di Davide Guerra
Ad inizio Novecento, sulle maggiori riviste francesi di ambito storico, sociologico e filosofico, cominciarono ad apparire alcuni articoli di giovani studiosi, per lo più di formazione filosofica ma presto convertitisi alla sociologia. I nomi che ricorrevano maggiormente erano quelli di Bouglé, Hertz, Mauss, Simiand. Ad accomunare questi giovani e brillanti studiosi era la loro appartenenza a quella che si è soliti definire école durkhemienne, ovvero a quel circolo di studiosi facenti capo al sociologo alsaziano Émile Durkheim e alla sua rivista, l’«Année Sociologique»[1].
Attraverso l’«AS», Durkheim si proponeva la creazione di un vero e proprio atelier de la recherche che, attraverso un lavoro sistematico di recensioni delle ricerche condotte nelle varie sciences spéciales, mettesse a disposizione dei sociologi tutta una serie di materiali sui quali lavorare. È lo stesso Durkheim a dichiararlo nella Préface al primo numero della rivista[2]. L’«AS» non ha come scopo fornire un quadro annuale dello stato in cui si trova la disciplina sociologica. Un tale compito sarebbe «di mediocre utilità»[3], soprattutto perché la sociologia è ancora una disciplina giovane. Proprio per questo motivo è necessario favorirne lo sviluppo e, in quest’ottica, ciò che maggiormente preme a Durkheim e ai suoi collaboratori è fornire i sociologi del materiale necessario per una rielaborazione originale. Storia del diritto, dei costumi, delle religioni, scienza statistica, scienza economica etc.: un sociologo deve poter attingere gli elementi sui quali costruire il suo lavoro da tutte queste discipline. Non farlo significherebbe venir accusati di compiere «un vuoto esercizio di dialettica»[4].
Tuttavia l’«AS» non si deve limitare a questo. Lo scopo principale è infatti un riavvicinamento di alcune scienze speciali alla sociologia.
Qui si entra nel cuore del discorso durkheimiano poiché, come egli stesso ammette, parlando di riavvicinamento di alcune scienze speciali alla sociologia «è soprattutto alla storia che pensiamo [...]. Sono rari, anche oggi, gli storici che si interessano alle ricerche dei sociologi e sentono che queste li riguardano»[5]. Questo disinteressamento è quanto mai dannoso, sia per i sociologi che per gli storici: ai primi la storia fornisce la base sulla quale fondare l’intero edificio della sociologia, ai secondi la sociologia (e soprattutto il suo metodo d’indagine) serve per dare alla disciplina storica il rango di scienza. Infatti «la storia non può essere una scienza che nella misura in cui spiega, e non si può spiegare che comparando »[6]. La storia deve pertanto dismettere i panni di semplice annalistica e cominciare a comparare. È necessario «condurre lo storico a oltrepassare il suo ordinario punto di vista, a estendere i suoi sguardi al di là del paese e del periodo che si propone più specificamente di studiare, a preoccuparsi delle questioni generali che i fatti particolari da lui osservati sollevano »[7].
Finalmente Durkheim rivela lo spirito più vero che anima la sua impresa: un riassorbimento della storia nella sociologia. Se la storia vuole diventare scienza deve necessariamente usare il metodo comparativo, «il solo mezzo pratico di cui disponiamo per rendere le cose intelligibili»[8]; ma, proprio dal momento in cui inizia a comparare, «la storia diventa indistinta dalla sociologia»[9]. Storia e sociologia non sono discipline in conflitto ma, per loro stessa natura, tendono l’una verso l’altra. Sono chiamate a confondersi in una disciplina comune, dove gli elementi di entrambe si ritroveranno combinati e, finalmente, unificati. «Creare degli storici che sappiano vedere i fatti storici in sociologici, o, è la stessa cosa, dei sociologi che possiedano tutta la tecnica della storia, ecco lo scopo che occorre perseguire da una parte e dall’altra»[10].
Solo a questa condizione la sociologia potrà fornire spiegazioni in grado di cogliere pienamente tutta la complessità dei fatti sociali, evitando di rimanere su un piano eccessivamente generale e, pertanto, superficiale. Attraverso l’unione con la storia, lo scienziato sociale non dovrà più fare marcia indietro nei confronti del fatto particolare, ma potrà comprenderlo all’interno della sua spiegazione. Per mezzo della comparazione i fatti sociali, tutti i fatti sociali[11], potranno finalmente essere raggruppati in tipologie dalle quali estrarre leggi (il che, secondo Durkheim, è propriamente il compito di ogni scienza).
Resta tuttavia da appurare che cosa Durkheim intenda per fatti sociali. Se la Préface del 1986 manca di una definizione rigorosa è solo perché questa era già stata data l’anno precedente quando erano apparse Le regole del metodo sociologico[12]. Delineare il metodo che la sociologia deve utilizzare per diventare scienza non basta. Bisogna infatti spiegare in modo scientifico quale sia l’oggetto di questa scienza.
Fin dalla Prefazione alla prima edizione delle Règles, Durkheim si lamentava della scarsa abitudine «a trattare scientificamente i fatti sociali»[13]. Comunemente si usa questa qualifica senza molta precisione applicandola «a tutti i fenomeni che si verificano all’interno della società»[14]. Ma una tale considerazione porterebbe a etichettare come sociali anche i semplici gesti del bere, del mangiare, del dormire e del ragionare. Tuttavia, se le cose stessero davvero in questo modo, «la sociologia non avrebbe un oggetto proprio, ed il suo dominio si confonderebbe con quello della biologia e della psicologia»[15]. La sociologia durkheimiana, al contrario, aspira alla qualifica di scienza e, pertanto, deve definire il suo campo di indagine.
«Vi sono […] modi di agire, di pensare e di sentire che presentano la notevole proprietà di esistere al di fuori delle coscienze individuali»[16]. I doveri dettati dal diritto e dai costumi, le credenze e le pratiche della vita religiosa, il sistema dei segni che utilizzo per esprimermi, il sistema monetario sono cose che esistono prima dell’individuo proprio «perché esistono al di fuori di lui»[17]. Oltre a essere caratterizzati dall’esistenza esteriore rispetto all’individuo, i fatti sociali dispongono di un notevole potere coercitivo. «Indubbiamente, quando mi conformo ad essi di mia spontanea volontà, questa coercizione non si fa sentire, o si fa sentire poco, perché è inutile. Ma essa rimane tuttavia un carattere intrinseco di tali fatti[18]». Ad esempio «se cerco di violare le regole del diritto, esse reagiscono contro di me in modo da impedire il mio atto»[19].
Attraverso queste connotazioni Durkheim definisce le specificità dei fatti passabili di indagine sociologica: «essi consistono in modi di agire, di pensare e di sentire esterni all’individuo, e dotati di un potere di coercizione in virtù del quale si impongono ad esso. Di conseguenza essi non possono venire confusi né con i fenomeni organici, in quanto consistono di rappresentazioni e di azioni, né con i fenomeni psichici, i quali esistono soltanto nella e mediante la coscienza individuale. Essi costituiscono quindi una nuova specie, e a essi soltanto deve essere data e riservata la qualifica di sociali»[20].
Una volta definiti, i fatti sociali vanno osservati. L’osservazione ha in Durkheim una grande importanza: lo scienziato sociale, infatti, non è come il fisico o il chimico ai quali è possibile riprodurre in laboratorio il fenomeno studiato. Il fenomeno sociale è irriproducibile e pertanto il sociologo deve essere in grado di osservarlo, per così dire, in presa diretta e nel modo il più oggettivo possibile. In questa operazione, tuttavia, il sociologo deve tenere presente una regola fondamentale: i fatti sociali vanno considerati «come cose»[21]. Ogni singolo uomo è naturalmente portato a riflettere sulle cose. Ma quest’operazione, lungi dall’essere definibile come analisi scientifica, semmai è «analisi ideologica»[22]. Questo metodo non può portare a risultati oggettivi poiché le nozioni che vengono così a formarsi provengono da una «esperienza volgare»[23]. Certo, queste idee possono avere un’utilità pratica[24], ma resteranno comunque false a livello teoretico. Al contrario, qualora voglia configurarsi come scienza, la sociologia deve considerare i fenomeni sociali come dei data. È necessario «considerare i fenomeni sociali in se stessi, distaccati dai soggetti coscienti che se li rappresentano; è necessario studiarli dal di fuori come cose esterne dato che si presentano a noi in questa veste»[25]. Presupposto di ogni metodo scientifico è perciò scartare sistematicamente tutte le prenozioni.
A conclusione del processo sta la spiegazione, vero scopo di ogni scienza. Scrive Durkheim: «quando ci si accinge a spiegare un fenomeno sociale, bisogna dunque ricercare separatamente la causa efficiente che lo produce e la funzione che esso assolve»[26]. La spiegazione implica pertanto due ordini distinti di problemi.
È tuttavia opinione comune che il fatto sociale possa essere spiegato unicamente ricorrendo a fenomeni psichici. Come può qualcosa essere nel tutto se prima non è nella parte? Ma una tale obiezione finirebbe per snaturare il fatto sociale: se era stato definito come in grado di esercitare dal di fuori delle pressioni sull’individuo (carattere normativo del fatto sociale), ciò significa che non deriva da alcuna coscienza individuale: la sociologia è irriducibile alla psicologia. Se viene escluso l’individuo, la causa efficiente dei fenomeni sociali non potrà che essere cercata nella società. Il tutto «non è identico alla somma delle sue parti […]. Aggregandosi, penetrandosi, fondendosi, le anime individuali danno vita ad un essere (psichico, se vogliamo) che però costituisce un’individualità psichica di nuovo genere»[27]. Solo tenendo presente questa precisazione, ci avverte Durkheim, si può comprendere la distinzione tra coscienza collettiva e coscienza individuale. E, qualche pagina dopo, finalmente giunge a enunciare la regola fondamentale: «la causa determinante di un fatto sociale deve essere cercata tra i fatti sociali antecedenti, e non già tra gli stati della coscienza individuale»[28].
Resta ancora da precisare come si debba indagare la funzione di un fatto sociale. Come Viano ha sottolineato[29], Durkheim si è sempre mostrato sospettoso nei confronti di questa nozione. Infatti era tradizione consolidata - soprattutto nel campo della sociologia “classica” - ritenere esaurito il compito di una scienza quando si era in grado di mostrare quale funzione avesse l’oggetto particolare indagato. Questo pregiudizio si rivela, agli occhi del sociologo alsaziano, come uno dei pericoli maggiori nei quali può incappare la scienza sociale: la finalità di una particolare istituzione sociale non ne costituisce la spiegazione. Infatti, come la fisiologia ha mostrato, l’organo è sempre indipendente dalla funzione che svolge. Questo presupposto può essere esteso efficacemente alla sociologia: nello studio dei fatti sociali, il sociologo si imbatterà frequentemente in sopravvivenze. Inoltre la maggior parte delle istituzioni svolge oggi una funzione totalmente diversa rispetto a quella originaria. L’unico modo per salvare un concetto così compromesso è ricondurlo al concetto di causa: se la causa dei fenomeni sociali andava cercata in fenomeni del medesimo tipo, allora anche la funzione dovrà essere sociale. In particolar modo, la funzione di un fatto sociale sarà costituita dal mantenimento della causa che lo ha prodotto. La seconda affermazione suonerà pertanto così: «la funzione di un fatto sociale deve venir sempre cercata nel rapporto in cui si trova con qualche scopo sociale»[30].
Solo a patto che lo scienziato sociale (o, è lo stesso, il sociologo-storico) segua queste regole, la sociologia potrà uscire dalla vuota speculazione e, configurandosi come scienza, realizzare il suo più alto compito di riforma della società.
[1] «Année Sociologique», Alcan, Paris, 1896. D’ora in poi indicata come «AS».
[2] É. Durkheim, Préface, in «AS», 1896; in seguito ripubblicato nella raccolta a cura di J. Duvignaud Journal sociologique, Presses Universitaires de France, Paris, 1969. Le indicazioni di pagina provengono da questa raccolta. Tutti i passi tratti da questo articolo sono di mia traduzione.
[3] Ivi, p. 31.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 32.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] É. Durkheim, Rappresentations individuelles et rappresentations collectives, in «Revue de métaphysique et de morale», VI, 1898, p. 273. Ristampato in Sociologie et philosophie, Alcan, Paris, 1924; tr. it. Sociologia e filosofia, Edizioni di Comunità, Torino, 2001, p. 137.
[9] É. Durkheim, Préface, cit., p. 32.
[10] Ivi, p. 33.
[11] Qui è tuttavia necessaria una precisazione. In questo articolo, Durkheim sembra rifiutare completamente la possibilità di uno studio dei fatti particolari («tutto ciò che è biografia sia degli individui, sia delle collettività è, per il momento, senza utilità per la sociologia», ivi, p. 35). A differenza di quanto si potrebbe credere, questo rifiuto non è da considerarsi definitivo. In realtà i fatti superficiali sono inutili solo «per il momento»: la sociologia è ancora una scienza giovane ed è proprio per questo motivo che non è ancora in grado di darne una spiegazione. Nulla esclude però che, con il suo sviluppo, anche questi fatti potranno un giorno essere compresi nella spiegazione. Anche Henri Berr travisò le reali intenzioni di Durkheim. Come Massimo Mastrogregori ricorda, il fondatore della «Revue de synthèse historique» obiettava che i fatti generali necessariamente devono comprendere in sé quelli particolari (M. Mastrogregori, Il genio dello storico, cit., p. 84). Quella di Berr è pertanto una lettura sbagliata. Poiché Durkheim scrive quel «per il momento», è più che legittimo leggere in nuce alla Préface la speranza che prima o poi la scienza sociologica sarà in grado di comprendere in sé ogni tipo di fatto sociale.
[12] É. Durkheim, Les règles de la méthode sociologique, Alcan, Paris, 1895 ; trad. it. Le regole del metodo sociologico, Edizioni di Comunità, Milano, 1996. Le indicazioni delle pagine da cui verranno tratte le citazioni fanno tuttavia riferimento alla ristampa del 2001.
[13] É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, cit., p. 5.
[14] Ivi, p. 25.
[15] Ibidem.
[16] Ivi, p. 26.
[17] Ivi, p. 25.
[18] Ivi, p. 26.
[19] Ibidem.
[20] Ivi, pp. 26-27.
[21] Ivi, p. 35.
[22] Ibidem.
[23] Ibidem.
[24] «Copernico ha da parecchi secoli dissipato le illusioni dei nostri sensi in merito ai movimenti degli astri; eppure continuiamo di solito a regolare la distribuzione del nostro tempo proprio in base a tali illusioni», ivi, p. 36.
[25] Ivi, p. 45.
[26] Ivi, p. 95.
[27] Ivi, p. 101.
[28] Ivi, p. 106.
[29]
C. A. Viano, Introduzione in É. Durkheim, Le regole del metodo
sociologico, cit., pp. XXI.
[30] É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, cit., p. 106. Nella sua già citata Prefazione, Viano ha notato come un tale modo di concepire la funzione di un fatto sociale comporti una sostanziale paralisi metodologica: se un fatto sociale agisce sempre in vista del suo mantenimento, allora diverrebbe impossibile rendere conto dell’evoluzione della società. Ogni società particolare tenderebbe a restare sempre uguale a se stessa, in una sostanziale staticità. In realtà le cose sono ben diverse: se Durkheim ricondurre il concetto di funzione a quello di causa intende nuovamente ribadire l’indipendenza della sociologia dalla psicologia: una spiegazione incentrata esclusivamente sul concetto di funzione ricondurrebbe necessariamente ogni istituzione sociale all’azione di personaggi coscienti. La paralisi metodologica in cui cade il sociologo alsaziano serve al contrario per chiudere il campo della sociologia da ingerenze esterne. Cfr. C. A. Viano, Introduzione, cit., pp. XXIII-XXIV.