulle ragioni alle quali si è potuto ispirare Lamprecht, ma quelle che hanno determinato i sociologi contemporanei di cui parla Seignobos sono del tutto differenti. E questo mi porta a opporre alle due attitudini che avevate indicato, l’attitudine voltairiana che si limita a dichiarare che ci sono delle cose ancora sconosciute e l’attitudine mistica che ipostatizza il mistero del passato, una terza attitudine che è la nostra; essa consiste nel lavorare metodicamente per arrivare senza partiti presi, senza spirito di sistema a comprendere scientificamente il dato.
Seignobos. - Ma è precisamente l’attitudine voltairiana
quella alla quale sono incline.
Lalande. - Insomma, ci sarebbero due modi di intendere la
parola comprendere: quella dello storico e quella del sociologo. Per lo
storico, comprendere è rappresentarsi le cose sotto l’aspetto della motivazione
psicologica della quale abbiamo attualmente il modello in noi stessi; per il
sociologo, al contrario, è rappresentarsele sotto l’aspetto di casi
particolari, che possono essere ricondotti a una legge o almeno a un tipo
generale già posto. Sono due problemi senza alcun rapporto l’uno con l’altro, e
quindi l’opposizione apparente viene solo dal fatto che li si designa con una
stessa parola, a meno che non li renda solidali attraverso altre ipotesi.
Durkheim. - In una parola, non accettiamo tali e quali le cause che ci sono indicate dagli attori stessi. Se sono vere, si possono scoprire direttamente studiando i fatti stessi; se sono false, questa interpretazione inesatta è essa stessa un fatto che va spiegato.
[...]
Lalande. - Mi sembra che Seignobos e Durkheim siano
d’accordo nell’ammettere entrambi che gli individui non possono mai essere dati
in modo isolato, prima o al di fuori della società, e che non si può nemmeno
supporli senza supporre nello stesso tempo quella.
Durkheim. - Accettiamo questa illusione e diciamo che Seignobos ammette come me che il paese cambia gli individui.
Seignobos. - Sia, ma a condizione che il paese non sia
concepito che come l’insieme degli individui.
Durkheim. - Mettiamo, se preferite, che l’assemblaggio cambia ciascuno degli elementi assemblati.
Seignobos. - Ammetto questa tautologia.
[1] C. Seignobos, L’inconnu et
l’incoscient en histoire, in «Bulletin de la Société Française de
Philosophie», 8, 1908.